Sa scomuniga de predi Antiogu, opera della goliardia?

23 Gennaio 2014
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Andrea Pubusa

Perfino Gramsci ha elogiato lo “umorismo fresco e paesano” de sa scomuniga de Predi Antiogu, arrettori de Massuddas, come abbe a scrivere alla madre, sollecitando l’invio del poemetto in carcere, con una lettera del 27 giugno 1927. E Wagner, il padre della Linguistica sarda, l’ha perfino tradotta in tedesco e pubblicata in Germania nel 1942, nella varietà campidanese del sardo e nel contempo in grafia fonetica, favorendone la diffusione presso gli studiosi nelle università del mondo. Wagner giudicò Sa scomùniga - un capolavoro assai ricco di “vis comica irresistibile“, “un monumento psicologico, oltre che linguistico“.
Sopratutto questi autorevoli giudizi hanno indotto a grande rispetto per l’operetta, stampata per la prima volta dalla tipografia del Corriere di Sardegna in Cagliari nel 1879 su foglio volante destinato al mercato popolare. E proprio per il carattere comico e popolaresco Sa scomùniga conobbe numerose edizioni, curate per lo più da tipografie artigiane di Cagliari, di Oristano e di Lanusei fino al 1925, quando il fascismo - serioso e autoritario - ne vietò ulteriori ristampe.
Lo scritto era però già molto noto e diffuso al momento delle due prime pubblicazioni su stampa come si evince dallo stesso titolo “Famosissima maledizioni de s’arrettori de Masuddas“. Evidentemente, la data della sua composizione precedeva di qualche decennio il 1879, tant’è che si fa risalire agli anni intorno al 1850, quando ancora certi ministrus de sa Cresia non risparmiavano la scomunica nei confronti di chi non pagava o pagava solo malvolentieri le decime, is dègumas, o lanciavano la maledizione perfino agli storni che impersonavano i ladri di ciliege, de cerèxia, negli orti delle curie parrocchiali paesane. Del resto nel catechismo in sardo, fino ai primi del Novecento, uno dei precetti cardinali non era quello “de pagai sa santa deguma a sa Cresia“? Era frequente anche il possesso del gregge da parte dei parroci. Mio padre, classe 1901, parlava spesso di predi Murru, parroco di Nuxis dal 1908 al 1929, che, sempre in quel torno di tempo, prima di dir messa. mungeva le sue pecore e la domenica organizzava i balli in casa sua. E sempre a Nuxis, fino agli anni  ‘60 del Novecento ricco di ciliegi, si ripeteva ai bimbi, anche a me a fine anni ‘40, il ritornello: “Deu seu Predi Murru, amigu de sa crèsia e pregu su sturru chi non si papit sa cerexia“. Così il parroco scrisse allo storno affinché risparimiasse le sue ciliegie. E l’uccello, beffardo, di rimando, aici arrispundiat a su predi: “Deu seu su sturru, nemigu de sa crèsia, mi nd’impipu de predi Murru e mi papu sa cerexia“.
Sa scomùniga de Predi Antiogu è stata pubblicata anche in tempi recenti nel 1983 e nel 2002 a cura di Antonello Satta e, nel 2004 a cura di Ottavio Congiu, (Printcolor, Monserrato, 2004) che de Sa scomùniga, è stato anche apprezzato interprete. Una ristampa recente, ridotta all’essenziale, con una breve prefazione e il glossario, è stata curata da Matteo Porru col proposito dichiarato  “di ricordare ai sardi un capolavoro dialettale assai caro al popolo”.
Nonostante questo successo, fin dal suo apparire a metà Ottocento, lo scritto è rimasto rigorosamento anonimo, senza padre o padri. Anche se si è sempre pensato ad una persona colta, ben a conoscenza dei fatti e della psiche del popolo sardo. Gian Giacomo Ortu, in occasione di un convegno sull’Unità d’Italia a Masullas, nel maggio del 2011, ha ipotizzato, con molta prudenza, che l’autore possa essere Felice Pinna, da Masullas, dottore in leggi, questore di Torino, di Bologna, di Napoli e Palermo, un illustre personaggio del paese, divenuto grande servitore dello Stato. Ma ce lo vedete voi quel rigido funzionario tutto tessera e distintivo, tutto caserma e dovere, tutto Stato e servizio, quel supersbirro, come lo ha definito Nicola Zucca nell’Almanacco di Cagliari del 2012, scrivere un’operetta così irriverente? No, non è farina di burocrati per quanto colti. Sembra evanescenente, come prova della paternità del poemetto, la coincidenza della data di pubblicazione con quella di permanenza, dopo il pensionamento, di Felice Pinna a Masullas. Semmai andrebbero sondati i trascorsi giovanili di Pinna. Il periodo dei suoi studi universitari, per verificare l’attendibilità di questa attrribuzione poco documentata. Spesso funzionari o seriosi professionisti sono stati studenti goduriosi e irriverenti buontemponi al tempo dell’università. E non è neppure un prete vero, “conoscitore profondo dell’anima del popolo a lui affidato”, né “un avvocato pur solitamente addentro nella vita della comunità” come ipotizza Matteo Porru. Se di prete si tratta, è certamente un prete finto, travestito, e se poi l’autore è un avvocato, lo scritto risale ai suoi anni verdi quando ancora non indossava la toga, non redigeva atti di citazione e non aveva ancora la laurea in utroque jure.
