Carlo Dore jr.
Un Senato composto da non eletti (e dunque, non qualificabile come diretta espressione della sovranità popolare) che concorre all’approvazione di leggi fondamentali per l’organizzazione dello Stato; un Senato composto da consiglieri regionali e sindaci condannato alla quasi certa irrilevanza dal sistema di termini che caratterizza il procedimento legislativo; un Governo che individua nel procedimento a data certa un ulteriore strumento per ergersi ad arbitro dell’attività del Parlamento; la competenza legislativa delle Regioni esposta alla “clausola vampiro” prevista dal nuovo testo dell’art. 117, comma 4.
Molteplici sono i profili di criticità che la riforma costituzionale oggetto del referendum del prossimo 4 dicembre propone all’attenzione dell’opinione pubblica, molteplici sono le ragioni del crescente dissenso di una parte sempre più ampia dell’area democratica verso una riforma lontana dallo “spirito costituente” dal quale l’attuale Carta Fondamentale risulta permeata. Una parte sempre più ampia dell’area democratica che non dismette l’idea di Costituzione intesa come compromesso alto tra forze politiche unite da un substrato di valori comuni; che non asseconda il un progetto di Costituzione esclusivamente riconducibile alla volontà della maggioranza politica contingente, figlio illegittimo del tentativo di dividere il Paese in innovatori e conservatori, lealisti e traditori, partigiani veri e finti. Una parte dell’area democratica che non cede, in definitiva, alla tentazione di ridurre la Carta fondamentale a instrumentum regni, a “scettro del principe”che moltiplica potere e consensi di una leadership carismatica.
Questo dissenso montante è stato (forse tardivamente) intercettato dalla minoranza del Partito democratico, nel momento in cui si è opposta al combinato disposto tra ddl Renzi – Boschi e Italicum, considerando per forza di cose irricevibili le generiche promesse di revisione di una legge elettorale imposta dal Governo a colpi di fiducia, al termine di un percorso parlamentare scandito dalla rimozione dei “dissidenti” in seno alla commissione affari costituzionali e dalle dimissioni dell’on. Speranza dalla sua carica di capogruppo del PD alla Camera dei deputati.
Il resto è grigia cronaca: la riforma costituzionale ritorna l’ultima frontiera di un Esecutivo asfittico. Lo scettro del Principe diventa la clava del tribuno: agitata dal Presidente del Consiglio al centro di una piazza semivuota, per lo sconcerto di quanti percepiscono il paradosso di un Governo schierato a sostegno della “sua” Costituzione; abbattuta con violenza – al grido “Fuori! Fuori!” – sulle ragioni dei dissidenti, brutalmente liquidate come l’estremo tentativo di salvaguardare privilegi e rendite di posizione per i sepolcri imbiancati della conservazione.
Ma il dissenso alla riforma costituzionale in atto non si traduce nell’aprioristica difesa dello status quo, né rappresenta una totale chiusura verso possibili circoscritti aggiornamenti della Carta fondamentale utili, nella prospettiva della “buona manutenzione costituzionale” a cui più volte fa riferimento Stefano Rodotà nel suo ultimo libro, a rendere più razionale ed efficiente il sistema democratico. No, le ragioni di questo dissenso vanno ricercate altrove: nelle tante zone d’ombra che contraddistinguono il testo ddl Renzi – Boschi; nei mille profili di irrazionalità che scandiscono il passaggio dal “bicameralismo perfetto” al “bicameralismo confusionario”; e soprattutto nella necessità di salvaguardare l’integrità del “compromesso alto” nel quale la Carta fondamentale si identifica, senza cedere alla retorica di quanti degradano la Costituzione a scettro del principe, o a clava del tribuno.
1 commento
1 Oggi domenica 27 novembre 2016 | Aladin Pensiero
27 Novembre 2016 - 08:56
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