Di Matteo, un magistrato valoroso, lo sarebbe di più se serbasse il silenzio

15 Maggio 2020
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Andrea Pubusa

Ho sempre pensato che la professione del magistrato sia una delle più difficili e delicate. Richiede doti non comuni. Dottrina, buon senso, conoscenza di tutte le situazioni su cui è chiamato a giudicare. Ricorda Piero Calamandrei in un bel libro (”Elogio dei giudici da parte di un avvocato“), di cui consiglio la lettura a tutti i neo laureati in utroque jure, che un giovane magistrato fiorentino (poi disgraziatamente ucciso da un cecchino fascista) per capire la situazione dei detenuti, si fece rinchiudere per una settimana in incognito nel carcere fiorentino. Ora, il difetto maggiore dei magistrati, non è generalmente la dottrina, anche perché oggi con internet è facile avere i precedenti giurisprudenziali e dottrinali, è la capacità di comprendere il fatto, di apprezzare tutti i risvolti oggettivi e soggettivi del caso da giudicare. Il diritto infatti non è solo norma o principio astratto, nasce dalla dialettica norma/fatto, cosicché la stessa disciplina può e deve essere declinata in modo diverso a seconda delle caratteristiche del fatto. E’ questa capacità che rende i giudizi giusti, accettabili. Un’altra delle doti, anzi direi dei doveri, del magistrato è il silenzio: Al contrario degli avvocati che spesso hanno il dovere di parlare, i magistrati devono farlo solo con decreti, ordinanze e sentenze. Punto.
Non sarò certo io a sostenere che i magistrati, come cittadini, non debbano partecipare al dibattito pubblico, ma devono farlo in riferimento a discussioni generali, in cui non siano coinvolti i loro processi e loro stessi. Non possiamo dimenticare il contributo importante che molti magistrati democratici e le loro associazioni hanno dato nelle battaglie in difesa della Costituzione, delle garanzie e delle libertà contro gli attacchi provenienti da varie parti e, tantomeno, il tributo di sangue nel contrasto al terrorismo e alle mafie. Qui si apre un campo in cui la gratitudine ai magistrati deve essere generale, manifesta e senza riserve. Tuttavia, quando il magistrato abbandona questo suo terreno specifico e scende nella polemica politica contingente o parla di sé, sbaglia al di là del merito delle questioni e, ciò che è peggio, perde autorevolezza.
Nella polemica con Bonafede, Di Matteo ha commesso questo errore. Intanto perché parlava di sé, in secondo luogo perché ha sollevato la questione in una trasmissione TV per sua natura volta obiettivamente a distorcere la vicenda stessa a fini di polemica pretestuosa e improduttiva. Di Matteo ha inoltre fatto, al di là delle intenzioni, filtrare l’idea che la scelta del ministro sia stata condizionata dalle pressioni mafiose, da cui è stato facile a certi media lanciare la gran cassa su una responsabilità di Bonafede nella scarcerazione, causa pandemia, di alcuni pezzi da novanta della mafia, mentre è noto che quei provvedimenti vengono assunti dai giudici di sorveglianza in perfetta autonomia e indipendenza senza possibilità di intromissioni ministeriali. D’altronde, Bonafede e i pentastellati di tutto possono essere accusati fuorché di essere accondiscendenti coi delinquenti, essendo a tutti noto che i grillini hanno riportato nella politica, in presenza di un malcostume dilagante, la centralità della questione morale.
Si dice che anche i migliori sbagliano, ed è umano, tuttavia chi nell’opinione generale simboleggia rigore professionale e morale dovrebbe essere più prudente nel sollevare questioni personali. In certi casi è proprio vero che il silenzio è d’oro.

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