La difesa della salute fra federalismo e centralismo

4 Maggio 2020
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Antonello Murgia

Nelle scorse settimane, stimolato dalle falle del sistema evidenziate dall’emergenza Coronavirus e dall’intervista del Messaggero a Sabino Cassese, in questo sito si è sviluppato un interessante dibattito su come riportare in carreggiata la macchina della salute che negli ultimi 20 anni se n’è allontanata. Senza voler fare il giurista, sono convinto anch’io che la Costituzione non debba essere toccata perché i suoi principi sono sempre validi e perché quando la si è toccata, magari con le migliori intenzioni, i risultati sono stati disastrosi: la Costituzione deve essere applicata e non stravolta. Dico questo tenendo conto da un lato delle considerazioni di Massimo Villone sul fatto che un quadro unitario del sistema salute sia ancora possibile dopo le modifiche del Titolo V della Costituzione, ancorché da queste ostacolato, e dall’altro che, come hanno sottolineato nel tempo i giuristi, introdurre elementi di decentramento in uno Stato con un impianto unitario, ha un significato ben diverso da quello di costituire uno Stato unitario federando Stati preesistenti come accaduto ad esempio negli USA. Ma ciò che è stato è stato e auspicherei che errori del passato ci servissero di monito per evitare di usare le modifiche Costituzionali anche per decidere cosa cucinare per pranzo. Premesso ciò, insieme al fatto che ritengo il federalismo, il decentramento, una conquista democratica, il mio parere è che la devoluzione alle Regioni in campo sanitario abbia prodotto disuguaglianze che occorrerebbe correggere e che la cosa sia possibile senza tirare in ballo ancora una volta la Costituzione. E sono convinto che, nella condizione data, la discriminante di gran lunga principale non passi attraverso la direttrice centralismo/federalismo, anche se la devoluzione alle Regioni di compiti che prima erano dello Stato è intervenuta accentuando alcune caratteristiche negative. Le cose migliori, come promozione della salute in Italia, sono avvenute negli anni ’80-‘90’ quando è entrata progressivamente in funzione la L. 833/1978 istitutiva del SSN e quando l’assetto del sistema era più centralizzato. Si potrà obiettare, non senza ragione, che la condizione allora era molto diversa da quella attuale nella quale una grave crisi economica, che riduce brutalmente le risorse a disposizione, ha influito enormemente di più di quanto non abbia fatto la riforma del Titolo V del 2001. Aggiungerei che, se prendiamo due Regioni guidate dalla stessa maggioranza, della stessa area geografica e con analogo livello culturale e tenore di vita come la Lombardia ed il Veneto, vediamo che i risultati della pandemia in corso (dopo che il decentramento sanitario ha dispiegato i suoi effetti) sono stati molto diversi. E non è che il governatore Zaia, ideologicamente, non sia affine al suo omologo lombardo: ricordo, per fare solo un esempio, che nel luglio scorso, quando la proposta di autonomia differenziata era molto più forte essendo la Lega al Governo, Zaia si esprimeva in termini di “Autonomia questione di vita o di morte” e proponeva apertamente l’istituzione di LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni) differenziati in ragione della ricchezza delle varie Regioni. E allora cosa ha fatto sì che ad oggi, ogni 100.000 abitanti, il Veneto abbia 361 malati e 29 morti, mentre la Lombardia ne ha avuto rispettivamente 739 e 135? Sottolineo il dato della mortalità: in Lombardia ad oggi è stata 4 volte tanto (e 1 mese fa, per i noti ritardi organizzativi lombardi, era addirittura 6 volte tanto). In piccola parte avrà influito la differente densità di popolazione (che in Veneto è il 60% di quella in Lombardia), ma ciò che ha influito in misura decisiva è il diverso modello di sanità che le 2 Regioni hanno portato avanti. Da un lato la Lombardia, capofila del modello liberista (voucher, gestore sanitario, privatizzazione spinta delle prestazioni, etc.) e dall’altro il Veneto che ha mantenuto una buona Medicina del territorio ed una gestione di gran lunga pubblica del sistema, che le ha consentito la padronanza dell’emergenza con costi molto inferiori non solo in termini di vite umane, ma anche economici. Vale la pena notare che il Veneto rivendica con forza l’autonomia dallo Stato, ma al suo interno applica (L. Reg. n.19/2016) un sistema fortemente centralizzato nella c.d. “Azienda Zero”, mentre la Lombardia applica un modello più decentrato (L. Reg. n.23/2015). Tutto questo per dire, come peraltro si sa da decenni, che in sanità la bontà del sistema e il suo rispetto del dettato costituzionale ha a che fare soprattutto con la gestione pubblica (e non con il solo ruolo programmatore pubblico) nei settori strategici e che la cosa ha finora sostanzialmente prescisso dalla scelta federalista/centralista.
