Alcune questioni costituzionali da coronavirus

17 Marzo 2020
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Andrea Pubusa

 

Che il coronavirus ponga delicate questioni costituzionali è ormai palese. L’emergenza sanitaria si trasforma in emergenza democratica per una semplice ed elementare ragione: la democrazia è agorà, è piazza, è incontro, e discussione in contradditorio. Se la piazza è vietata, se è muta, la democrazia arretra o non c’è.
Prendiamo la Francia, limita la circolazione ma indice le elezioni comunali a Parigi e in altri luoghi. Prima di chiederci se è legittimo, balza agli occhi la contraddittorietà dei provvedimenti. Non possono le autorità adottare due misure in così palese cozzo fra loro. Tali e così poco lineari sono le decisioni assunte, che pare sia sospeso  lo svolgimento del secondo turno elettorale.
Comunque sia, la vicenda pone, paragdimaticamente, una questione centrale e ineludibile. In caso di emergenza deve prevalere l’esigenza democratico-partecipativa, rinviando a tempi migliori le elezioni o l’esigenza di rinnovare comunque gli organi rappresentativi?
In Italia si è posta già la questione della funzionalità delle Camere. E’ legittimo limitare la presenza dei parlamentari in modo di garantire la proporzione fra i gruppi, mediante accordi fra i rispettivi rappresentati? E ci possono essere succedanei alla presenza fisica in aula, ad esempio mediante la discussione in videoconferenza e il voto online?
Nei giornali i costituzionalisti mostrano grande varietà di opinioni. Il Fatto quotidiano, ad esempio, ne ha intervistato  sei e tutti hanno espresso idee differenti. C’è chi propone il voto a scaglioni pur di non chiudere le Camere (Azzariti), chi opta per il voto digitale (Ceccanti), altri è per il dibattio a distanza (Lanchester) o per l’autolimitazione delle presenze in modo da rispettare la proporzionalità fra gruppi (Lupo), contrastato da chi a questa soluzione preferisce l’uso della tecnologia (Onida), ma non manca chi evidenzai che la Costituzione non prevede deroghe al voto in aula (Pertici).
Ora, questa varietà di punti di vista mostra che l’emergenza c’è, non foss’altro perché -  ha ragione Pertici - la Carta non prevede eccezioni rispetto al voto in Aula, anche se - a ben vedere - è possibile il voto in commissione in sede deliberante, ossia saltando l’Aula. Lo ammette l’art. 72: il regolamento di ciascuna Camera “può altresì stabilire in quali casi e forme l’esame e l’approvazione dei disegni di legge sono deferiti a Commissioni, anche permanenti, composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari“. Tuttavia, “anche in tali casi, fino al momento della sua approvazione definitiva, il disegno di legge è rimesso alla Camera, se il Governo o un decimo dei componenti della Camera o un quinto della Commissione richiedono che sia discusso e votato dalla Camera stessa oppure che sia sottoposto alla sua approvazione finale con sole dichiarazioni di voto“. Pare che questa disposizione consenta accordi fra i gruppi, senza vincolo, ovviamente, per chi non concorda. In questi casi poi c’è la garanzia della trasparenza dei lavori perché l’articolo impone al regolamento di determinare “le forme di pubblicità dei lavori delle Commissioni“.
Ovviamente questa procedura speciale non è ammessa nelle materie più importanti. “La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera - recita l’ultimo comma dell’articolo 72 - è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale [cfr. art. 138] ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa [cfr. artt. 76, 79 ], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80], di approvazione di bilanci e consuntivi [cfr. art. 81]“.
In queste materie, dunque, torniamo ai quesiti e ai dubbi di cui si parlava. E qui  l’unica posizione attualmente accettabile è quella più semplice e ovvia: si deve votare in aula per la banalissima ragione che la Carta non prevede altre possibilità. Voto elettronico, in videoconferenza e simili non sono possibili de jure condito, a bocce ferme. Occorre un intervento del legislatore costituzionale, il quale deve trarre spunto dai fatti di questi giorni e dallo sviluppo straordinario delle attività a distanza per disciplinare l’ipotesi in cui le Camere non possano riunirsi normalmente. Qui c’è un principio generale indiscusso che aiuta: l’esercizio delle pubbliche funzioni, in quanto volte a soddisfare interessi pubblici, non possono soffrire soluzioni di continuità, ossia gli organi pubblici devono sempre funzionare. Questo principio depone a favore di soluzioni che consentano le deliberazioni anche con modalità eccezionali. I casi e i modi devono tuttavia essere disciplinati da legge costituzionale, con l’ovvia garanzia della democraticità dell’ordinamento.
Come si vede, le questioni che la pandemia solleva sono molto delicate e da affrontare con la massima consapevolezza, tenuto conto che si tratta di normare la funzione legislativa in situazione di massima crisi. Si tenga conto anche del fatto che la discussione e il voto a distanza sono possibili fintanto che i parlamentari son capaci d’intendere e volere e se un virus li rendesse incapaci o ne determinasse il decesso? Il discorso può replicarsi per il governo.
Insomma, c’è molto da fare e da discutere. L’unica cosa che non si può fare è fingere che gli scenari ipotizzati siano solo casi di scuola.

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