Andrea Pubusa
Ma cosa non và nell’Università italiana? Tante cose, alcune comuni a tutte le discipline, altre proprie solo di talune facoltà.
In estrema sintesi, un primo grande problema è quello della riduzione della cultura a mercato con l’introduzion dei crediti e dei debiti. Confesso di non aver mai capito a cosa servono. So solo - e questo solo m’interessa - che attraverso questo sistema ad ogni credito corrisponde un certo numero di pagine e/o di lezione. con la conseguenza che i corsi spesso diventano “corse” superficiali e veloci verso la conclusione che deve avvenire in due mesi, festività comprese. O ancora che i manuali devono essere commisurati al numero dei crediti anziché alle esigenze didattiche. Il sistema poi si piega ai vizi dell’accademia. I crediti non vengono assegnati all discipline in relazione al contenuto della materia, ma al peso del professore, il quale spesso riesce a far sopravvalutare il suo insegnamento in ragione della sua influenza. Ci sono state facoltà che hanno assegnato a tutti gli esami gli stessi crediti, in virtù di un malinteso senso della pari dignità. I riflessi distruttivi di questo meccanismo sono intuibili. In giurisprudenza, ad esempio, diritto privato o diritto amministrativo o le procedure non possono avere lo stesso peso delle materie di approfondimento d’insegnamenti fondamentali. un tempo chiamati insegnamenti complementari.
Il sistema dei crediti consente di considerare formative anche varie attività professionali. Ad esempio, un carabiniere, per il solo fatto di esserlo, può avere l’abbuono di metà di Istituzioni di diritto privato, di diritto costituzionale o di diritto amministrativo. Ci sono addirittura facoltà che conferiscono lauree a soggetti che non hanno sostenuto alcun esame. Grazie a questa visione il Cepu si avvia a divenire un Ateneo!
Queste vicende danno risalto anche alla questione dell’autonomia universitaria. Può una facoltà o un ateneo “vendere” gli esami valutando come cultura lo svolgimento di attività meramente materiali, ossia fare il carabiniere o il poliziotto o il finanziere o ancora il rappresentante di commercio? L’essere rappresentante di commercio può consentire di abbuonare l’esame di diritto civile e quello di diritto commerciale? La risposta è - almeno per chi ha a cuore l’università - negativa. Ed allora è evidente che l’autonomia non può spingersi fino a queste stravaganze e al regalo delle lauree.
Oggi negli uffici tecnici delle amministrazioni locali sorprendentemente abbondano gli architetti. Sarebbe un bene, sopratutto per il buon gusto nelle costruzioni! Ma, ahinoi!, spesso sono solo geometri che, trovando la facoltà giusta, hanno acquisito il titolo di architetti, attraverso la valutazione della loro esperienza professionale da geometri. Insomma geometri erano e geometri sono. E i veri architetti? Spesso sono a spasso o incontrano grandi difficoltà d’inserimento per via del “falsi” architetti, purtuttavia dotati di laurea.
C’è poi il problema del reclutamento dei docenti. Ho sempre pensato che la concorsualità locale, introdotta da Luigi Berlinguer, sia una delle innovazione più devastanti di questi ultimi anni. Sentite cosa ha organizzato il Ministro Berlinguer: una commissione di cinque ordinari conferisce tre idoneità a professore ordinario. Ergo, in qualunque commissione, mettendosi d’accordo in tre (ossia la maggioranza) si poteva dare l’ordinariato a chiunque avesse avuto la fortuna di trovare la combinazione giusta. Sono così diventati titolari di cattedra molti che con la vecchia concorsualità nazionale sarebbero rimasti assistenti o professori associati.
Occorre, dunque, ricondurre almeno la prima fascia nel contesto si una valutazione nazionale, che non è esente da forzature, ma che scongiura valutazioni localistiche, quasi private. Dev’essere l’accademia nel suo insieme a scegliere i nuovi professori. Non sarà il migliore dei mondi, ma è il meno peggio dei mondi possibili.