La prima svolta negativa nella qualità del Servizio Sanitario post-riforma sanitaria è stata l’aziendalizzazione introdotta con il D.Lgs. 502/1992 dal Governo Amato I con ministro della Sanità Francesco De Lorenzo (leader di quel partito che 14 anni prima aveva votato contro l’istituzione del SSN). Con tale decreto, le U.S.L. vennero trasformate in A.S.L. (Aziende Sanitarie Locali), enti strumentali della Regione di appartenenza, dotati di autonomia imprenditoriale e che applicavano “modelli organizzativi dei servizi in funzione delle specifiche esigenze del territorio e delle risorse effettivamente a disposizione”. Oltre alla regionalizzazione delle Unità Sanitarie si introduce dunque un’altra importante novità, quella delle compatibilità economiche, che significa che chi ha più risorse potrà destinare più fondi alla tutela della salute e chi ne ha meno dovrà accontentarsi. E i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), che quello stesso D.Lgs. 502/1992 presentava come garanzia di erogazione a tutti delle prestazioni necessarie, si rivelarono presto per ciò che erano: il minimo indispensabile che la Regione era in grado di assicurare, sulla base sempre delle suddette risorse disponibili. E fu così che, mentre la ricca Lombardia inventava i voucher che assicuravano la fornitura di prestazioni riabilitative anche a chi non aveva nulla da riabilitare (con tante grazie dai bottegoni degli amici), la povera Sardegna, come la generalità delle Regioni meridionali, cominciò a tagliare prestazioni a chi ne aveva bisogno.
Per rimediare, non siamo costretti, a mio avviso, a scegliere fra il modello in atto e la proposta di Cassese: l’unitarietà del sistema a garanzia di una diffusa e omogenea tutela della salute, non richiede affatto che la gestione sia statale: essa può tranquillamente essere mantenuta regionale, come peraltro era già prima del D.Lgs. 502. In un regime liberista come quello attuale, ciò che fa la differenza rispetto al diritto alla salute non è la maggiore o minore autonomia, ma soprattutto l’entità del finanziamento del sistema. Ed essendo stato questo sottofinanziato da tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi 20 anni, la possibilità di salvaguardare in misura accettabile il diritto, dipende dalla capacità della Regione di mettere a disposizione finanziamenti supplementari. Oppure dalle possibilità economiche dei singoli cittadini che mettono le mani in tasca per pagare ciò che il Servizio sanitario non riesce più a garantire: il IX Rapporto Rbm-Censis sulla Sanità pubblica, privata e intermediata, presentato al Welfare Day 2019 ci dice che “sono 19,6 milioni i forzati della sanità a pagamento”. E’ del tutto evidente come in questo caso sia difficile poter continuare a parlare di diritto fondamentale esigibile. Ma c’è di più, perché in realtà l’invocazione delle compatibilità economiche ed i tagli conseguenti non comportano normalmente un risparmio: infatti, il maggiore ricorso ai privati conseguenza dell’allungamento dei tempi d’attesa, produce un aumento della spesa che è stato trattato generalmente con nuovi tagli, in un circolo vizioso il cui punto d’arrivo, se non si inverte la tendenza in atto, è una parvenza di sanità pubblica per gli indigenti ed un succoso mercato privato per tutti gli altri (v. modello USA).
