Carbonia. Operai e contadini nuovo blocco sociale anche in Sardegna nel nome di Gramsci

31 Gennaio 2021
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Gianna Lai

Nuova puntata domenicale sulla storia di Carbonia dal 1 settembre 2019.

Come spiega bene  Girolamo Sotgiu, le elezioni amministrative e la campagna per la Costituente e per il Referendum avevano  messo in evidenza i contrasti,  in particolare tra il Pci e la Dc, ‘pur nell’unità formale che ancora esisteva a livello di governo e nella stessa Consulta regionale’.
Secondo lo studioso, quello dei comunisti rimaneva il primo tentativo “di far propria la protesta tradizionalmente rivolta contro lo Stato delle grandi masse popolari di contadini, pastori, operai, della quale i sardisti avevano sino ad allora reclamato l’esclusiva”, che non portasse alla frantumazione  dell’unità del paese. Anzi la rafforzasse, in tempi di politica di unità nazionale,  facendo  però i conti con la “difficoltà a crescere organizzativamente  e a esercitare una egemonia sulle grandi masse  popolari”. Perché, come dice il professor Giovanni De Luna, Gli umori che ” serpeggiavano nel Nord e nel Sud dell’Italia di allora,  segnano una sorta di fiume carsico che attraversa tutta intera la nostra storia novecentesca e che ha visto affiorare forti spinte centrifughe nei due periodi immediatamente successivi alle due guerre mondiali, entrambi caratterizzati dal sorgere di partiti e di movimenti che hanno cavalcato un’opposizione radicale al centralismo dello Stato nazionale, alimentando una protesta a sfondo etnocentrico, in grado di mobilitare settori significativi dell’opinione pubblica. Era stato così con l’esperienza del Partito Sardo d’azione (ma anche dei movimenti combattentistici e del partito dei contadini) nel primo dopoguerra, fu così……, con il separatismo siciliano tra il ‘45 e il ‘47″.
A specificare meglio il contesto sardo, Girolamo Sotgiu definisce la battaglia del PSd’az sull’autonomia in quanto istituzione di  nuovi rappporti tra lo Stato e la regione. E, rievocando i temi della battaglia del primo dopoguerra, “la istituzione di un regime di autonomia politico-amministrativa nel quadro di una organizzazione federale dello Stato”. Verso un sistema di libertà economica che svincoli l’isola dalle barrirere doganali protettrici dell’industria settentrionale, una “struttura federale che riconosca ampia autonomia alle regioni o a gruppi di regioni”. Mentre fortemente moderato si mantiene il programma sul terreno sociale.
Ed allora,  come asseriva il già citato ‘Progetto di risoluzione dei compagni sardi’, bisognava “portare il partito sul terreno della lotta autonomistica, trovare un rapporto nuovo tra le masse operaie del bacino del Sulcis-Iglesiente e le popolazioni delle campagne, contadini e pastori”. Perché lo “sfruttamento di tipo coloniale” cui la Sardegna  è sottoposta dallo Stato italiano, provoca “giusto risentimento nelle popolazioni  e  giusta aspirazione a un regime di autonomia”, nel quale finalmente possa svilupparsi l’attività produttiva ed essere garantito il benessere dei lavoratori. “Le nostre miniere devono ritornare proprietà della Sardegna, sotto la gestione dei lavoratori sardi, la terra ai contadini sardi, i comuni amministrati da lavoratori sardi” intendendosi, per autonomia, “l’autogoverno del popolo, con esclusione dei capitalisti continentali, così  come dei grossi agrari sardi”. Chiaro il quadro tracciato dal professor Sotgiu nell’analisi  dei documenti di partito, così sugli interventi di Palmiro Togliatti per l’avvio di un processo di rinnovamento della   Sardegna, protagonisti classe operaia, contadini e ceti medi. Che deve sfociare, secondo Renzo Laconi, fortemente sostenuto in questo da Togliatti, come si legge nella già citata pubblicazione di Maria Luisa di Felice, in una vera unità tra le classi lavoratrici del Nord e la popolazione dell’intero Mezzogiorno. Secondo  “la personale interpretazione dei gramsciani Alcuni temi della quistione meridionale”, dato che Laconi conosceva già le Lettere, prima ancora della loro uscita, nel 1947, avendo Togliatti affidato a lui e a Nilde Iotti la correzione delle bozze.
E se, come dice Giovanni De Luna, per “gli operai delle grandi fabbriche del Nord”, il tempo di guerra era stato anche “il momento delle grandi scelte di campo, segnate essenzialmente dal rapporto col Partito comunista”, ora  questa concezione viene spesso sottolineata nei documenti del tempo, in particolare per mettere in luce l’arretratezza del Mezzogiorno e della Sardegna. Dove a prevalere sono le “vecchie caste agrarie, già complici del fascismo, tuttora appoggiate al vecchio apparato burocratico statale, molto male epurato”.  Sempre grave  la tradizionale frattura tra Nord e Sud, l’Italia ‘disunita’ sul piano delle condizioni oggettive, demografiche, economiche  in cui si era vissuta la guerra ed ora, quindi, il dopoguerra. Una diversità strutturale tra Nord e Sud, cui rispondere con la “costituzione di un nuovo blocco storico tra  masse contadine  e  proletariato industriale”. Essendo le questioni agraria sarda e meridionale “questioni nazionali che solo l’unità fra le forze democratiche e antifasciste avrebbe definito, nel rispetto delle aspirazioni locali e senza intaccare l’unità organica dello Stato” come, di nuovo, sosteneva Renzo Laconi.
