Europa: perché cresce la sfiducia dei popoli?

27 Maggio 2013
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Stefano Squarcina

La critica verso la UE è sempre più diffusa. Grillo prospetta addirittura un referendum sulla permanenza dell’adesione dell’Italia. La ragione? Le politiche liberiste e del rigore sono ritenute sempre più una delle cause determinanti della grave crisi economica e sociale dei paesi del Vecchio Continente.
Rosa Maggio ci invia questo interessante intervento di Stefano Squarcina, funzionario europarlamentare della Sinistra Unita Europea, che fa il punto della situazione e che, pertanto, volentieri pubblichiamo.

“Ciò che più ci minaccia oggi non è la sfiducia dei mercati, bensì quella dei popoli che governiamo; non si sentono più rappresentati dai sistemi politici nazionali e da quello europeo”: non usa mezzi termini il Presidente francese, François Hollande, per parlare della grave crisi economica, democratica e di rappresentanza che affligge l’Unione europea, “un effetto diretto dell’austerità”, aggiunge. Le severe politiche antisociali di consolidamento fiscale e di bilancio, infatti, hanno indotto un preoccupante salto di qualità della natura dei problemi che l’Unione ha di fronte: l’austerità non è più solo all’origine del processo di desertificazione economica ed industriale dell’UE, con i suoi livelli record di disoccupazione e recessione; ma ormai, agendo come catalizzatore ed acceleratore del processo di disgregazione sociale e democratica in gran parte degli Stati Membri UE, ha intaccato il cuore stesso del progetto di integrazione europea, ha allontanato in modo forse irreversibile i popoli europei dal progetto comunitario che regge solo se vengono fornite garanzie in termini di produzione, trasmissione e condivisione della ricchezza interna, ha dato libero sfogo nell’UE ad una serie di spinte politiche centrifughe che ne minacciano l’esistenza.
Siamo arrivati ad un tale punto di criticità sistemica che le istituzioni europee, avvolte in una spirale austericida, stanno compiendo una parziale inversione di rotta, se non altro per quanto riguarda la narrazione politica e simbolica dell’austerità. Dice ancora François Hollande: “L’Europa ha la necessità urgente di uscire dal paradosso in cui si trova: è ancora la prima potenza commerciale al mondo ma è destinata al declino definitivo se insiste con l’austerità. La recessione rappresenta una minaccia per l’esistenza e l’identità stesse dell’Unione europea. Se non cambia, l’UE sparirà dalla mappa del mondo e dall’immaginario collettivo. Bisogna passare all’offensiva e scuotere l’Unione dall’apatia in cui giace”. Persino la Cancelliera tedesca Angela Merkel - complice forse la campagna elettorale in corso - ammette che l’austerità da sola non basta più, per non parlare dei recenti richiami del Presidente BCE, Mario Draghi, a nuove politiche di crescita e redistribuzione del reddito. Anche l’imperturbabile Presidente della Commissione europea, Manuel Barroso, annusando la nuova aria che tira, afferma adesso che “benché fondamentalmente giuste, le attuali politiche fiscali di consolidamento hanno raggiunto i loro limiti”. Come si è arrivati a questo punto? Perché gli storici evangelisti dell’austerità sembrano oggi voler cambiare rotta? O si tratta solo di una nuova strategia di comunicazione?
I punti di criticità sono almeno di due ordini, economico-finanziario e politico-democratico. In una prima fase, le politiche di austerità della troika BCE-FMI-UE sono state applicate in tutta la loro aggressività antisociale e assurdità economica nei paesi della cosiddetta periferia europea: Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e più recentemente Cipro. L’Italia ha applicato le stesse politiche in modo solo apparentemente più autonomo, non per questo abbiamo evitato l’emergenza sociale, anzi. A nessuno importava davvero del massacro sociale generalizzato prodotto dall’austerità in questi paesi, ancora meno del crollo verticale del loro PIL. L’ondata della recessione e lo smantellamento d’intere filiere industriali, invece, si sono abbattuti per contagio sull’insieme dell’Unione europea, in particolare l’Eurozona. Qualcuno pensava forse di salvarsi da solo, ma la recessione ha travolto anche la Gran Bretagna e la Francia, due grandi economie europee; la crescita tedesca è stagnante, ferma a pochi decimali di percentuale grazie solo ad un euro debole rispetto al dollaro che ne facilita le esportazioni extra-UE, quelle intra-UE sono crollate da tempo; anche la virtuosa Olanda, che ha sempre fatto la voce grossa con Atene o Roma, non esclude adesso l’ipotesi di accedere a prestiti europei, mentre nuove nubi si addensano sulla Slovenia, prossima candidata a futuri interventi della troika. L’Unione europea sarà ancora in recessione economica durante tutto il 2013, altro che uscita dal tunnel.
