La svalutazione del lavoro

27 Novembre 2013
3 Commenti


Gianfranco Sabattini

Finalmente l’Italia s’accorge che la partecipazione del lavoro alla ripartizione del prodotto sociale tende sempre più a ridursi; mai come in questo periodo, il concetto di reddito minimo garantito, o più in generale di reddito di cittadinanza, è stato al centro dell’attenzione della pubblica opinione e del dibattito politico. Non sempre però i termini del dibattito sono all’altezza dell’importanza dell’argomento; ad offrire una prova di ciò sono le dichiarazioni, apparse su “la Repubblica del 9 novembre, del viceministro Stefano Fascina sulla proposta del Movimento 5 Stelle di introdurre in Italia il reddito minimo garantito. Sono dichiarazioni quelle del viceministro inopportune, considerato che in Italia del reddito minimo garantito e del “reddito di cittadinanza“, se ne discute da tempo, anche se “a porte chiuse” da parte di quelle istituzioni, i sindacati, che da tempo avrebbero dovuto porre il problema della sua istituzione al centro della loro riflessione e della loro azione; non solo per tutelare il livello della rimunerazione della forza lavoro, ma anche per fare fronte in anticipo alle conseguenze di un’evoluzione della realtà economica della quale, già a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, era possibile comprenderne le tendenze e gli effetti che avrebbero prodotto sul mercato del lavoro e sull’organizzazione dell’attività produttiva.
Ora è uno studio dell’”Organizzazione Internazionale del Lavoro” (ILO) a riproporre la necessità che si discuta del reddito di cittadinanza, in conseguenza del fatto che la quota del prodotto sociale imputabile a titolo di rimunerazione alla forza lavoro si sta contraendo, dopo che già l’OCSE ha rilevato che, negli ultimi vent’anni, la quota imputabile al lavoro ha subito una crescente contrazione a vantaggio dei profitti e delle rendite. A livello mondiale, il “monte salari” è stato sino a non molto tempo addietro pari a circa il 66% del prodotto complessivo. Dopo la Grande Recessione, l’incidenza ha teso a stabilizzarsi intorno a quel livello; attualmente, il monte salari è passato dal 66% al 61-62% e l’ILO ha mostrato che il fenomeno è generale, nel senso che interessa tutte le economie del mondo, indipendentemente dal fatto che queste siano, sia pure in misura diversa, colpite o meno da una crisi. Il manifestarsi sempre più intensamente del fenomeno impone, perciò, di testare la correlazione che è possibile ipotizzare esista tra la contrazione del monte salari e la crescita economica nei diversi paesi del mondo, tenendo presente che, se è vero che la crescita economica è stata molto contenuta nei decenni in cui nella maggior parte delle economie del mondo industrializzato si è verificata la contrazione del monte salari, è altrettanto vero che la Cina e l’India hanno fatto eccezione, nel senso che le loro economie, pur avendo sperimentato una contrazione percentuale del monte salari, la loro crescita è stata molto sostenuta. Perciò, capire se esiste o meno una correlazione positiva o negativa tra l’evoluzione della distribuzione del prodotto sociale tra i vari fattori produttivi e la crescita economica diventa essenziale ai fini della predisposizione degli strumenti di politica economica adeguati a prevenirne gli eventuali esiti negativi.
