Gianfranco Sabattini
Gian Paolo Caselli e Gabriele Pastrello in Welfare addio (Limes, n. 2/2012) criticano le politiche di rigore adottate all’interno dei sistemi capitalistici avanzati per uscire dalla crisi. La loro conclusione non lascia scampo alla speranza di poterne uscire se non al prezzo dell’affievolimento del metodo di governo democratico e dello “smantellamento” dello Stato sociale. La responsabilità di questo processo involutivo ricadrebbe sulla “scomparsa” della minaccia esterna del comunismo che, a partire dal 1929 sino agli anni Settanta del secolo scorso, ha determinato obtorto collo la progressiva diffusione del metodo democratico e la costruzione conseguente dello Stato sociale
Secondo gli autori, la crisi attuale deriva dall’egemonia che i mercati finanziari hanno acquisito a partire dagli anni Ottanta. La loro crescita ha presentato alcuni caratteri peculiari: si è accompagnata ad un aumento della loro complessità; è stata più rapida di quella dei mercati reali; è avventa sulla base dell’assunto che la loro crescita avrebbe trainato quella dell’economia reale. La crisi esplosa nel 2008, però, ha dimostrato l’infondatezza di questo assunto. In tal modo, i mercati finanziari sono giunti a dettare ai singoli governi l’agenda anticrisi, malgrado la loro responsabilità nell’aver determinato la crisi stessa.
A fronte della situazione descritta, secondo Caselli e Pastrello, l’establishment economico-finanziario dei singoli sistemi sociali ha rifiutato la mediazione politica, confidando di poter uscire dalla crisi attraverso vie diametralmente opposte a quelle percorse nel 1929/1932. Dopo il 1929, la crisi è stata sconfitta con un ampliamento della democrazia e con l’attuazione di linee di politica economica volte, sia a regolare gli animal spirit dello spontaneismo del mercato, sia ad all’allargare l’assistenza sociale. Le riforme che a tal fine vennero allora adottate sono rimaste in vigore sino agli anni Novanta, allorché è iniziata la loro progressiva contrazione, che ha dato il via all’avvento dell’egemonia dei mercati finanziari.
L’emergere ed il diffondersi della crisi dopo il 2008 ha causato la restrizione del governo democratico e la sua sostituzione col governo tecnocratico europeo, la rinuncia alle politiche di pieno impiego, l’aumento della flessibilità del mercato del lavoro e il contenimento della spesa pubblica per finalità sociali. Di fronte a questa situazione, gli autori spiegano l’inerzia della società politica sostenendo che, a differenza degli anni Trenta e del primo dopoguerra, l’establishment economico-finaziario non si sarebbe preoccupato più di tanto, in considerazione del fatto che, in assenza di minacce esterne, non avrebbe corso alcun rischio nel caso del peggioramento della crisi. All’indomani del 1929, come dopo il 1945, l’establishment avrebbe accettato la mediazione politica per paura dell’espansione dell’ideologia comunista; ma, a partire dal crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, esso si sarebbe definitivamente convinto che, qualora i suoi interessi fossero stati sacrificati dalle linee di una politica economica democratica, sarebbe stato possibile impedirne l’attuazione, nella certezza che i destinatari ultimi degli effetti della crisi non avrebbero dato inizio ad una rivoluzione sociale.
Per quanto convincente possa essere, l’analisi di Caselli e Pastrello è però squilibrata riguardo alla causa della restrizione della democrazia e della riduzione del sistema delle garanzie sociali; è eccessivo pensare che il venire meno della sola minaccia esterna possa avere determinato l’egemonia dell’establishment economico-finanziario sulla società politica. In realtà, l’involuzione della democrazia e del sistema delle garanzie sociali è imputabile, forse ancora più che alla minaccia esterna, al conservatorismo del cosiddetto ceto medio.
Il ceto medio, tradizionalmente identificato con la fascia sociale che occupa per censo, prestigio, stile di vita e istruzione una posizione intermedia nella stratificazione sociale; i gruppi estremi invece, o si collocano nella parte alta della stratificazione e sono perciò dotati di elevati livelli di reddito, oppure si collocano nella parte bassa e sono perciò dotati di livelli di reddito di sussistenza. Solitamente, il fatto che un sistema sociale annoveri un’alta percentuale di soggetti all’interno del ceto medio è indice di benessere diffuso, ma anche di stabilità sociale e politica. In questi casi uscire dalla zona di povertà è relativamente semplice, in quanto mancano barriere alla circolazione sociale. Al contrario, nei sistemi in cui il ceto medio è assai poco rappresentativo, si passa da situazioni di povertà e fatiscenza a situazioni di ricchezza e di lusso. La consistenza del ceto medio è andata notevolmente aumentando dopo il 1929, con il diffondersi della democrazia e con l’allargamento dello Stato sociale. Sennonché, il progressivo passaggio di buona parte di coloro che stavano peggio all’interno del ceto medio ha svuotato l’ideale ugualitario del quale il gruppo più disagiato era portatore, realizzando una risoluzione incruenta del conflitto di classe e dando forza e credibilità alla cosiddetta Terza via del socialismo.
E’ difficile non condividere le critiche che il movimento dei poveri muove contro le contraddizioni ed i limiti del possibile ruolo anticrisi del ceto medio. Per Bill Jordan, ad esempio, leader del movimento dei poveri della Gran Bretagna, la grande maggioranza dei cittadini, soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale, ha partecipato tramite i sindacati ed i partiti politici alla gestione dell’economia e della società ed ha usufruito di una serie di diritti civili, politici e sociali. Con l’acquisizione di tali diritti, quella maggioranza ha concorso a fondare una “democrazia di nuovi proprietari”, una “miscela” di individualismo e di autosufficienza espressa da tutti i suoi componenti ai quali il periodo precedente aveva garantito una crescente liberazione dal bisogno e che attualmente, in fase di arretramento e per tutelare quanto hanno acquisito, sono refrattari ad un loro coinvolgimento nella cura della crisi dello Stato che in epoca precedente li aveva beneficati; e che perciò sono anche indifferenti al mancato ruolo attivo della società politica nei confronti dell’establishment dell’”oligarchia economico-finanziaria”. Sono, infatti, i nuovi proprietari, cioè il ceto medio, i conservatori “egoisti” che frenano l’approvazione di una qualsiasi politica di crescita e sviluppo e che, pur di salvare la sicurezza acquisita, sono indifferenti al mancato ruolo attivo della società politica.
Per il superamento degli egoismi della nuova classe sarebbe necessaria, come osserva Jordan, l’introduzione di un reddito minimo sociale garantito; ma l’introduzione di tale forma di reddito dovrebbe avvenire, non solo attraverso una ridistribuzione dei livelli del reddito corrente, ma anche attraverso una profonda ridistribuzione della ricchezza già accumulata e concentrata nei ceti sociali alti, al fine di superare sia il tendenziale conservatorismo del ceto medio, sia la rimozione del fenomeno, centro e motore della crisi attuale, della finanziarizzazione della ricchezza, base del potere dei mercati finanziari. Questa prospettiva di azione politica sembra costituire l’approccio più rispondente alla necessità di fuoriuscire dalla crisi attuale, poiché la comparsa di una nuova “minaccia esterna” idonea a ristabilire il clima sociale degli anni Venti o quello a cavallo degli anni Quaranta-Cinquanta del secolo scorso, oltre che improbabile è anche non auspicabile, giacché si ripercuoterebbe negativamente sugli effetti utili dell’integrazione sopranazionale delle economie dei singoli Paesi.
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