La sfida dell’oggi? Rifondare le Comunità

1 Dicembre 2010
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Aldo Lobina

Raccogliere la sfida di far ridiventare comunità i nostri paesi è l’obiettivo alto che potrebbero darsi i circoli culturali dei nostri Comuni in Sardegna. Queste associazioni potrebbero fare molto per riscoprire e riproporre elementi di una organizzazione sociale diversa, più integrata, a partire dal vicinato e dai quartieri.
E’ la speranza descritta nel “Manifesto della Gioventù eretica del Comunitarismo” di Spiga, Masala e Cherchi. Dove, contro la “malasorte globalizzante” emerge la necessità di ripartire dai Comuni, per farli diventare botteghe artigiane di cultura, di economia e politica insieme. (“Dae sas biddas po ddas fai torrai a nasci comente comunidadis, sas mizas de sos valores mannos. Po ddas fai torrai a biviri comente is primus logus de sa cultura, de s’economia, de sa politica”).
Una organizzazione sociale a base comunitaria è il segreto suggerito per un vero riscatto sociale. E l’esortazione è soprattutto rivolta ai giovani, invitati ad abbandonare il conformismo di una pseudo cultura, alienante, venale, disumana, di cui sono evidenti gli insuccessi: la distribuzione della ricchezza sbilanciata e sempre più concentrata nelle mani di poche multinazionali che governano il mondo. Che riservano alla politica un ruolo ancillare di rappresentare la decisione e non quello di generarla.
Oggi siamo cioè di fronte ad un capovolgimento di gerarchie, laddove è il profitto di pochi a condizionare la sorte di molti, il risultato di un processo che vede l’economia dettare alla politica quello che si deve e non si deve fare, costi quello che costi. Una nuova tirannide incombe in questo mondo in cui diventa molto più difficile diventare per ciascuno il faber suae fortunae, col rischio che per diventare “fortunati” ci si pieghi come canne al vento, in complicità servili di un sistema anaffettivo. Dove lo stesso mandato politico è un simulacro di una democrazia vinta dal sistema autarchico, che impone maggioranze false a maggioranze vere di cittadini, ignari e indifesi. E resi inermi di fronte ad una informazione che non forma e che informa di sé il cittadino – cliente, due volte cliente, attraverso letture e rappresentazioni mistificanti della realtà.
E’ necessario allora ribellarsi a questa situazione di degrado e riscoprire un nuovo umanesimo, che veda l’uomo al centro di bisogni materiali e immateriali, protetto da diritti e doveri, in un contesto che riserva alla natura che lo circonda altrettanta cura. Avere chiaro sempre lo scopo di quello che si fa e controllare responsabilmente come lo si fa è misura della nostra libertà e di quella degli altri. Che non può essere coartata da privilegi conquistati in modo fraudolento.
Concordo con Galimberti, col passo sbagliato anche l’intelligenza tecnico - scientifica, non governata – ammesso che sia possibile farlo – può davvero diventare un altro nuovo tiranno, senz’anima, che pur figlia di una giusta propensione umana, la sete di conoscenza e la sua applicazione, addirittura rischia di superare la tirannide economica, che ancora la controlla. Dove la sete di guadagno compete solo con se stessa in un crescendo destruente. La politica? Ancora indietro, vana rappresentazione di decisioni già prese altrove.
C’è un limite a tutto. Anche alla miseria umana, che affonda nella non politica. Di qui nasce la speranza di rompere catene per liberare forze e idee nuove, per tornare a parlare di persone, senza perdere di vista il senso stesso della parola homo, per la quale l’umiltà, cioè l’umanità, contiene la grandezza di dover condividere l’umus, la terra, ma anche la possibilità di poter guardare antropologicamente in alto il Cielo.
Michele Podda nel suo commento al mio precedente articolo “Mare nostrum”, pubblicato in questo blog, ha invitato i giuristi a interessarsi al modello assembleare nuragico.
Lo faccio anch’io, rivolgendomi non solo ai giuristi. Ma a tutti coloro che hanno a cuore le sorti della democrazia, che per essere tale deve ripartire proprio da entità a misura d’uomo, come i comuni e i quartieri per le grandi città. Ci piace pensare al mito e alle sue suggestioni, se possono innescare passioni civili.
Ma se la disamistade , come accade spesso nei nostri comuni, è motore per la creazione di circoli pseudo culturali e politici con programmi di conservazione di potere per il potere, allora tutto questo discorso è vano. Se i partiti locali sono casse di risonanze vuote di oligarchie senza valori il ragionamento che abbiamo fatto non serve. Allora la “politica” non è fertile, e nel suo campo crescono consorterie lontane dai bisogni reali della gente.
In un paese (anche con la p maiuscola) normale la cultura democratica accetta il confronto di idee, di progetti sociali alternativi, più spesso complementari; non è una guerra per bande, che demonizza l’avversario. La cultura democratica può essere più facilmente coltivata dentro piccole comunità e poi sviluppata, allargandone gli orizzonti anche ad entità regionali e sovranazionali, che evidentemente sono più grandi, ma sono pur sempre derivate.
Penso che questa versione tutta nostra della “fraternité”, che è il mitico comunitarismo, abbia senso e possa essere sperimentata come “ricostituente” delle istituzioni democratiche, che ne devono ricevere deleghe “attive”, impegnando quelle funzionalmente sovraordinate al rispetto delle scelte di chi detiene la sovranità primigenia, cioè al rispetto delle Comunità.

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