Regionali: sovranismo e reali aspirazioni dei sardi

21 Novembre 2018
1 Commento


Gianfranco Sabattini

Venerdì 23 alle ore 17 nella Sala della Società degli operai in via XX settmbre 80, il Costat mette a confronto intellettuali, partiti  e movimenti (M5S, SI, PDS, Autodeterminatzione, Potere al Popolo, Sardigna libera e  altri) su un interrogativo cruciale “Che fare per battere la destra in Sardegna?“.
In vista di quel dibattito abbiamo iniziato a pubblicare opinioni, ovviamente in piena libertà  senza filtri. Ecco oggi un intervento di Gianfranco Sabattini, autorevole economista del nostro Ateneo.

 Risultati immagini per carte antich sardegna foto

Alla vigilia delle elezioni regionali del 2019 per il rinnovo del Consiglio, ciò che caratterizza l’agitarsi dei movimenti sovranisti, in particolare quello del Partito dei Sardi, è il fatto che, al di là del “progetto indipendentista”, riguardo al quale si sentono nel dovere di ascoltare il “loro” popolo, per sapere quale sia il livello di autocoscienza, essi non mostrano alcun interesse a conoscere cosa i sardi effettivamente pensano: innanzitutto, riguardo ai problemi da risolvere prioritariamente; in secondo luogo, sul come riformare l’organizzazione delle struttura istituzionale della Regione; infine, ma non ultimo, quale sia la loro considerazione dei politici (inclusi quindi i sovranisti) che sinora hanno governato la Sardegna.
Leggendo le dichiarazioni degli indipendentisti, si ha la netta sensazione che essi chiedano la modifica delle “regole attuali” che sottendono l’autonomia speciale della Sardegna (cioè la riforma o la sostituzione dello Statuto vigente) senza la minima preoccupazione di conoscere gli orientamenti dei sardi riguardo ai profili indicati. Su tutti questi aspetti, i sovranisti sorvolano, mentre la plausibilità e la desiderabilità delle pretese di cui essi sono portatori è smentita dalla conoscenza di cui oggi si dispone.

