L’economia? Soffocata da ricchezze e diseguaglianze

26 Agosto 2021
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28 Giugno 2014

 Gianfranco Sabattini

Da un po’ di tempo le cronache economiche sono monopolizzate dal dibattito suscitato dalla recente pubblicazione del libro di un economista francese, Thomas Piketty, autore di “Le capital au XXIe siècle”. IL libro, del quale ”Mondoperaio n. 6/2914” ha pubblicato un commento, dimostra che la storia della distribuzione della ricchezza non è tanto l’esito di tendenze spontanee del sistema economico, quanto il riflesso d’una storia di esclusiva natura politica, in considerazione del fatto che l’azione politica solo a stento e in maniera casuale ha tentato di regolare quelle tendenze. Sulla base di dati d’archivio relativi al processo di produzione e di distribuzione delle ricchezza che si è svolto negli ultimi secoli nei Paesi occidentali, Piketty effettua una comparazione dell’evoluzione del rapporto tra il valore del capitale privato formatosi in ogni singolo Paese e quello del reddito nazionale; ciò gli consente di evidenziare che la causa del continuo aumento di tale rapporto è imputabile al fatto che la rendita del capitale, lungo l’intero periodo considerato, è sempre stata maggiore del tasso di crescita del reddito nazionale, sino al raggiungimento dello scarto massimo, in corrispondenza della “Belle Époque”, e di quello minimo, in corrispondenza dello scoppio dei conflitti mondiali del XX secolo. La contrazione della rendita del capitale in corrispondenza dei conflitti è stata determinata dalle distruzioni causate dagli eventi bellici e dal contemporaneo forte inasprimento della tassazione sulla ricchezza accumulata. Al contrario, dopo il secondo conflitto mondiale, si è verificato un ricupero continuo e progressivo della capitalizzazione patrimoniale, sino alla crisi del 2007/2008. Inoltre, la forte rivalutazione degli attivi finanziari e il processo di privatizzazione del patrimonio pubblico hanno concorso ad accelerare, a partire dagli anni Ottanta, la tendenza alla crescita del capitale privato. Al di là di queste cause, Piketty mette in evidenza la forte divergenza che si è verificata, durante tutto l’arco di tempo considerato, nei trend esaminati, nel senso che la crescita continua del capitale accumulato ha proceduto parallelamente all’aumento del rapporto tra il capitale ed il reddito nazionale; infatti, in Europa, per esempio, il patrimonio al netto del debito pubblico corrisponde oggi a circa sei anni di PIL e in Italia si avvicina al valore del PIL di sette anni. Nella tendenza alla continua espansione del patrimonio, Piketty rinviene una «legge fondamentale del capitalismo», secondo la quale un Paese che cresca più lentamente di quanto non risparmi accumula nel lungo periodo un grande stock di capitale, creando uno squilibrio che nel tempo tende ad approfondire le diseguaglianze distributive a danno della classe media. Per l’autore, questa tendenza di lungo periodo, comporta, di fatto, che il passato “divori l’avvenire”, in quanto i patrimoni ereditati trasformano i capitalisti in rentier, piuttosto che conservarli imprenditori schumpeteriani (ovvero, produttori di profitti attraverso l’esercizio della produzione, impiegando il capitale accumulato in continue innovazioni di prodotto e di processo). Tutto ciò avviene al prezzo di un rallentamento della crescita e dell’insorgenza di tutte le criticità economiche e sociali la cui gravità è avvertita soprattutto nei momenti di crisi. Tuttavia, anche se l’ineguaglianza tra i proprietari di beni capitali è diminuita nel corso del XX secolo, l’aumentata accumulazione e concentrazione della ricchezza è risultata disfunzionale rispetto ad uno stabile funzionamento del sistema economico, in quanto la disuguaglianza economica tra i proprietari di servizi dei beni-capitale accumulati e i proprietari di servizi della sola forza lavoro si è approfondita. Con la sua ponderosa ricerca, Piketty non si limita ad evidenziare la comparsa di un “nuovo capitalismo patrimoniale”, ma sottolinea anche l’importanza, ai fini del