Gramsci e Turati: rivoluzione o riformismo?

26 Marzo 2012
2 Commenti


Gianfranco Sabattini

Nei giorni scorsi abbiamo pubblicato una riflessione critica sul libro di Orsini di un gramsciano, Gianni Fresu, e ancor prima, contro il revisionismo storico sul pensatore di Ales, di Francesco Cocco. Oggi ecco sull’argomento un intervento di un “mazziniano”.

Chi è stato tra Filippo Turati e Antonio Gramsci il portatore maggiore di valori democratici e riformisti?. A questa domanda si propone di dare risposta il sociologo Alessandro Orsini, in un volume uscito di recente intitolato “Gramsci e Turati. Le due sinistre”.
Orsini ripercorrendo i principali “modelli pedagogici” alla base delle due maggiori anime della sinistra, ricostruisce i valori politico-culturali dei due personaggi più rappresentativi della sinistra italiana: principalmente attraverso atti congressuali per Turati e, per Gramsci, attraverso numerosi scritti che vanno dal 1916 sino ai celebri Quaderni del carcere.
Dal confronto Orsini ricava l’idea che Turati sia stato autentico difensore dei principi a fondamento della cultura politica dei socialisti democratici e riformisti. Mentre di Gramsci, sin tanto che è stato uomo libero, il sociologo ricava l’immagine di uno strenuo difensore di principi antidemocratici ed antiriformisti propri del “modello bolscevico”.
Orsini, inoltre, invita a rilevare due circostanze. Una è che, malgrado la diversità dei principi professati, la figura di Turati è stata coperta da discredito e messa in ombra, soprattutto a causa dei giudizi negativi mossi sul suo conto da esponenti del partito di Gramsci. La seconda circostanza è che Gramsci, contrariamente a Turati, verrà celebrato e ricordato come uno dei padri nobili della sinistra democratica italiana.
Il materiale documentario proveniente da fonti congressuali indurrebbe, cioè, senza troppi dubbi a ricavare che la cultura politica turatiana è sempre stata aperta ai principi del relativismo culturale, del rispetto degli avversari, del pluralismo politico, dell’elogio del dissenso, della difesa del diritto all’errore e dell’amore dell’eresia. Principi questi ai quali Turati è sempre stato fedele e, per questo motivo, riconoscibile “campione” di democrazia e di riformismo.
Più complesso, sempre per Orsini, sarebbe il discorso su Gramsci. Nel senso che dagli scritti del pensatore sardo prima del suo arresto e dai Quaderni del carcere, emergono aperture ai valori della democrazia e del riformismo diametralmente opposte. Mentre, nel periodo anteriore all’arresto, la cultura politica gramsciana appare sostanzialmente chiusa ai principi della democrazia e del riformismo, nel periodo successivo, la stessa cultura sembra rivelare una nuova “carica vitale” in una revisione profonda dei principi precedentemente condivisi.
Si tratta di un passaggio critico che, nel lavoro di Orsini, viene sminuito in importanza. Nel senso che, nello stesso lavoro, tale passaggio è associato al fatto che Gramsci in carcere avrà uno spazio tanto ristretto da risultare totalmente sottomesso “alle regole dell’istituzione carceraria” e, completamente isolato dal partito comunista, propenso ad evitare “ogni gesto sgradito all’autorità”. L’isolamento e la sottomissione avrebbero così determinato un affievolimento della chiusura di Gramsci ai principi democratici e riformisti.
Questa interpretazione sembra però riflettere un eccesso di wishful thinking di natura ideologica. Ovvero, sembra riflettere il desiderio di poter giustificare l’esclusione di Gramsci dal novero dei pensatori di sinistra democratici e riformisti. Sennonché, lo studio dei Quaderni del carcere, sottratti alle strumentalizzazioni politico-ideologiche, ha potuto suggerire che in essi si è compiuto un reale superamento dell’originario pensiero politico di Gramsci. Basti pensare il ruolo assegnato al concetto di egemonia nella spiegazione del funzionamento delle istituzioni proprie di un sistema sociale democratico per il governo della società civile.
Come è noto, il pensatore sardo interpreta la democrazia come luogo di confronto tra gruppi sociali antagonisti. La sfida è per loro l’instaurazione di un rapporti egemonico. I gruppi stanno cioè in una contrapposizione sempre reciproca e dialettica,. Il loro obiettivo è quello di stabilire uno “scambio equilibrato” tra tutti gli interessi presenti all’interno della società civile. E proprio questo scambio a legare in modo del tutto originale la democrazia al pluralismo della società politica. L’esercizio del rapporto egemonico si trasforma così in un “governo delle differenze” e non in una omologazione o dissoluzione delle differenze in una presunta visione superiore della società civile, come ipotizzato da Gramsci prima della carcerazione, quando pensava alla dittatura del proletariato.