E se il criterio della spesa storica (finanziamento di ciascuna Regione sulla base di quanto speso l’anno precedente) in vigore negli anni ’70 era fonte di sprechi ed inefficienze, il criterio efficientista del costo standard introdotto con il c.d. federalismo fiscale (L. 42/2009 e D.Lgs 216/2010) mise una toppa che, per le Regioni più povere, era peggio del buco. Ciò perché, come ci ricordava don Milani, “non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”: garantire la salute in una ASL che copre una parte di una grande città ha, per esempio, costi molto minori rispetto alla ASL dell’Ogliastra che ha una popolazione molto inferiore e dispersa su un territorio vasto e povero di infrastrutture. E così, prendere come riferimento la media delle 5 Regioni più “virtuose” per stabilire l’entità del finanziamento delle altre, ha il sapore dell’ingiustizia: per nostra fortuna, chi ha lavorato all’implementazione di quelle leggi del 2009-10, ha messo a punto un sistema che fa riferimento non al costo, ma al fabbisogno standard, apportando delle modifiche alle quote spettanti a ciascuna Regione sulla base soprattutto dell’età (sostanzialmente, meno di un anno = peso maggiore; 1-65 anni = peso standard; oltre 65 anni peso crescente con l’età). E a questo si aggiunge un meccanismo perequativo (che quantitativamente è però di entità molto minore) che interviene sull’IVA che lo Stato restituisce alle Regioni, una parte della quale viene accantonata per realizzare le compensazioni.
Ci sono poi altri modi, che passano per lo più inosservati, con i quali il regionalismo aumenta di fatto le disuguaglianze sanitarie dei più deboli. Un esempio è l’erogazione gratuita dei nuovi farmaci. Una volta che l’AIFA ne autorizza l’immissione in commercio, per la gratuità (e le nuove molecole costano in genere molto), il farmaco deve essere inserito nel Prontuario Terapeutico Regionale (PTR): a questo provvede una Commissione che si riunisce periodicamente. Mi sono occupato di un farmaco contro l’artrite reumatoide che da oltre un anno veniva erogato gratuitamente in altre regioni e per il quale, così mi riferiva il funzionario dell’Assessorato alla Sanità, occorreva attendere l’esame da parte della Commissione; ma il funzionario non poteva dire, neanche orientativamente, quando tale esame avrebbe potuto avvenire. E’ facile dedurne che anche l’inserimento nel PTR viene usato da chi ha problemi di bilancio come meccanismo di contenimento della spesa, creando così disuguaglianze fra chi ha la borsa piena e chi ce l’ha semivuota. E il discorso vale allo stesso modo per le attrezzature nuove o da rinnovare, per l’ammodernamento delle strutture, etc.
Infine un altro elemento dall’effetto devastante sul diritto alla salute sul quale ho avuto occasione ripetutamente di lamentarmi in ambito sindacale e sul quale spero in un’inversione di rotta, è la crescita, nei rinnovi contrattuali, di accordi di welfare sanitario detto integrativo, ma in realtà ampiamente sostitutivo, che reintroduce quel corporativismo sanitario con prestazioni legate all’attività lavorativa che era presente nelle Mutue ereditate dal fascismo e di cui la L. 833 aveva fatto giustizia.
E allora credo che anche in materia di salute il principio più importante da far valere sia quello della solidarietà, indispensabile per contrastare il divario sempre più preoccupante fra ricchi e poveri. Ciò che incide in misura preponderante è l’opzione di fondo fra interessi della collettività e interessi di un capitale coccolato dall’ideologia liberista. Il potere regionale ha prodotto risultati apprezzabili quando spirava un vento democratico e maggiormente partecipativo, anche se con legislazione ad esso meno favorevole (Titolo V originale), mentre sta producendo risultati negativi ora che, pur con maggior decentramento del potere decisionale, siamo preda del liberismo, al centro come in periferia.
E il sottofinanziamento della sanità, accentuato dal pareggio di bilancio introdotto in Costituzione nel 2012 con effetti a partire dal 2014, apre una voragine fra regioni ricche e regioni povere: se non si rimuove questo macigno, né l’opzione centralista, né quella federalista potranno ridurre le gravi disuguaglianze regionali in tema non solo di salute, ma anche degli altri diritti sociali.

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