rilancio della crescita delle economie in crisi, di una politica ridistributiva realizzata mediante una forte progressività della tassazione dei patrimoni. L’originalità del suo contributo alla soluzione dei problemi delle società capitaliste in crisi consiste, infatti, nel proporre l’introduzione di un’imposta patrimoniale permanente gravante su tutte le forme di capitale, la cui applicazione a livello planetario potrebbe favorire una regolazione del funzionamento del capitalismo mondiale. Piketty afferma che la sua proposta non ha lo scopo di fare fronte agli squilibri attuali dei conti pubblici, ma quello di mettere fine alle ineguaglianze economiche; per testarne la validità, egli giudica la scala europea come quella più adatta, a condizione però che i Paesi del vecchio Continente siano disposti ad affrontare una revisione delle istituzioni comuni sinora realizzate, nel senso di pervenire ad una loro integrazione più forte, con la creazione di un Ministero delle finanze ed un nuovo Parlamento con competenze esclusivamente previsionali. “Le capital au XXIe siècle” è un contributo all’arricchimento del dibattito politico attraverso il coinvolgimento dei cittadini, nella speranza che in questo modo sia stimolata la comparsa di partiti rivendicanti un approccio meno tradizionale ai problemi posti da una crisi che si stenta a superare, ma è anche un libro che fa capire la necessità di porre rimedio alle ineguaglianze distributive del momento attuale. Non è casuale che Piketty sia stato percepito dall’»internazionale neoliberista» come un nemico pubblico da abbattere ; infatti, molti giornali (Wall Street Journal, Financial Time, The National Review on Line, ecc.), e alcuni “Blog” notoriamente conservatori, hanno organizzato un crescendo di attacchi all’economista francese definendolo nel migliore dei casi un “Karl Marx da prefettura”; tutto ciò, solo per aver messo il problema delle disuguaglianze sociali al centro del dibattito della comunità scientifica. Nella critica, tutto l’apparato massmediatico di destra si è accodato, come osserva Federico Rampini (“la Repubblica del 31 maggio) “ad un comportamento omertoso che accomuna gran parte degli economisti”, la cui interpretazione dell’economia moderna porta la responsabilità di tanti danni, in quanto riconducibile a “guardiani di una tradizione” che li ha resi incapaci di un’autocritica. Infine, il saggio di Piketty è uno strumento che si rivela utile a risolvere il dilemma del quale in Italia si discute da tempo: come debba essere “tamponato” il “buco nero” dell’indebitamento pubblico dei Paesi maggiormente in crisi, se con un’imposta fortemente progressiva sul capitale accumulato, oppure con riforme strutturali finanziate attraverso l’ottenimento di una maggiore flessibilità dei parametri di Masstricht. Con la prima alternativa, oltre a realizzare una maggiore eguaglianza distributiva, sarebbe possibile promuovere un ritorno di una parte degli attuali rentier al mestiere di imprenditore; con la seconda alternativa, invece, oltre a mancare di rilanciare la crescita dell’economia nazionale attraverso una maggiore equità distributiva, il Paese vedrebbe aumentare il proprio indebitamento sull’estero, con l’aggravio della perdita di maggiori risorse da destinare alla copertura degli interessi. La logica del discorso e della proposta di Piketty lascia pochi margini all’imbarazzo della scelta tra le due alternative. Piketty risulta insopportabile ai sodali dell’internazionale liberista; egli non è un pensatore utopico e radicale, facile da contestare per l’astrattezza delle sue analisi e delle sue critiche al modo di funzionare del capitalismo e per la non desiderabilità e non accoglibilità delle sue proposte, perché dimostra che un capitalismo più efficiente e meno diseguale è, se si vuole, possibile realizzarlo, come stanno a dimostrare i “gloriosi anni trenta” vissuti dai Paesi europei del secondo dopoguerra, prima che il reaganismo e il thatcherismo spianassero la strada all’avvento di un capitalismo senza freni e senza regole.

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