È ormai inoltre assodato che l’austericidio ideologico imposto dalla destra europea si fonda su clamorosi errori econometrici e di parametratura statistica delle politiche di austerità. Il recente mea culpa e le scuse ufficiali offerte al popolo greco da parte del Fondo Monetario Europeo per gli errori matematici commessi nelle previsioni d’impatto delle politiche di austerità sui reali tassi di crescita e disoccupazione sono senza precedenti: l’FMI ha riconosciuto che alcuni algoritmi contenuti nei suoi piani di elaborazione delle politiche da applicare in Grecia hanno ampiamente sottovalutato gli effetti sociali nefasti dell’austerità. Come se ciò non bastasse, tre studenti americani di un’università d’economia del Massachusetts hanno scoperto errori simili contenuti nell’impianto statistico alla base di un acclamato studio di due professori di Harvard, Reinhart e Rogoff, nel quale si dimostra che un rapporto debito/PIL superiore al 90% ammazza automaticamente la crescita: tutte sciocchezze, poiché l’università del Massachusetts arriva a conclusioni opposte usando semplicemente in modo più accurato alcuni parametri matematico-statistici, cosa che ad Harvard non è stata fatta. Un dibattito che ha scatenato il pandemonio tra gli economisti di tutto il mondo, anche perché le dissertazioni di Reinhart e Rogoff, che hanno parzialmente ammesso l’errore, sono alla base dell’impianto scientifico- ideologico dell’austerità. La teoria della soglia del 90%, infatti, è ripresa in numerosi studi e documenti della troika BCE-FMI-UE.
Sul piano politico, lo scostamento tra cittadini e politica è ormai abissale, l’evidente crisi democratica e di rappresentanza sta travolgendo l’UE. Sono almeno dodici i governi europei che sono stati spazzati via per problemi di gestione economica dell’austerità e di consolidamento dei deficit, dall’irlandese Brian Cowen nel gennaio 2011 al bulgaro Boiko Borisov nel febbraio 2013, una lista destinata ad allungarsi. In Europa emergono nuove forze politiche che si autodefiniscono antisistema; altre sono decisamente antieuropee e pretendono l’uscita del loro paese dall’UE; altre sono apertamente nazionaliste e di estrema destra, persino neonaziste come la greca “Alba Dorata”. In troppi casi si tratta di movimenti in forte crescita elettorale, tanto che gli austeriani -come li chiama l’economista USA Paul Krugman- stanno già agitando lo spauracchio di un’Europa dominata dagli euroscettici, come se gli adepti del rigore ideologico non avessero nessuna responsabilità in questa faccenda. L’austerità, insomma, scardina la democrazia: quando viene negato il diritto al lavoro è il contratto sociale che ci mantiene uniti e solidali ad essere in pericolo, a maggior ragione se si procede allo smantellamento del modello sociale europeo.
Preso atto della situazione, l’Unione europea sta goffamente cercando di correre ai ripari senza però voler rimettere in discussione i fondamentali dell’austerità. Dopo la gestione catastrofica del dossier Cipro da parte dell’Eurogruppo e la gravissima decisione -senza precedenti- di autorizzare prelievi forzati persino sui conti di singole persone fisiche per rifinanziare il sistema bancario, Bruxelles ha compiuto alcuni gesti che potremmo definire distensivi, più nella forma che nella sostanza. Francia e Spagna hanno ottenuto due anni in più per rispettare i piani di rientro del deficit; l’Italia è stata autorizzata a ripianare parte dei crediti che le imprese private vantano verso l’amministrazione pubblica senza creare nuovo debito, è prossima anche la chiusura formale della procedura d’infrazione per deficit eccessivo; Grecia, Irlanda e Cipro hanno incassato nuove tranches di aiuti europei più rapidamente del previsto; il Portogallo ha a disposizione nuove linee di credito; e così via… Quale contropartita, tutti questi Paesi (ma anche molti altri) dovranno approvare nuove riforme economiche e sociali, a partire da pensioni e mercato del lavoro; in cambio, per l’appunto, vengono ampliati i margini di manovra dei singoli governi, soprattutto per quanto riguarda la tempistica di approvazione delle riforme, che di questi tempi è già qualcosa. Nel frattempo l’impianto politico-istituzionale dell’austerità si arricchisce di nuovi strumenti: a giugno è entrato in vigore il nuovo “Two-Pack” sulla governance europea che dà alla Commissione di Bruxelles il potere di esigere dagli Stati Membri UE nuove leggi di stabilità finanziaria se quelle elaborate non la convincono; sta per essere presentata una proposta legislativa per coordinare preventivamente a livello europeo ogni grande riforma economica nazionale; è quasi pronta anche una nuova “iniziativa per la promozione dei livelli di convergenza e competitività” nell’Unione.
