L’agenda Monti: quale futuro per l’Italia?

25 Gennaio 2013
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Gianfranco Sabattini

Nei giorni scorsi abbiamo dato spazio ai commenti politici sulle elezioni e sui vari soggetti in campo.  Continueremo a farlo da qui alle elezioni, come sempre, dando voce a tutte le opinioni.  Oggi, invece, pubblichiamo una riflessione che va più a fondo e scava sulla matrice culturale, economica e politica insieme, del montismo. Ci aiuta in questo percorso l’amico Gianfranco Sabattini, noto economista dell’Ateneo cagliaritano.

Nel novembre del 2011 è cessato il quasi ventennale regine di Berlusconi; il Paese ha visto nascere il “governo dei professori”, presieduto dal Prof Mario Monti, fresco della nomina senatoriale. Già dalla fine di dicembre, il Consiglio dei ministri ha varato il decreto Salva Italia (denominato Fase Uno), al quale sarebbe seguito, nel gennaio del 2012, il decreto Cresci Italia (denominato Fase Due). Il primo decreto, assunto all’insegna della severità, dell’equità e della competitività, è consistito in un pesante prelievo fiscale, privo però di ogni prospettiva di miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini, “percossi” pesantemente dallo “scudiscio fiscale”. Il secondo, che avrebbe dovuto avviare la Fase Due, è consistito nell’elencazione dell’insieme delle linee-guida alle quali il nuovo governo si sarebbe attenuto per l’assunzione di provvedimenti finalizzati alla promozione della ripresa della crescita del sistema economico. Entrambi i decreti, tuttavia, non hanno toccato minimamente gli equilibri sociali preesistenti, nel senso che gli interessi che nel “ventennio berlusconiano” sono stati più che soddisfatti non sono stati neppure sfiorati.
Dei contenuti dei decreti non c’era da meravigliarsi, in quanto, all’atto dell’insediamento del nuovo governo, il Presidente è stato “consigliato” dai suoi allievi, Francesco Giavazzi e Alberto Alesina, che il risanamento dei conti pubblici nazionali ed il rilancio della crescita doveva avvenire senza penalizzare il risparmio accumulato, ma solo attraverso la tassazione del reddito corrente; i mercati non avrebbero giustificato la penalizzazione del capitale accumulato. Così il governo presieduto da Monti, fedele alla consegna, come osserva Pierfranco Pellizzetti in “C’eravamo tanti amati. Fenomenologia di Mario Monti”, non ha alterato la situazione sociale ereditata, conservando l’imposizione fiscale sulle rendite finanziarie al 20 per cento e permettendo a quella sul lavoro di raggiungere il 36 per cento. In tal modo, il governo dei professori ha inteso salvare l’Italia dal baratro finanziario, con manovre di politica economica che hanno fatto pesare il prezzo del salvataggio sul prodotto sociale corrente, lasciando immutata la squilibrata distribuzione del capitale consolidatasi e approfonditasi nei decenni precedenti.
Secondo Pellizzetti, dal governo dei professori non ci si poteva attendere “qualcosa di sostanzialmente diverso”, in quanto i suoi componenti, a iniziare dal Premier, lungi dall’essere portatori di una proposta innovativa strumentale al rimedio dei guasti sociali ed economici accumulatisi nel ventennio precedente, si sono rivelati gli artefici di un’operazione che, con la prosa del Codice di procedura civile, possono essere qualificati come curatori fallimentari della situazione sociale ed economica insostenibile del Paese; cioè della situazione nata a seguito del processo delle privatizzazioni, tramite il quale i “Poteri forti”, grazie al supporto del sistema del credito, si sono appropriati delle imprese partecipate dallo Stato. Infatti, come recita la legge fallimentare, il governo dei tecnici ha curato l’amministrazione del patrimonio dell’azienda Italia in crisi, compiendo tutte le operazioni necessarie ad evitare il fallimento per bancarotta, sotto la vigilanza del “giudice delegato” (il Presidente della Repubblica, trasformatosi in garante della procedura), nell’interesse del comitato dei creditori (i Paesi europei, Germania in testa, che premevano perché i loro crediti fossero “fatti salvi”). La chiusura della procedura fallimentare sui generis, però, ha tenuto nella massima considerazione i creditori esteri nell’interesse degli espropriatori-appropriatori nazionali dei beni dello Stato, postergando invece i creditori interni che, negli anni precedenti avevano pagato gli esiti negativi dell’aumentato deficit dei conti pubblici, finanziato con il ricorso al capitale internazionale; il pagamento dei relativi interessi a carico del bilancio pubblico per un importo pari a circa il 5% del PIL è valso a sacrificare i servizi pubblici e la promozione della crescita.
Di chi la colpa dell’accaduto? Senz’altro, del conato di neoliberismo che ha scatenato la corsa alla liberalizzazione dei mercati e alla finanziarizzazione dell’economia. Ma il governo dei professori ha preferito comportarsi da referente locale delle forze transnazionali impegnate a consolidare nel proprio interesse l’economia-mondo, in sostituzione del precedente fiduciario rivelatosi incapace ed inefficiente. E’ accaduto cosi, continuando nell’analogia dell’azione dei professori con quella del “curatore fallimentare”, che i “tecnici-esperti” lavorassero perché il sistema economico nazionale non fosse messo nella condizione di consentire la cosiddetta “contendibilità dei fattori produttivi” (cioè il ricupero di una parte del “maltolto”); infatti, attraverso la procedura fallimentare attuata, il governo Monti avrebbe, in astratto, dovuto separare i responsabili della distruzione dell’”economia mista” dal “capitale residuo”, che sarebbe dovuto risultare pari al valore di ciò che fosse rimasto dopo la liquidazione dei debiti sull’estero; e ciò perché, nell’interesse dei creditori interni (tutti i cittadini), una parte del capitale residuo potesse ritornare allo Stato per essere gestito secondo modalità rispondenti alle reali esigenze del Paese e secondo modalità di equità distributive condivise. Tutto ciò non è accaduto, perché il governo dei tecnici, da referente locale dell’impero dei mercati finanziari transnazionali, ha preferito svolgere un’azione di restaurazione e comportarsi da “cane da guardia” del “Finanzacapitalismo” internazionale. E, considerati i ”compagni di strada” che Monti si è scelto per “Cambiare l’Italia e riformare l’Europa, è semplicemente illusorio che la sua azione possa mutare indirizzo nel caso che, nella prossima competizione elettorale, al suo rassemblement centrista dovesse andare il consenso degli elettori: se si consentirà una riproposizione a Premier del Professore, ci si dovrà rassegnare all’amara constatazione che gli italiani si riveleranno ancora una volta, così come è capitato in altre circostanze difficili per il Paese, vittime della “sindrome di Stoccolma”.

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