Il dubbio che aleggia sulla correlazione è che sia la crisi economica, o il rallentamento della crescita prima dello “scoppio” della crisi del 2007-2008, a trascinare verso il basso la quota di prodotto sociale imputabile a titolo di rimunerazione alla forza lavoro, sebbene, come si è detto, ciò non sia vero in generale. Un altro dubbio è se le economie nazionali che hanno “liberalizzato di più” i loro sistemi produttivi rispetto ad altre hanno registrato delle diminuzioni del monte salari; al riguardo, le rilevazioni sul campo hanno messo in evidenza che i paesi che più hanno liberalizzato (Stati Uniti e Regno Unito) hanno registrato contrazioni del monte salari minori di molti altri paesi, tra questi l’Italia, nei quali la propensione a liberalizzare non si è manifestata con la stessa intensità. Il problema del come interpretare la correlazione tra l’evoluzione della distribuzione del prodotto sociale e la crescita economica abbisogna, perciò, di altri approfondimenti, utili se non altro a stabilire le modalità con cui introdurre in Italia, così come è avvenuto nella maggior parte dei paesi europei, il reddito di cittadinanza.
Sennonché accade che in Italia la soluzione del problema è oggetto di uno “scontro” tra alcune parti politiche, nel più assoluto silenzio delle organizzazioni che dovrebbero essere quelle più direttamente interessate all’esito dello scontro. Accade, infatti, che la proposta del Movimento 5 stelle di istituire il Reddito di cittadinanza per 9 milioni di persone, per una spesa complessiva di 19 miliardi, venga contestata dal viceministro democratico all’economia Fassina, che altro argomento non ha da opporre alla “proposta grillina” se non quella di accusare Grillo d’essere il propositore di “balle” sempre “più grosse” e che i conti sui quali sono fondate le sue proposte sono “strampalati”. Tutto ci si può attendere da un responsabile governativo, ma non risposte così banali, che mancano tra l’altro di considerare che il reddito di cittadinanza è stato adottato, sia pure con modalità diverse, da molti paesi dell’Unione Europea e che il disaccordo rispetto all’iniziativa di un gruppo politico di opposizione su un problema così importante come quello dell’istituzione di un reddito minimo garantito può essere motivato solo sulla base della necessità di ulteriori studi e ricerche, soprattutto se si tratta di un’iniziativa riguardante l’istituzionalizzazione di una forma rimunerativa del lavoro indipendente dal suo status occupazionale.
Il viceministro dell’economia, da politico, ha motivato la sua opposizione alla proposta del “M5S” affermando, sconclusionatamente, “d’essere per il lavoro di cittadinanza (?), non per l’assistenza”. La proposta del “M5S”, “oltre ad essere irrealistica, rinuncia a dare alla persona la dignità che solo il lavoro consente di aggiungere”. Si possono perdonare le parole in libertà del viceministro, non gli si può però perdonare che, da responsabile economico del governo italiano e del suo partito, ignori completamente la letteratura prodotta da chi da anni ha elaborato il concetto di reddito di cittadinanza e motivato “ad abundantiam” le sue finalità; queste non sono mai state identificate con una qualsiasi forma di protezione sociale, ma come una forma alternativa di rimunerazione del lavoro, utile a garantire al lavoro in sé e per sé considerato quella dignità che il lavoro subordinato non è più in grado di garantire.