Per ottenere eventuali, sostanziali cambiamenti nell’applicazione delle politiche di austerità saranno decisivi i risultati delle prossime elezioni legislative tedesche del 22 settembre 2013. In Europa, molti puntano apertamente allo scardinamento elettorale dell’attuale coalizione di governo a Berlino: l’ipotesi di partenza è che qualsiasi esecutivo tedesco diverso da quello oggi in carica indurrà Angela Merkel, lo voglia o no, a correggere il tiro, anche perché le previsioni di crescita della Germania sono tutte asfittiche. La drammatizzazione politica attuale sugli effetti economici dell’austerità serve anche a questo, a forzare in ogni caso la mano del futuro governo tedesco. È ancora François Hollande a guidare il processo di confronto/scontro con Berlino. Il 16 maggio scorso ha presentato il suo “piano di rilancio dell’Unione europea” che si articola in quattro proposte: la creazione “di un governo economico dell’Eurozona, con un vero presidente, che si riunisca ogni mese per armonizzare la fiscalità e la convergenza sociale verso l’altro, oltre a occuparsi di lotta alla frode fiscale”; il finanziamento di “un piano europeo per il rilancio dell’occupazione giovanile”; la costituzione di una “vera comunità europea dell’energia”; il perseguimento di “nuove tappe d’integrazione europea che diano all’UE una capacità propria di bilancio che le permetta a breve di presentarsi autonomamente sui mercati mondiali” (riferimento indiretto, quest’ultimo, alla possibilità di emettere eurobonds o titoli di stato europei). “Entro due anni -riassume Hollande- possiamo arrivare ad una vera unione politica”.
A ben guardare, si tratta di un mix di slogan politici (unione politica o governo economico rimangono parole vuote se non si dice allo stesso tempo quali sono i poteri reali che vi si vogliono attribuire e quali modifiche dei trattati essi devono comportare), di proposte già esistenti (piano per l’occupazione giovanile e comunità dell’energia) o difficilmente applicabili in due anni (sulla capacità propria di bilancio non c’è consenso tra i partners UE, almeno sul medio termine). L’offensiva ha però il vantaggio di tentare di dettare l’agenda politica dopo le elezioni tedesche, sempre che vadano nel modo auspicato. Hollande cerca soprattutto di consolidare un’alleanza strategica con i paesi colpiti dall’austerità, per ottenere - soprattutto dopo le elezioni tedesche - un maggior impegno dell’Europa su crescita, investimenti sociali ed industriali, allentamento delle politiche fiscali e di consolidamento dei bilanci. Non a caso gli ha risposto subito, due giorni dopo, il Presidente della Bundesbank tedesca, Jens Weidemann, che ha chiesto in modo stizzito alla Francia di occuparsi più del rispetto del suo piano nazionale di rientro del deficit invece di scaricare sull’Europa il peso di nuovi progetti politici d’integrazione a suo dire “irrealistici”. Quello stesso Weidemann che sta sfidando il Presidente BCE, Mario Draghi, presso la Corte Costituzionale tedesca, dove ha fatto aprire una procedura che solleva dubbi di costituzionalità su alcune recenti decisioni della BCE, quelle relative all’acquisto (a certe condizioni e potenzialmente senza limiti) di titoli di stato di paesi in difficoltà qualora formalmente richiesto. Un attacco politico senza precedenti contro la BCE, che prende di mira indirettamente anche il governo Merkel, considerato pure lui troppo accomodante con Draghi, e che dà il senso del duro scontro in atto in Europa sui destini futuri delle politiche di austerità.
In Europa, insomma, tutti stanno affilando le armi in vista delle elezioni tedesche. Non rimane che governare a tentoni almeno fino al 22 settembre, poi si vedrà quali sono i nuovi margini reali di manovra, se mai ce ne saranno. Sempre che un’altra crisi dell’euro - la Slovenia è dietro l’angolo - non faccia nuovamente saltare tutto il banco, ipotesi che non può essere scartata a priori.
 

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