Andrea Pubusa
Vito Biolchini nel suo blog ha deciso, sull’onda del delitto di Orune, di approfondire la comprensione delle zone interne dell’Isola, dando la parola ai chi sa qualcosa dei nostri paesi. Lo ha fatto fondandosi su una convinzione, e cioè che “se i paesi non si raccontano, li raccontano gli altri e nulla cambia“. Al fondo del pensiero di Vito c’è un altro convincimento, e cioè che la devianza dell’interno abbia una sua diversità strutturale e non possa rincondursi nell’alveo della delinquenza delle aree degradate di qualunque parte del mondo. L’invito al racconto è dunque uno stimolo alla ricerca di questa specialità barbaricina.
Finora gli interventi sono stati due, entrambi molto apprezzati da Vito, ma, a mio avviso, scarsamente significativi dal punto di vista della novità. Il primo quello di Monica narra di un’uccisione non vendicata. Testimonia, cioè, il passaggio negli anni ‘50 dal codice barbaricino alla Costituzione repubblicana. Alle regole comunitarie si sostituisce il principio della personalità della responsabilità penale e l’idea che ognuno dev’essere giudicato dal giudice naturale precostituito per legge. Un salto, di cui c’eravamo accorti da tempo, efficacemente messo in luce da molti studiosi e osservatori, come, ad esempio, Benedetto Meloni, nella prefazione all’edizione della “Vendetta” di Pigliaru, distribuita da L’Unione sarda. Nulla di nuovo sotto il sole. Il balente cambia pelle, da uomo valoroso, forte e prudente delle campagne, capace di relazioni e dunque risolutore di controversie, artefice di ricomposizioni e, all’occorrenza, fermo esecutore del codice comunitario, si passa al balente costituzionale, il buon cittadino, rispettoso delle leggi, portatore di un messaggio di civile mitezza e di valori democratici, che trae dall’introiezione dello spirito della Carta. Questo processo è il frutto di un cambiamento epocale nella individuazione delle risorse per campare: sempre meno la terra e il bestiame, sempre più la cultura, le professioni, l’amministrazione, l’impresa, il lavoro dipendente. E Monica, con la sua laurea in medicina, è paradigmatica di questo diverso orientamento delle comunità, della nuova scala di valori anzitutto economica. La gran parte di noi “cagliaritani” acquisiti è espressione e, al tempo stesso testimone, come Monica, di questo passaggio epocale.
Fin qui Monica. Giovanna, invece, risprofonda, non senza contraddizioni, queste società in su connottu, partendo da un episodio, a dire il vero, poco significativo e da uno tragico. Il primo. Un giorno nella spiaggia di Orosei ha sentito un tizio sotto l’ombrellone dire, mentre guardava un giornale illustrato (un catalogo d’armi?) “Balla! Ite belleddu custu kalashnikov!“. Morale della favola, l’ancoraggio al passato è legato alla larga diffusione delle armi, segno che ampi strati della popolazione non hanno fiducia nel giudice naturale e pensano che all’occorrenza sia bene o necessario farsi giustizia da sé. L’uccisione di un familiare di Giovanna è la conferma di questo e lo è ancor più l’impunità di quel delitto, frutto di un’impenetrabile omertà.
Ora, un giorno, a Porto Pino, io ho sentito uno, sotto l’ombrellone, dire, mentre guardava ”Quattroruote”, ”balla, te bellixedda custa Ferrari!“, ma poi ho visto che questa era una sua passione estetica, posto che è andato via con un cartoccio Fiat. E poi, è ben noto, che nel mio Sulcis le Ferrari son poco diffuse. Ma pur ammettendo che in Barbagia ci siano più armi che in altri luoghi, le armi son causa o effetto? E’ evidente che già procurarsi un’arma è segno di una propensione, e se questa è diffusa è indice di una tendenza sociale Ammettiamo, dunque, che in Barbagia, per un’antica memoria sentimentale rimanga un alto tasso d’insicurezza, accompagnata dalla convinzione che un’arma in qualche circostanza può tornare utile per la difesa, o, in altre frange, addirittura sia mezzo per farsi giustizia da sé. Eppure tutto questo, al più ci parla di un adattamento all’ambiente delle zone interne dei disvalori della modernità propri delle aree, geografiche e sociali, degradate; se si vuole, evidenzia, una specificità, che va certamente indagata, come suggerisce Tonino Dessì, ma che non cambia i tratti di fondo del fenomeno. L’elemento predominante, infatti, non è il mezzo con cui si porta l’offesa, è la gratuità di questa, e la sua sproporzione rispetto alla situazione, la manifesta svalutazione della persona e della vita. Anche Giovanna nelle risposte secche ai suoi stringati ed efficaci quesiti, ammette questo elemento. Da questo punto di vista risulta confermato quanto già scritto l’altro giorno: la pistolettata al giovane studente di Orune e il lancio del giovane studente dall’hotel di Milano, con mezzi diversi, sono espressione della stessa subcultura. Ciò che salta agli occhi è la sproporzione fra il risultato e la motivazione dell’azione (ripicca o scherzo). Non c’è nessuna tensione verso beni e risorse essenziali, è violenza gratuita. E in entrambi i casi c’è un clima di omertà fra i protagonisti e nel loro entourage (amici, genitori e simili).
Insomma, mi pare, che come il balente, per avere l’approvazione della comunità di cui era soggetto “dirigente”, era prudente e giusto nel definire la misura della vendetta con millimetrica proporzionalità all’offesa ricevuta, così il buon cittadino, intriso dei valori costituzionali, è paziente nell’attendere la giustizia dal giudice naturale, così il balordo, sopraffato da subculture e disvalori, diffusi, sotto variegate forme, in molti ambienti, disconosce la sacralità della persona e della vita e offende l’una e spezza l’altra con leggerezza e gratuità.
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