L’Italia che non c’è ovvero la “dissonanza cognitiva” degli italiani sullo stato del Paese

21 Settembre 2019
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Gianfranco Sabattini

Nei sistemi democratici i cittadini sono chiamati a concorrere, con il loro consenso, alla soluzione dei problemi che caratterizzano lo Stato del quale fanno parte. Per svolgere efficacemente questa funzione, è necessaria una corretta conoscenza di tali problemi; l’informazione statistica consente di rilevare le condizioni politiche, sociali ed economiche di un dato Paese, risultando, così decisiva nella determinazione dell’orientamento espresso dall’opinione pubblica.
Nel secondo dopoguerra, il ruolo della statistica ha teso a concentrarsi sulla possibilità di misurare macrofenomeni sociali ed economici, ma soprattutto ad interferire nell’opinione pubblica, influenzando i comportamenti dei cittadini; è a tal fine che, in Italia, si è affermata la pratica del sondaggio che ha esteso il suo campo di applicazione dall’originario terreno del marketing a settori diversi e sempre più vasti. Nel campo del sociale, le prime indagini demoscopiche a campione statistico rappresentativo sono apparse in Italia solo dal 1946, con la fondazione della Doxa, un istituto specializzato in sondaggi d’opinione, ricerche di mercato e analisi statistiche; tuttavia, è stato dopo gli anni Novanta che la profonda evoluzione della vita politica ed economica ha favorito la diffusione delle indagini demoscopiche, per scopi però che hanno riguardato, prevalentemente, più la propaganda elettorale che la ricerca sociale.
Ciò non è stato privo di conseguenze negative, in quanto l’uso del sondaggio per scopi prevalentemente elettorali ha determinato che gli italiani si siano fatti un’idea della realtà nella quale vivono distante dalla realtà stessa. E’ questa la tesi che Nando Pagnoncelli, noto sondaggista, presidente dell’Ipsoa Italia (Istituto professionale per lo studio dell’organizzazione aziendale) e docente di Analisi della pubblica opinione, sostiene nel suo recente saggio dal titolo “La penisola che non c’è. La realtà su misura degli italiani”. Gli italiani – afferma Pagnoncelli – hanno “tutta una serie di certezze che alla prova dei numeri si sgretolano”; tuttavia esse, formando l’opinione di ogni cittadino, concorrendo alla formazione dell’opinione pubblica. Considerando che in Italia le indagini demoscopiche sono effettuate per ragioni prevalentemente elettorali, viene spontanea – secondo Pagnoncelli - la domanda: sposta più voti un fatto, o la sua percezione da parte degli elettori? Una statistica, o un’impressione?
Poiché i sondaggi statistici, quando effettuati per scopi elettorali, possono diventare uno strumento non più di misurazione, ma “di creazione, orientamento o addirittura sofisticazione dell’opinione stessa”, consegue che, in virtù delle loro presunta oggettività e neutralità, essi siano “utilizzati in modo distorto, al fine di influenzare il clima sociale e gli indirizzi di pensiero, ovvero per legittimare le proprie iniziative e screditare quelle degli avversari”. Alla base di questa distorsione c’è, per Pagnoncelli, un “grave problema di fraintendimento”, dovuto alla confusione che viene fatta tra “consenso istituzionale” e “consenso virtuale” (potenzialmente vero, ma non reale). La composizione personale di un’istituzione politica rappresentativa, qual è ad esempio il Parlamento, non rispecchia quasi mai, secondo Pagnoncelli, il consenso virtuale, misurato sulla base dei sondaggi e destinato a cambiare ripetutamente nel tempo, a causa della maggior dinamica dei fenomeni sociali rispetto alle scadenze temporali che caratterizzano il rinnovo delle istituzioni rappresentative.
