Carbonia. C’è un contesto provinciale, che serve a definire la condizione del Sulcis e che gli storici analizzano quando parlano di Carbonia

3 Dicembre 2023
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Gianna Lai

Oggi, domenica, nuovo post sulla storia di Carbonia dal 1° settembre 2019.

Se il mese di aprile è contrassegnato dal respiro di sollievo del prefetto “La dc ha intensificato lodevolmente la sua attività di organizzazione e propaganda, di cui avevo dovuto mettere in evidenza le sensibili deficienze e carenze nella mia precedente relazione”, molto duro il professor Sotgiu con i gestori delle miniere in quel territorio, sempre dalla loro parte, naturalmente, i democristiani. Secondo lo storico, infatti, ad Iglesias lo scontro interno alle aziende minerarie “contrapponeva ai lavoratori un padronato che non aveva con la classe dirigente locale collegamenti organici,… sopratutto nel settore piombo-zincifero, un padronato che veniva dal continente o addirittura straniero,… i baroni delle miniere”.
E dice la prof. Mele approfondendo proprio questo passaggio, dal 1949 al 1950, “La realtà è che dopo la sconfitta dei minatori del bacino metallifero, nonostante il quadro politico sardo uscito dalle elezioni del maggio ‘49 sia più avanzato di quello nazionale, si intensifica l’atteggiamento repressivo nei confronti del movimento operaio e sindacale, con un’azione combinata degli apparati statali e del padronato. Dalle parole del prefetto e del questore traspare pienamente la mentalità del governo, secondo cui il disagio economico è strumentalizzato dalle sinistre per sobillare le masse, secondo un piano diretto da Mosca, per cui il compito più importante è quello di -combattere il comunismo ovunque si annidi-; e il centro della rivolta è come al solito individuato nelle zone minerarie”. Perciò, “schedature ad Iglesias e “formazione di liste di proscrizione da comunicare a tutte le società del bacino per impedire nuove assunzioni, e poi trasferimenti, declassamenti e umiliazioni di ogni genere”.
Se dunque ad Iglesias praticamente non si sciopera più, nel Sulcis prosegue la professoressa “persiste invece la conflittualità”, contro “la linea della smobilitazione voluta dai monopoli Edison e Montecatini, con la conseguenza che il Piano Levi resta nei cassetti del governo. Così si spiega il persistere delle astensioni dal lavoro; alcune motivate dalla difesa dei propri rappresentanti, altre dal regime di fabbrica”, mentre il problema salariale resta il motivo principale delle astensioni, “che si intensificano dalla metà del 1950”. E gli scioperi dichiaratamente politici, contro la conferma dell’onorevole Scelba all’Interno, dopo l’eccido di Modena”, e per solidarietà “con gli operai arrestati a Tratalias, … non fanno che confermare, agli occhi degli apparati statali, la giustezza della linea di repressione anticomunista”. E cita il questore, la professoressa, quando invoca “nuove leggi che integrino l’ordinamento giuridico dello Stato”, di fronte ai continui scioperi in difesa delle Commissioni interne, contro l’adozione di un nuovo oraio di lavoro e contro la gestione oppressiva dei rapporti fra direzione e maestranze. Per poi proseguire, “i liberi sindacati anche nel Sulcis, dove tra l’altro sono assolutamente minoritari, si oppongono a qualsiasi sciopero politico, ma c’è un terreno squisitamente sindacale che riguarda i rapporti di forza con la controparte, che neanche essi possono ignorare soprattutto quando, nel marzo del 1950, nascono l’Unione provinciale della Cisl e l’Unione comunale di Carbonia”. Allora gli scioperi nel Sulcis “costruiscono le prime avvisaglie, se non di unità sindacale, almeno di condivisione dei motivi della protesta”, contro le tabelle dei cottimi; e poi lo sciopero generale di 24 ore, il 17 luglio, per il contratto di lavoro degli impiegati; il 1 settembre, infine, contro “il piano di massicci licenziamenti”, che coinvolge all’incirca 3.000 lavoratori.
E si sente rafforzato, il movimento di Carbonia, dalla ripresa degli scioperi, dalla pur “lenta ripresa dell’attività, nella seconda metà del 1950, con i primi timidi tentativi unitari”, anche nel capoluogo. Così per i dipendenti delle Poste e Telegrafi, quelli delle cancellerie giudiziarie, i civili della Marina, che scioperano “tutti per ragioni economiche”. E poi i dipendenti della pubblica amministrazione, pur se scarsa la partecipazione, gli ospedalieri e i professori di scuola media. Ampio il quadro delineato dalla professoressa Mele: “Il problema salariale con il rinnovo dei contratti nazionali è determinante anche per le categorie dell’industria cagliaritana”, come edili, operai delle officine ferroviarie e poligrafici, Compagnia portuale, marmisti e dipendenti della Teti, personale di Radio Sardegna, avventizi della Manifattura Tabacchi; “il 1950 si chiude con uno sciopero generale dell’industria il 14 novembre… e dei metalmeccanici il 21 dicembre”, pur se scarsamente partecipato. Più partecipata invece la mobilitazione del “settore trasporti, dai marittimi ai tranvieri, agli autisti della Sita, ai dipendenti delle Ferrovie Complementari e di quelli delle Meridionali Sarde, che provoca la chiusura dei cantieri SMCS”.
Infine sugli scioperi generali dichiaratamente politici. Son scioperi che non vedono grande seguito in provincia, conclude la professoressa Giannarita Mele, e poi gli scioperi dei disoccupati che si caratterizzano in una nuova forma di lotta, gli scioperi a rovescio: “i disoccupati si impegnano in lavori pubblici da fare, che spesso son già approvati e addirittura finanziati, e pongono alle Camere del lavoro comunali e provinciali il problema dei settori dove trovare lavoro,… dieci in tutto in provincia, nel 1950, a gennaio e febbraio…, in concomitanza con l’occupazione delle terre a novembre”. E ancora, nella citazione della storica, l’allarme del prefetto: per iniziativa della Camera del lavoro, “circa 300 disoccupati tentavano di prendere possesso di cantieri edili e delle Saline dello Stato, onde iniziare i lavori senza regolare assunzione”

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