E’ davvero un valore il posto fisso?

24 Ottobre 2009
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Gianfranco Sabattini

Proseguiamo il dibattito sul posto fisso con l’intervento di un noto economista dell’Ateneo cagliaritano, il Prof. Gianfranco Sabattini.

La recente dichiarazione del Ministro del tesoro sul fatto che la mobilità del lavoro, a differenza del posto fisso, non è un valore, perché nei sistemi sociali come il nostro il lavoro a tempo indeterminato “è la base su cui organizzare un progetto di vita e di famiglia”, ha suscitato opposte reazioni. L’interesse che queste hanno evidenziato, non sta tanto nell’assistere alla convergenza di una parte dei componenti dell’esecutivo in carica da posizioni “di destra” verso posizioni tradizionalmente “di sinistra”, quanto nella circostanza che la “provocazione” del ministro è servita a fare emergere come, sia a destra che a sinistra, ancora non ci sia resi conto che la struttura dei sistemi sociali attuali non giustifica più la prospettiva del posto fisso. Tutte le proposte riconducibili all’idea di assicurare all’intera forza lavoro un posto fisso scontano le condizioni di funzionamento dei sistemi economici del periodo pre-keynesiano. Allora, l’operatività di simili proposte stava nel fatto che erano destinate ad essere istituzionalizzate all’interno di sistemi economici caratterizzati da ampie possibilità di crescita coniugate ad ampie possibilità di creare crescenti opportunità occupazionali aggiuntive. Allo stato attuale, le attività produttive per conservarsi e per espandersi ulteriormente devono di continuo approfondirsi capitalisticamente. Un fatto, questo, che contribuisce a creare una disoccupazione crescente strutturale e permanente ed a creare la base di conservazione della nuova povertà. Una povertà destinata ad espandersi ed inclusiva non solo di chi perde il posto di lavoro, ma anche di chi non riesce ad inserirsi stabilmente nel mercato del lavoro e di chi come capita molti componenti di larghe fasce di forza lavoro non più attiva, non ha sufficienti risorse per la sopravvivenza.
In presenza di queste condizioni operative dei moderni paesi industrializzati, si rende necessaria l’istituzionalizzazione di un reddito di cittadinanza universale ed incondizionato del quale da tempo si discute a livello europeo e mondiale, ma non Italia. Questa forma di reddito non avrebbe solo lo scopo di garantire un reddito a tutti i soggetti, na anche quello di stimolare il settore delle famiglie a svolgere un ruolo innovativo dal lato del consumo, anche attraverso l’attivazione di comparti produttivi orientati ad offrire beni e servizi dei quali le famiglie sono state nel passato i principali centri di produzione e di distribuzione. Inoltre, il ruolo innovativo dal lato del consumo svolto dal settore delle famiglie, orientato a favorire l’accesso generalizzato al reddito, svolgerebbe una funzione di stabilizzazione sociale e di propulsione nei confronti dell’intera base produttiva e anche una funzione dinamica nei confronti del settore pubblico; quest’ultimo, infatti, potrebbe disporre di maggiori entrate derivanti dalla conseguente espansione della base imponibile. Un reddito di cittadinanza così inteso concorrerebbe anche ad alleggerire le pressione esercitata sul mercato del lavoro, a causa dell’aumentata possibilità per tutta la forza lavoro di orientare la propria capacità lavorativa verso lo svolgimento di un’attività produttiva più attraente sul piano delle preferenze individuali e tale da compensare la rinuncia al posto di lavoro o la rinuncia a trovare un’occupazione all’interno delle attività produttive tradizionali, anche se ciò dovesse garantire un reddito inferiore. E’ questo un aspetto importante del reddito di cittadinanza universale ed incondizionato. Questo reddito, pur istituzionalizzato in modo da salvaguardare il principio della “minior preferenza” (less liability) concilierebbe l’esigenza di rendere sempre possibile, per la forza lavoro che lo preferisse, il reinserimento nel mercato del lavoro tradizionale e la sua sostenibilità fiscale. Esso, in tal modo, varrebbe a rimuovere, in maniera assoluta e radicale, lo “stigma del pauperismo” presente in ogni forma di assistenza burocratica e selettiva, lo “stigma della disoccupazione” e lo “stigma della precarizzazione”; in altre parole lo “stigma dell’incertezza del posto di lavoro.
Ovviamente, la istituzionalizzazione di un reddito di cittadinanza così inteso richiederà il rispetto di due condizioni: la prima, che i trasferimenti effettuati per la soluzione di tutti i problemi sociali siano utilizzati per il finanziamento del reddito di cittadinanza; la seconda, che l’aspirazione al reddito trovi nell’etica della solidarietà la giustificazione dell’assegnazione diretta del reddito sociale. In questo modo, sarà plausibile ipotizzare che sicurezza sociale, stabilità, crescita e sviluppo del sistema sociale possano procedere di pari passo, senza la fideistica certezza che una maggiore flessibilità del mercato del lavoro, in assenza di una stabile e continua sicurezza sociale, possa sortire l’esito del rilancio della crescita e dello sviluppo. Ovviamente, nella realizzazione di un progetto politico siffatto, il gradualismo dovrà sempre fare premio sulla pretesa del “tutto e subito”; ciò, soprattutto nella riorganizzazione dell’intera struttura istituzionale necessaria perché la realizzazione del progetto abbia pieno successo.

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  • 1 Cristian Ribichesu
    25 Ottobre 2009 - 16:43

    Io sono per il posto fisso, con la valutazione del merito e il licenziamento per giusta causa, ma per il posto fisso. In Italia si è passati dalla flessibilità nel lavoro, concetto, relativamente, positivo di qualche anno fa, alla “flessibilità” negativa del precariato, che vede vere e proprie interruzioni lavorative (la flessibilità era prevista senza soluzioni di continuità). L’assistenzialismo o le misure di solidarietà sociale devono essere solo temporanee, mentre invece bisogna investire per creare occupazione stabile. I risparmi devono essere fatti agendo sul controllo dei finanziamenti in tutti i settori, dalle grandi incompiute dell’edilizia, che alla fine dei conti fanno lievitare i costi delle opere molto più di quanto previsto inizialmente, all’imposizione di un tetto massimo per gli stipendi dei manager, alla regolamentazione delle scatole cinesi che invadono il mercato delle S.P.A., alla riduzione degli stipendi e dei privilegi dei parlamentari, alla lotta contro l’evasione fiscale, alla lotta contro le organizzazioni criminali, ecc. . Tra l’altro, in molti casi, non dico sempre, la precarietà, con i sistemi dei contratti a tempo determinato e con i progetti, facilita la creazione di clientele o meccanismi impliciti o espliciti, volontari o involontari di gestione delle persone, per non parlare della riduzione della tranquillità generale da parte di chi si trova nella situazione della precarietà. Posto fisso, si, ma meritato, senza negare, appunto, la valutazione del merito e il licenziamento per giusta causa, ma tensione verso la stabilizzazione al lavoro di tutti.

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