Un esempio di confusione tra consenso istituzionale e consenso virtuale può aversi considerando quanto è accaduto in Italia in una prima parte di questa legislatura, dove l’effettivo peso politico delle due principali forze politiche al governo (Lega e Movimento 5 stelle) è cambiato repentinamente, perché basato sulle rilevazioni demoscopiche, indipendentemente dalla misurazione istituzionale del consenso riscosso da ognuna delle forze politiche, come risultato espresso dalle urne. In altri termini, prima della “caduta” del primo governo della legislatura in corso, nonostante sedesse in Parlamento con un numero di rappresentanti inferiore a quello del M5S, la Lega è stata progressivamente “trasformata” dai mass-media e dall’opinione pubblica in principale forza politica della maggioranza, perché “nei sondaggi ha raddoppiato il consenso ottenuto alle elezioni politiche, sorpassando il M5S, che nel contempo ha subito una flessione, in netta contrapposizione con la realtà esistente in Parlamento”. Ora che la Lega è fuori dal Governo del Paese, sta invece, nei sondaggi, iniziando a subire un ridimensionamento.
Il continuo alternarsi del peso politico delle forze politiche che siedono in Parlamento può generare - sostiene Pagnoncelli – “una schizofrenia istituzionale e programmatica”; ciò perché l’agenda politica può cambiare, a causa dei sondaggi, da una settimana all’altra, per cui ciò che era prioritario in un dato momento, può diventare del tutto secondario in un attimo successivo. Una situazione, questa, che, a parere di Pagnoncelli, ricorda quanto il politologo americano Walter Lippmann aveva intravisto già a partire dagli anni Venti del secolo scorso; ovvero, che in una società guidata dall’opinione pubblica, quella del governo può diventare un’attività determinata dalla “manipolazione del consenso”, nel senso che l’ambiente sociale nel quale esso opera, secondo le parole dello stesso Lippmann, non è più “quello della realtà, ma quello dello pseudoambiente delle voci, delle ipotesi, delle supposizioni”; in altri termini, quello della propaganda.
Se si seguono i sondaggi, questi diventano una “bussola” e, per ottenere consenso, i politici “individuano via via i temi che permettono loro di capitalizzare gradimento e popolarità in tempi rapidi”; in questa prospettiva, l’appello all’opinione pubblica per conoscere quello che vogliono gli elettori diventa la norma per farsi esprimere rappresentante politico del popolo, traducendosi in subalternità alle instabili opinioni che quest’ultimo esprime sui problemi da risolvere. In questo modo, l’opinione pubblica per i rappresentanti politici diventa la sola garanzia cui affidarsi, per legittimare le proprie decisioni o per consolidare la propria posizione. La conseguenza di ciò – commenta Pagnoncelli – è che “nessuno si azzarda più a studiare riforme strutturali o misure incisive che […] possano dare frutti nel medio e lungo periodo”.
Il “presentismo” della politica non prefigura più linee programmatiche, ma solo la propensione a “capitalizzare consenso nel presente, con pericolose conseguenze tanto per la classe dirigente quanto per i cittadini”. Fare riforme o progettare linee programmatiche significherebbe diventare impopolari, perché ciò implicherebbe necessariamente chiedere a certi gruppi sociali di “rinunciare a qualcosa di personale nell’interesse generale del Paese”. Mancando l’idea di futuro e di interesse generale, è inevitabile che la politica si “ripieghi sul presente, sul battere cassa, sull’inseguire il consenso ad ogni costo”, mettendosi acriticamente al carro dell’elettorato. Non casualmente, si parla spesso di “pifferai”, con riferimento a quegli esponenti politici che, anziché comportarsi da veri leader capaci di orientare le aspettative dei cittadini verso il perseguimento di obiettivi di interesse generale, mirano solo a soddisfare la sfera dei propri interessi personali; in realtà, accade invece che siano i rappresentanti del popolo ad essere eterodiretti dall’opinione pubblica, vero pifferaio, inseguito “disperatamente dai politici incantati dalla chimera del consenso”. Quali sono – si chiede Pagnoncelli - le conseguenza della subalternità della politica ad un’opinione pubblica, divenuta vero persuasore occulto inconsapevole dello stato effettivo nel quale versa la società?
Se il pilastro dell’attività politica è espresso da un popolo “in maggioranza distante dalla realtà”, la conseguenza sarà che la classe politica soffra anch’essa “di un’evidente e innegabile distanza tra percezione e realtà”; questa distanza – come osserva Pagnoncelli – in Italia si conferma stabile e grande, nel senso che, oltre ad essersi consolidata, la “misura” percepita dei fenomeni è spesso di gran lunga maggiore di quella reale. Accade anche che la distorsione nella valutazione del peso di dati fenomeni tenda ad aumentare quando essi evocano “allarmi sociali”, quali l’immigrazione, l’invecchiamento della popolazione, la situazione giovanile, la disoccupazione, la sicurezza, la tenuta dell’economia ed altro ancora.