Un’altra perversione è la moltiplicazione dei corsi. Scopro l’esistenza di corsi che, nonostante la mia età avanzata, non avrei mai sospettato potessero formare oggetto di discipline autonome. La finalità’? Creare un insegnamento per un docente, ampliare l’influenza di un raggrumento di materie con grave pregiudizio per gli studenti e per l’erario. Si dirà, ma come l’Università, la culla del sapere e della razionalità fa queste cose?! Sì, fa anche di peggio. E chi mantiene un vero rigore precipita nella graduatoria delle facoltà o dei docenti, perchè il criterio che dà punteggio è il maggior numero dei promossi e il maggior numero di laureati. Cosicché, paradossalmente, i peggiori, sul piano del rigore didattico e scientifico, diventano i primi.
C’è poi la questione dei finanziamenti. Per avere buoni docenti, occorre dare ai migliori certezze. Altrimenti i bravi volano verso altri lidi (in giurisprudenza verso la magistratura, il notariato etc.), mentre nelle facoltà rimangono gli appassionati, ma anche coloro che non intendono misurarsi con altre professioni, ossia i mediocri.
Come si vede, i problemi sono tanti, e qui ne sono stati indicati acluni e forse neanche i più gravi. Certo la riforma Gelmini non aiuta a risolverli ed anzi in molte parti li aggrava. Sacrosanta, dunque, la protesta di studenti e dei ricercatori. Tuttavia, la mala università non viene solo dalle cattive leggi e dai pessimi ministri, viene anche dalle nostre (dei professori) condotte non virtuose.
2 commenti
1 Cristian Ribichesu
26 Novembre 2010 - 16:38
Professore, la veritá é semplice. Da anni si sono create crepe nel sistema dell’istruzione, nelle scuole e nelle universitá (spesso si confondono i sistemi unendoli nelle problematiche). L’attuale Governo ha colto la palla al balzo e sulle criticitá ha creato delle false riforme (le riforme hanno un aspetto di trasformazione positivo, virtuoso) con l’idea principale, e malamente nascosta per chi é dentro il sistema, di fare cassa veloce e, inoltre, secondo me in misura maggiore, fare cassa negli anni attraverso la creazione di sistemi di tipo dirigenziale, con l’abuso del lavoro precario, nella scuola o nell’universitá, che crea risparmi, sulla pelle dei giovani, dati dalle mancate stabilizzazioni e dal mantenimento del personale con uno stipendio base, perché il personale non di ruolo non ha diritto agli scatti stipendiali. Tutto il resto é una confezione apposita per la creazione di un sistema vessatorio nei confronti dei giovani. Immagini proprio ora la promulgazione del Collegato lavoro, che appositamente cerca di limitare ulteriormente la possibilitá di ricorso per la trasformazione dei contratti annuali reiterati per piú di tre anni in immissione in ruolo. Un vero attacco contro un’intera generazione di giovani. Qui si sta profilando una tragedia, e spero di sbagliarmi, ma la degenerazione del sistema del lavoro in lavoro precario (il precariato doveva seguire il sistema della flessicurezza, invece i piú forti ne hanno approfittato per aumentare i privilegi a scapito dei piú deboli), che dal ‘90 ha colpito gli italiani nati dal 1970 in poi, ormai coinvolge una parte della popolazione che ammonta a 28 milioni di italiani. Questi italiani avranno delle pensioni medie comprese fra i 360 e i 400 euro. Adesso, scritto questo, si riconsideri la riforma della scuola e dell’universitá in merito a quanto scritto sopra. L’idea di scuola e di universitá molti tecnici, lavoratori del sistema, potrebbero tesserla insieme dando vita a un sistema dell’istruzione ottimo, ma la precarizzazione dev’essere bandita, é proprio un altro aspetto.
2 Sergio Spinelli
26 Novembre 2010 - 18:09
Condivido quanto detto da Ribichesu, ma avrei voluto sentir dire qualcosa anche sulla impudente successione ereditaria dei baroni universitari
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