Così nella sintesi del V Congresso Nazionale del PCI a Roma, dicembre-gennaio 1945-46, “la necessità di costituire un nuovo blocco storico tra masse contadine e proletariato industriale e di attribuire ampie autonomie a Sicilia e Sardegna” 8). E del II Congresso Regionale Sardo del PCI,  maggio 1945, dal titolo, ‘Per la libertà della Sardegna, per la distruzione della miseria e della servitù, per l’autogoverno del popolo sardo’. Questo il programma futuro, come possiamo anche focalizzare  nei continui rimandi tra Velio Spano e Renzo Laconi, i loro interventi, cioé, e la loro partecipazione alla stesura degli atti  ufficiali di partito. Diceva Laconi, “autonomia strumento di emancipazione di tutto il popolo sardo,  la fine dello sfruttamento delle nostre risorse economiche”. Ed ancora, “il Pci deve affrontare e risolvere la questione meridionale, adeguare la situazione  politica e amministrativa del Mezzogiorno e delle isole a quella del Nord, attraverso un grande movimento organizzato di lavoratori”. La rinascita democratica e autonomistica, secondo Laconi, in una prospettiva di interventi riformatori nel settore agropastorale, “per la cui attuazione avrebbero assunto un ruolo di guida le masse contadine, unite alla classe operaia”. Ed ancora, “nell’autonomia, lo strumento basilare per la crescita democratica e civile e la trasformazione sociale ed economica  della Sardegna”. In sintesi, una volta “rotto lo sterile settarismo, maturate nuove allenze contadini e ceto medio, definito un indirizzo democratico capace di unire tutto il popolo sardo”,  l’autonomia sarebbe stata posta al centro delle rivendicazioni e la classe operaia schierata accanto alle forti compagini del Settentrione,  contro il capitale finanziario continentale e contro la vecchia classe agraria”.
E per Velio Spano, “il PCI alla testa delle rivendicazioni sardista e autonomista”, l’autonomia regionale  disegno della democrazia progressiva, nella particolarità della questione sarda 92. E sul radicamento del partito nelle campagne, partire dall’attuazione dei decreti Gullo, tenendo conto che in quegli anni, 1946-47, “erano state assegnate  terre, in tutte le province della Sardegna, per oltre 20 mila ettari”. E quindi creare alleanze operai e contadini, sopratutto “evitando gli errori dei socialisti, fermi ai piazzali delle miniere”, per non aver dato respiro  a quelle lotte, per non averle saldate alle rivendicazioni dei contadini e degli altri ceti,  pur se dalle miniere bisognava in ogni caso partire: lo sviluppo “della Sardegna legato al rilancio dell’industria mineraria e alla crescita di un forte movimento operaio”
.         Infine le note riguardanti la cultura, ancora secondo il ‘Progetto di Risoluzione elaborato per la Sardegna dai compagni sardi’, per tracciare un programma di profondo rinnovamento e di importanti riforme istituzionali: verso uno  Statuto regionale che “avrebbe sancito le autonomie comunali e istituito organi di autogoverno”. Alla Regione l’intervento “nell’economia dell’isola, la gestione dei grandi complessi industriali e degli istituti di credito nazionalizzati, il coordinamento delle provvidenze per l’agricoltura, la costituzione di un ente a base cooperativistica, per rifornire il mercato interno di prodotti industriali”. Mentre, per l’attuazione del programma, “si sarebbe cercato il concorso delle correnti progressiste presenti anche negli altri partiti”, delle associazioni democratiche, del mondo della cultura, in vista della costituzione di un ‘Centro studi sardi che avrebbe valorizzato le tradizioni, i documenti storici, le possibilità di sviluppo e di progresso connesse alla storia dell’isola”. Un  approfondimento voluto da  Renzo Laconi, come sottolinea ancora, a questo proposito, la professoressa Di Felice, per formazione e vocazione intellettuale  studioso di storia e di cultura sarda, essendo in realtà, il Progetto dei comunisti sardi, nato dalla collaborazione tra Laconi stesso e Luigi Longo.  Ed è così che conclude il discorso la studiosa, “il valore della cultura e della storia sarda entravano gramscianamente da protagonisti e non come supporto alle tesi autonomiste: riconosciuto il loro rilevante ruolo nella vita delle comunità, se ne istituzionalizzavano la tutela e la valorizzazione, per la rinascita della Sardegna’.

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