Ad esempio, con riferimento al fenomeno dell’immigrazione, uno dei temi che in Italia è al centro del dibattito politico e mediatico, sulla base di un sondaggio condotto nel 2014, all’incidenza degli immigrati presenti nel territorio nazionale rispetto al totale della popolazione residente era assegnato un valore percepito pari al 30%; il dato reale, invece, corrispondeva al 7%, un valore pari ad un quarto di quello percepito, un numero ben quattro volte superiore a quello reale. La distorsione è risultata ancora più grave in relazione alla valutazione delle composizione degli immigrati; solo il 16% degli italiani riteneva che gli stranieri “regolari” presenti nel territorio nazionale fossero più numerosi degli “irregolari”, mentre il 47% era erroneamente convinto che i secondi prevalessero sui primi. Il pregiudizio sul fenomeno immigratorio era messo in evidenza anche da svariate altre percezioni errate, quale quella di pensare che fosse di religione musulmana il 20% dell’intera popolazione immigrata, mentre secondo l’ISTAT era pari al 2%.
Anche con riferimento alla popolazione, gli italiani hanno una percezione errata circa lo stato di anzianità (nel senso strettamente demografico) del loro Paese. L’Italia è certamente un Paese “anziano”, per l’incidenza delle persone con più di sessantacinque anni di età sul totale della popolazione, classificandosi come il secondo Paese più vecchio al mondo, dopo il Giappone, e il primo in Europa. Gli over 65 anni rappresentavano nel 2014 poco più del 22% dell’intera popolazione (meno di uno su quattro), mentre, secondo gli italiani, erano pari al 48% (quasi uno su due). La percezione era chiaramente distorta e, come nel caso degli immigrati, poneva l’accento sull’allarmismo, “sottolineando – come nota Pagnoncelli – una diffusa sensazione di tramonto, di crisi generazionale e produttiva”.
Identica situazione è stata accertata con riferimento al problema della disoccupazione. Il lavoro è certamente una priorità; ciò determina, in Italia come in ogni altro Paese, la “tendenza a dilatare la portata del fenomeno, ma in nessuno – sottolinea Pagnoncelli – “la forbice si spinge fino alla discrepanza italiana”. Nel 2014, a fronte di un tasso reale di disoccupazione del 12%, gli italiani, classificandosi al primo posto nell’indice mondiale di distorsione, percepivano che tale tasso fosse pari al 49%; sulla base si questa percezione distorta, quasi un italiano su due risultava disoccupato, come dire che il Paese era in stato di fallimento.
In conclusione, il travisamento della consistenza dei fenomeni sociali concorre a creare nei cittadini un’immagine deformata della realtà, e conseguentemente, considerata la tendenziale subalternità della politica all’opinione pubblica, una sostanziale inidoneità dell’azione politica a formulare risposte adeguate alla reale gravità dei problemi sociali da risolvere. Come rimediare agli esiti negativi delle false percezioni che stanno alla base dell’opinione pubblica italiana? Pagnoncelli suggerisce alcune condizioni, considerate dirimenti ai fini dell’inaugurazione di un’attività politica all’altezza della forza culturale ed economica del Paese.
Preliminarmente sarebbe necessario – egli afferma - “riportare al centro dell’attenzione pubblica il dato reale” sulla effettiva consistenza dei problemi sciali. A tal fine, occorrerebbe affermare un “nuovo patto” tra mass-media, cittadini e classe politica: i mass-media dovrebbero farsi carico di mettere i cittadini nella condizione di conoscere la reale consistenza dei fenomeni che maggiormente li inducono all’allarmismo; i cittadini, correttamente informati, dovrebbero indirizzare il loro consenso verso quelle forze politiche propense a rinunciare alla strumentalizzazione, per scopi personali, dei pregiudizi circa lo stato dei problemi da risolvere; la classe politica, infine, rinunciando al presentismo, dovrebbe orientare la propria attività a convogliare il consenso popolare verso obiettivi socialmente condivisi, dei quali la “forza” del sistema-Italia sia in grado di garantire il perseguimento. E’ l’auspicio che, da tempo, tutti gli italiani di buon senso attendono che si veifichi.

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