3 commenti

  • 1 rosa
    27 Novembre 2013 - 19:26

    Professore, ho letto con molto interesse il suo post, come del resto faccio ogni volta che scrive su questo interessantissimo blog che seguo da diverso tempo.
    Sulla questione “reddito minimo garantito” vorrei, gentilmente, domandarLe:
    Il reddito minimo garantito (ovvero la determinazione “minima” autoritativa di un trattamento diffuso di disoccupazione ) si sostituirà ai meccanismi di tutela pubblica, diretta o indiretta, del lavoro e quindi di spesa pubblica“obbligatoria”, cioè irrinunciabile alla luce dei principi fondamentali (art.1, 2, 3, in particolare secondo comma e 4 Cost.)?
    Esso sarà una graziosa concessione che potrà sempre essere ridotto a piacimento, perchè il livello della prestazione pubblica o della retribuzione “legale”, dovranno sempre essere variati per esigenze (per esempio di pareggio di bilancio) estranee al criterio della sufficienza per poter condurre un’esistenza libera e dignitosa, come impone l’art.36 Cost. ?
    Il salario di cittadinanza presuppone che tutto questo (sistema di welfare costituzionale) non ci sia (più) ?

  • 2 Gianfranco Sabattini
    28 Novembre 2013 - 10:34

    Cara amica, lei pone una domanda alla quale in Italia non è mai stata data una risposta corretta. Nei prossimi giorni, spero che il direttore di questo Blog pubblichi alcuni articoli che da tempo ho scritto sull’argomento; avrò così modo di precisare meglio la distinzione che esiste e che occorre tener presente allorché si discorre di “reddito minimo garantito” e di “reddito di cittadinanza”.
    La prima forma di reddito, che in Italia non è mai stata introdotta, pur essendo da tempo motivo di confronto-scontro politico, non è che una della tante forme in cui si articola l’assistenza e, indipendentemente dalla dimensione della “platea” dei beneficiari, consiste in un’”aiuto” erogato a favore di “coloro che stanno peggio”. La sua erogazione comporta che la copertura finanziaria sia garantita dalla fiscalità generale, considerato che, a differenza della previdenza, non è controbilanciata da contribuzioni obbligatorie, come avviene, ad esempio, per le pensioni. Inoltre, il reddito minimo garantito, in quanto misura assistenziale, è coerentemente inserito all’interno del welfare State esistente, nel senso che le erogazioni previste da quest’ultimo non sono nimamente “intaccate”. Infine, il reddito minimo garantito, proprio perché riconducibile al Welfare esistente, è, come si dice, condizionato: al sottoporsi da parte del benficiario allo stigma della “prova dei mezzi”, a manifestare la sua disponibilità a “fare qualcosa di utile per gli altri”, ad accettare o a cercare una qualche forma di occupazione, ecc. Tutte condizioni, queste, che possono, se non soddisfatte, fare decadere il diritto del beneficiario a riscuotere il reddito minimo garantito.
    Completamente diverso è il reddito di cittadinanza; di questa forma di reddito, da tempo oggetto di approfondimento da parte di un’accreditata linea di ricerca economica, ma non presso i politici ed i sindacati di casa nostra, forse ne sentiremo parlare più frequentemente nei giorni a venire, in considerazione del affto che il nuovo governo di colazione tra la CDU e la SPD prevede, per iniziative dei socialdemocratici, la sua istituzionalizzazione in Germania.
    Il reddito di cittadinanza, a differenza del reddito minimo garantito, è corrisposto incondizionatamente a tutti i cittatdini o a tutti i residenti (dalla culla alla bara), indipendentemente dal fatto che essi lavorino o meno; per questo motivo, esso non può essere inserito nella struttura dell’attuale welfare e la sua istituzionalizzazione comporta conseguentemente una riforma “ab imis” del welfare stesso e dunque un riordino complessivo di tutta la previdenza e di tutta l’assistenza. Infine, a differenza del reddito minimo garantito, il reddito di cittadinanza, in quanto incondizionato, non deve scontare, oltre ai vincoli previsti per il reddito minimo garantito, anche quello, importante, che la sua erogazione risulti compatibile con le esigenze di equilibrio macroeconomico del sistema sociale. Per tutte queste ragioni, a parte i discorsi costituzionali e quelli sui diritti acquisiti, l’introduzione del reddito di cittadinanza presuppone una rifondazione del sistema di sicurezza sociale, tale da coinvolgere tutte le forme di assistenza e di previdenza ora esistenti.
    Potrei continuare ad illustrarle tutte le altre implicazioni economiche ed etiche che l’idea del reddito di cittadinanza possiede in sé: implicazioni che giustificano perché in Italia la nuova forma di reddito sia vista con tanti sospetti.
    Sperando di aver dato una prima e sommaria risposta alla domanda che lei mi ha posto; possiamo risentirci quando Andrea accoglierà gli articoli che, come ho detto, ho già preparato, anche in risposta alla molta confusione, non disinteressata, che di solito si fa nel nostro Paese allorché si discorre dell”argomento. La ringrazio dell’attenzione e la saluto. G.Sabattini

  • 3 rosa
    28 Novembre 2013 - 18:37

    Gent.mo Professore,
    La ringrazio per la risposta che ho letto con interesse concordando sul fatto che l’argomento in discussione deve essere maggiormente approfondito e dibattuto.
    Essere nata e cresciuta nella certezza (illusione?) che il nostro Stato ha l’obbligo di tenere fede alle sue previsioni costituzionali mi fa guardare con sospetto ( forse solo a causa della mia ignoranza sull’argomento…) a questo nuovo “Welfare” o a questa nuova società sottesa allo stesso. Del resto l’Onorevole Fassina, da Lei citato, ha più volte affermato che oggi:“non potendo svalutare la moneta si svaluta il lavoro” …
    Io giudico negativamente il fatto che il lavoro debba essere degradato da fondamento della cittadinanza costituzionale a mera merce soggetta alla legge della domanda ed offerta, Lei cosa ne pensa?
    In attesa di risentirci La ringrazio per la disponibilità e La saluto.

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