2 commenti

  • 1 admin
    26 Marzo 2012 - 11:30

    Andrea Pubusa

    Prendere uno scritto giovanile di Gramsci come “l’elogio del cazzotto” per dire - come fa anche Saviano - che il pensatore sardo era un violento è di per sé una pura imbecillità, che non merita replica. Già il titolo dell’articolo indica che si tratta di una critica forte di comportamenti che meritano una severa censura. E’ anche segno di non grande perspicacia e di mancanza di prospettiva storica dire che Gramsci - a diffrenza di Turati - non è da annoverare fra i pensatori democratici. Pur non essendo io uno storico, ben so che nel Movimento operaio di fine ottocento e dei primi del novecento si aprì una querelle, cui parteciparono i massimi esponenti del pensiero socialista, fra coloro che ritenevano che i partiti socialisti dovessero, una volta giunti al governo, solo adattare la macchina statale borghese ai bisogni popolari e chi, invece, affermava, più radicalmente, di doverne creare una nuova sulle ceneri dello Stato borghese. Fu lo stesso Marx (insieme ad Engels) a porre il problema nelle celebri riflessioni sulla Comune di Parigi. Chi torna oggi su quello scritto, ma anche su quello celebrativo di Lenin 30 anni dopo, si rende conto che l’idea di democrazia di questi personaggi muove dalla constatazion che il sistema parlamentare borghese dava voce solo ad una parte della società, a quella dominante, mentre lasciava ai margini la grande maggioranza degli uomini e delle donne. L’idea di fondo era quella di ricercare una forma statuale che consentisse il governo della stragrande maggioranza del popolo. Questa, in fondo, era anche la “dittatura del proletariato”, in cui il termine dittatura, in proseguo di tempo ha assunto i connotati negativi che ben conosciamo. Significava allora più propriamente governo, potere di governo.
    Gramsci si inserisce in questo dibattito in modo creativo e scava proprio su questa problematica decisiva. Il suo concetto di egemonia, come sottolinea anche Sabattini, ha il grande merito di ricondurre nell’ambito del confronto politico il problema del governo e del potere, sganciandolo da quello della forza, ossia dell’imposizione manu militari.
    Oggi la critica del parlamentarismo borghese presenta nuovi aspetti. Ma si può dire - in presenza dei fatti italiani, greci ed europei, che l’attuale democrazia borghese sia esente da manchevolezze? Non è forse vero che oggi più che mai il governo europeo e mondiale è un “comitato d’affari” dei grandi poteri economico-finanziari? Ed oggi non è urgente più che mai un governo della maggioranza delle masse nei singoli stati e nel mondo? Si tratta - come ha scritto bene il compianto Bensaid in un recente scritto - di “inventare l’ignoto”, cioé una forma statuale che assicuri questo governo della grande maggioranza del popolo. Un problema oggi più attuale che mai.
    Il paradosso in tutta questa vicenda è che chi fa un uso pratico e politico del concetto gramsciano di egemonia sono proprio i grandi gruppi economico-finanziari, che hanno non solo studiato, ma anche applicato l’elaborazione di Gramsci sulla conquista delle casematte, le istituzioni culturali, i media, il linguaggio e in genere tutto ciò che crea egemonia.
    Questo spiega anche perchè non è neppure proponibile un confronto fra Gramsci e Turati. Quest’ultimo è una grande personalità del socialismo italiano, un grande antifascista, a cui noi italiani dobbiamo molto. Gramsci è un grande del pensiero mondiale. Comprendo che a molti dia fastidio ch’egli sia un comunista, il primo segretario nazionale del Partito comunista in Italia, e che questa sia sempre stata la sua collocazione, come tutta la sua opera mostra. Ma non sarebbe più utile scavare nel suo pensiero per trarne tutte le suggestioni e le molte indicazioni ch’egli ci dà anche per l’oggi, anziché attardarsi in un’astiosa e inutile polemica antigramsciana o in un ancor più patetico revisionismo sulla figura del nostro grande conterraneo?

  • 2 francesco cocco
    26 Marzo 2012 - 20:02

    Credo che sia l’articolo di Gianfranco Sabattini e poi l’intervento di Andrea Pubusa, mettano chiaramente in evidenza i limiti di questo lavoro di Orsini. Esso è da inquadrare nella complessiva operazione finalizzata a mettere in cattiva luce il pensiero e l’opera di Gramsci. Nel caso di Orsini si arriva persino ad una contrapposizione ridicola su chi tra Gramsci e Turati fosse più democratico. Come hanno giustamente posto in evidenza sia l’autore dell’ articolo che il direttore di questo blog, occorre andare al di là di conclusioni sommarie, aver chiari gli elementi storici e comprendere (vedi Pubusa) che al là di certa terminologia vanno individuate le finalità storiche ed ideologiche di certe categorie politiche. Così la stessa “dittatura” del proletariato va inquadrata nella finalità di liberazione universale che in quel momento storico tale categoria assumeva. Certo Gramsci e Turati partivano e soprattutto si muovevano su posizioni politiche diverse, ma ciò non implica contrapposizione in termini di libertà. Insomma un esercizio di pensiero, quello di Orsini, che portato al di fuori di un terreno storicistico finisce per avere solo il carattere di un libello propagandistico.

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