Giuseppe Salvaggiulo - La Stampa 3 novembre 2014
Una conversazione con Gustavo Zagrebelsky a margine di un convegno su “Bobbio costituzionalista” conduce dalle cime della filosofia politica alle bassure italiane.
Tra i principi della democrazia secondo Bobbio c’è il voto uguale: come lo spiega ai suoi studenti che le chiedono di Porcellum e Italicum?
Nella sentenza sul Porcellum, per la prima volta la Corte Costituzionale parla dell’uguaglianza del voto non solo in “entrata”, come valore potenziale, ma anche “in uscita”, nell’attribuzione pratica dei seggi. Il premio di maggioranza creava un’abnorme distorsione. Ora si prova a superare l’obiezione stabilendo una soglia per accedere al premio. Ma c’è un criterio razionale o è puro e semplice arbitrio: 37%, 40%? Il criterio sta nelle previsioni dei partiti che sperano di avvantaggiarsene, sulla base dei sondaggi. Ma la legge elettorale deve servire ai cittadini o ai partiti? L’unica soglia giustificabile sarebbe il 50,1% dei voti: un premietto per rafforzare chi ha già la maggioranza dei voti.
La legge “truffa” del 1953.
Famigerata. Se era truffaldina quella, che cosa dire di una legge che porta dal 37 al 55%?
Ma che cosa ne sarebbe della governabilità, senza premio di maggioranza?
Governabilità, parola scorretta. Che cosa significa? Attitudine a essere governato. Significato passivo. Se dico “l’Italia è ingovernabile” penso a corporazioni, corruzione, mafia. Da Craxi in poi, con un rovesciamento semantico, governabilità vale come aumento della forza di governo. Significato attivo. Tutte le riforme di cui parliamo non sono per la governabilità, perché non toccano la società, ma vogliono rafforzare il governo, razionalizzando uno spostamento di baricentro che già c’è stato.
A danno del Parlamento?
Il Parlamento ha perso iniziativa legislativa, ratifica solo quelle del governo. Quando fu introdotta la proporzionale, un secolo fa, vi fu chi disse che tanto valeva eliminare i deputati e far decidere tutto dai segretari dei partiti secondo il rispettivo peso elettorale. “Tanto gli eletti in ciascuna delle nostre liste devono fare quello che diciamo noi”. Una proposta che al nostro Renzi potrebbe piacere: disciplina a costo zero.
Nel frattempo il Pd è diventato il partito della nazione.
Per Bobbio una delle condizioni della democrazia è la presenza di una pluralità di offerta politica. Il partito-tutto non è concepibile secondo la nostra definizione di democrazia. C’è una classica definizione del partito politico come “parte totale”. Quando un partito sceglie una connotazione totalizzante, come la nazione, diventa parte totalitaria.
Come mai la suggestione totalizzante funziona?
In una fase di inquietudine, è ovvia la tendenza a compattare. Ma una cosa è la grande coalizione, in cui le parti restano tali contraendo un patto, altra è questa strana e melmosa combutta italica, senza nemmeno la nobiltà dell’union sacrée.
C’è un deficit di conflitto?
Il professor Bobbio, in altri tempi, aveva usato una formula molto forte: la discordia è il sale della democrazia. Discordia è parola estrema: Tucidide la riteneva premessa della stasis, la quiete prima della tempesta della guerra civile. In realtà Bobbio, radicalmente dicotomico sul piano teorico, nella pratica era un mediatore. Infatti per lui, come per il suo maestro Kelsen, la democrazia non può esistere se non ha al fondo un compromesso e il compromesso è la Costituzione.
Arte anacronistica, il compromesso: va di moda la decisione. Renzi pare ispirarsi più a Schmitt che a Kelsen e Bobbio.
C’è decisionismo e decisionismo. Schmitt aveva un’idea bellica della decisione: il nemico non va sconfitto, ma eliminato. L’attuale decisionismo mira piuttosto all’andreottiano tirare a campare. Serve a fronteggiare le difficoltà del giorno per giorno, a tappare buchi, a tamponare con urgenza le situazioni. Un decisionismo non tragico, diciamo in salsa mediterranea, all’amatriciana. Il governo non combatte nemici per imporre una sua visione strategica, che si stenta a vedere, ma cerca aggiustamenti temporanei, posticipando i problemi.
E la piazza fisica, delle manifestazioni di protesta?
Schmitt avrebbe approvato la manganellatura degli operai, ovvero del nemico. Non è andata così. Il governo non ha approvato il manganello. Anzi, ha espresso solidarietà a manganellati e manganellatori: più andreottiano di così!
Non si può dire che l’idea del nemico da riportare all’ordine sia estranea alla fase politica attuale.
L’ordine attuale è una somma di compromessi quotidiani. L’ordine duro e puro è quello invocato per porre fine al “biennio rosso” in Italia, o al caos tinto di socialismo della Germania di Weimar. Sappiamo dove ha portato. Oggi, in Italia, il pericolo mi pare che possa derivare dal difetto d’opposizione politica efficace in Parlamento e dalla supplenza da parte d’una opposizione di piazza. Qui, vedrei, il rischio della radicalizzazione. La manifestazione di Roma aveva un significato ultrasindacale. Farsene troppo facilmente una ragione può essere irresponsabile.
Quando coniò la formula “democrazia d’applauso” per Craxi, Bobbio si beccò l’insulto “intellettuale dei miei stivali”. A voialtri è toccato “professoroni e parrucconi”.
È già una bella soddisfazione avere a che fare con parrucche e non con stivali. Cambiamo le parole, ma siamo sempre lì. Ci sono “no” che sono degni quanto i “sì”. Ha presente Bartebly, lo scrivano di Melville?
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