Può essere utile, ai fini di una responsabile valutazione delle finalità espresse, ad esempio, dalle dichiarazioni dei leader del Partito dei Sardi (Franciscu Sedda e Paolo Maninchedda), ricordare i principali risultati di un progetto di ricerca finanziato dalla Regione autonoma della Sardegna e condotto da un gruppo multidiscilinare di ricercatori (dell’Istituto giuridico e di quello economico del Polo giuridico-economico-sociale dell’Università di Cagliari) sulla base di due indagini demoscopiche, le cui conclusioni sono state pubblicate in due diversi volumi: “Identità e autonomia in Sardegna e Scozia” e “La specialità sarda alla prova della crisi economica globale”: il primo curato da Giovanni Coinu, Gianmario Demuro e Francesco Mola, il secondo da Gianmario Demuro, Francesco Mola e Ilenia Ruggiu.
Con le due ricerche demoscopiche, il gruppo interdisciplinare ha verificato cosa pensino i sardi della propria autonomia, dando ad essi la parola. Dalle due indagini sono emersi risultati interessanti e degni di considerazione, che dovrebbero costituire un valido punto di riferimento per quanti sono ora impegnati, alla vigilia del rinnovo del Consiglio regionale, a proporre ai sardi, non solo progetti di riforma dello Statuto staccati da visioni conservative e datate di identità, ma anche e soprattutto specifiche iniziative con cui affrontare le condizioni economiche, sociali e istituzionali negative che caratterizzano attualmente la comunità regionale.
Rileva osservare che dai risultati delle due ricerche è emerso che, per la maggior parte dei sardi, la giustificazione della specialità dell’autonomia regionale non dipende necessariamente dal fatto di essere nati in Sardegna, in quanto essi si sentono portatori di una identità plurale, integrata nelle istituzioni in cui è “incarnata” l’autonomia: oltre che sardi, gli abitanti dell’Isola si sentono quindi italiani, europei e cittadini del mondo, con buona pace per tutti coloro che sono impegnati ad invocare per il popolo sardo un modello identitario, non fondato sulla natura e qualità delle istituzioni.
Per i sardi, stando ai risultati delle due ricerche demoscopiche, i problemi prioritari sono quelli di carattere economico-sociale e non quelli di carattere etnico-cultural-territoriale; di fronte alla richiesta di esprimere le loro preferenze (con l’assegnazione di un punteggio, in una scala da 1 a 10, sulle priorità d’intervento riferite a diversi settori: Identità e cultura, Economia, Lavoro, Trasporti e infrastrutture, Riforme e istituzioni, Ambiente e territorio, Welfare, Sicurezza) i risultati hanno evidenziato la massima priorità assegnata al Lavoro, seguito da Trasporti e infrastrutture, Economia, Sicurezza, Welfare, Ambiente e territorio; penultimo il settore Identità e cultura e, ultimo, il settore Riforme e istituzioni.
Infine, riguardo alla ristrutturazione dei poteri nella Regione, rispetto a quattro istituzioni di riferimento (Unione Europea, Stato, Regione, Comuni), sorprendentemente nella misura del 65% del campione, i sardi hanno espresso una sostanziale indifferenza, se non la loro contrarietà, al cambiamento dello status quo istituzionale: un gruppo si è espresso in pro di un aumento dei poteri dell’Unione Europea e dello Stato; un altro gruppo ha manifestato un forte sentimento di indifferenza, in quanto propenso a lasciare le cose così come stanno; un terzo gruppo ha espresso la manifestazione d’interesse ad assegnare maggiori poteri allo Stato.
Di fronte a questi risultati, concernenti il senso che i sardi hanno interiorizzato rispetto al tema della specialità dei poteri autonomistici della propria Regione, come si giustifica l’impegno profuso da minoranze estreme, nel proporre, addirittura, riforme della Costituzione italiana e dello Statuto sardo, a difesa di un’autonomia tanto speciale dell’Isola, tale da farne uno Stato indipendente, in funzione di profili esclusivamente identitari su basi etno-linguistico-territoriali?
E’ più credibile una mobilitazione politico-culturale dell’opinione pubblica volta a perseguire l’obiettivo di diffondere e di radicare nella coscienza dei sardi il convincimento che le priorità d’intervento da loro espresse possono essere raggiunte solo attraverso una crescita economica stabile dell’area regionale ed uno sviluppo più equo e diffuso a livello territoriale; ciò che può ottenersi con una riforma dell’ordinamento interno regionale in grado di coinvolgere nei processi decisionali le comunità locali, attraverso una più appropriata organizzazione dell’Istituto regionale, che sottragga la comunità dell’Isola all’inefficienza istituzionale venutasi a creare dopo l’adozione, nel 2016, di un ordinamento del tutto inadeguato degli enti locali della Regione.
In altri termini, la riforma dello Statuto dovrebbe prevedere (a parte l’Area metropolitana di Cagliari) una riforma della struttura dell’Istituto regionale adatta a rimuovere i due grandi limiti che hanno bloccato la crescita e lo sviluppo della Sardegna: l’inefficienza delle istituzioni locali e la mancanza di una loro adeguata autonomia decisionale, nella progettazione ed attuazione di interventi conformi alle priorità emerse dalle indagini demoscopiche delle quali si è detto.
Allo stato attuale, perciò, rispetto al passato, la discontinuità dell’organizzazione istituzionale della Sardegna dovrebbe essere realizzata solo attraverso un decentramento degli strumenti di programmazione della politica regionale, che garantisca la partecipazione delle società civili locali alla formulazione delle scelte per la promozione della crescita e dello sviluppo dei loro territori; la discontinuità istituzionale, nella prospettiva di una riforma dello Statuto, dovrebbe consistere in una limitazione dell’esercizio del potere a livello regionale alla sola funzione di coordinamento e di indirizzo delle scelte locali, ponendo termine all’attuazione di una politica attiva, che sinora non ha mai risposto alle attese delle comunità locali.
Per la realizzazione di una riforma dell’Istituto regionale secondo le linee indicate, la revisione dello Statuto vigente dovrebbe essere realizzata nel segno del superamento del centralismo decisionale sinora privilegiato; motivo, questo, che è alla base della percezione, da parte della popolazione sarda, dei limiti con cui le istituzioni e i politici regionali hanno fino ad ora rappresentato e gestito l’autonomia speciale dell’Isola.
In conclusione, l’unico modo per salvaguardare e potenziare l’autonomia speciale finora riconosciuta, consiste nell’evitare che essa sia associata ai risultati fallimentari del passato; partendo da posizioni sovraniste, unicamente fondate su basi ideologiche, ciò non sarebbe possibile. Gli slogan indipendentisti possono consentire sul piano elettorale, al massimo, un effimero successo di breve periodo; alla lunga, la realtà dei fatti non tarderebbero a prevalere, rendendo inevitabile che la crisi della specialità autonomistica diventi irreversibile.

1 commento

Lascia un commento