Assistendo alla recita di Elio Turno Arthemalle e di Rossella Faa il 26 ottobre scorso, io un’idea me la sono fatta. E l’ho pensata proprio lì, in diretta mentre Elio e Rossella, rievocavano l’origine e declamavano il testo de sa scomuniga. Mi son divertito, ma - lo dico con modestia e con immutata ammirazione per i due artisti - la “sceneggatura” mi è parsa togliere ritmo al testo. Si è ipotizzato che s’arrettori facesse le prove prima della predica con la sua popolana e acuta perpetua. E così sa predica ha perso immediatezza ed impeto, troppo spezzetata, troppo ragionata. Mentre il testo mi pare uscito o, almeno, da far uscire di getto, tutto insieme. E tuttavia la declamazione di Elio, anzitutto nel travestimento da prete e poi negli incisi in latino maccheronico, mi ha ricordato i riti e le prediche del “pontefice massimo” della gogliardia cagliaritana, che ho conosciuto al suo epilogo, alla metà degli anni sessanta. Un sermone di uno della corte del Pontifex, un suo sottordinato, un’arrettori appunto, vittima di un colpo basso, ad opera di irriverenti buontemponi, che per darsi alle gozzoviglie e ai divertimenti avevano ideato la più trasgressiva delle “brullas” (burle): far banchetto con le bestie, is pegus, crabas e brebeis, de su vicariu.
Della composizione goliardica, in sa scomuniga, ci sono tutti gli  ingredienti. Un fatto comico: il furto delle bestie nientemeno che al parrocco, a cui semmai si deve donare, e non a fin di bene, ma per banchettare. Non dimentichiamoci che una delle opere più note della goliardia italiana “Ifigonia in Culide” è un poemetto il cui tema centrale è costituito dalle incontenibili prurigini erotiche della principessa, stanca di essere forzatamente vergine. Di qui la richiesta al Re, suo padre, di trovarle al più presto un marito, aitante e (soprattutto) ben dotato, con cui trovare sollievo attraverso la congiunzione carnale. Anche lì, come in Sa scomuniga,  c’è una parodia burlesca del genere serio che, come vuole lo spirito goliardico, fa ampio utilizzo di termini scurrili e allusioni sessuali. E’ continuo e insistito da parte di predi Antiogu il riferimento alle scostumate donne del paese “ca funt eguas pibirudas sen’ e’ nisciunu arreparu”. Ma è peccamjnosa tutta Masuddas, anche i maschi. Di qui la maledizione: “donnia orta chi andais  a ciccai femina allena po fai su mabu crabinu, cussa cosa chi pottais no’ indedd’ ‘oggheis prusu e che is canis accrobaus attureis totu ‘e i’ dusu” (545-550). E quali a Cagliari i costumi delle donne di Massullas, “is eguas colludas“? “Tengu finzas bregungia de du nai in s’Artari: sindi andais a Casteddu, int’anca feis me inni? Na’ c’andais a srebì; unu tiau, a bagassai! E finzas po tres arriabis ‘osi feis iscrappuddai, de pustis chi su sodrau, su sennori cavalleri ‘os anti appiccigau su mabi foristeri” (600-615). E quando tornano dalla città nel paese “totu su logu e’ pringiu  e accanta de iscioppai. Candu custi s’e’ biu: is bagadias angiadas! Eguas de su dimoniu, anch’e’ su matrimoniu e is cartas de isposai?” (616-625)
E poi la tirata anticlericale. Mirabile l’incipit della scomunica in nome “de sa Curia de Arromas, de tottu sa cambarada de is papas e Cadrinalis cun totu’ is zerimonieris; ddu nau e d’arripitu: chi siant iscomunigaus e anatemizzauus tottu’ is chi funti brintaus in s’ecca de su Vicariu…” (345-353). E poi l’uso insistente e ripetuto del latinorum macheronico per dar peso e credibilità alla sua maledizione. E infine la conferma, che non è uno scherzo:  “creestis ca brullammu?“. “Oh ita moibentis chi seis! Eppuru ddu scieis chi su caratteri miu teni’ s’autoridadi de torrai su mottu a biu“. E la conclusione: “It’e’ custu? Malignus e disconnottus, chi ‘olleis degumai po finzas  is sazerdottus?!” (669-678). Insomma, figli di troia!, volete capovolgere le regole e, anziché darla, far pagare la decima al clero!
Non deve stupire l’ironia sulle decime. I goliardi erano anarchicheggianti, oppositori delle convenzioni sociali tradizionali, dei poteri  e degli ordini costituiti, come l’ordine ecclesiastico o il nobile ma anche di quelli chiusi nella loro grettezza sociale e intellettuale come il prete o il proprietario di campagna. Di qui il richiamo ironico alle professioni più rispettate: ”su missennori Notariu” che redige il verbale “su sommariu” de “is pegus“, dei capi rubati; “su majori cun totus ‘ is barracellus“, che ha fatto la relazione, il rapporto “chi ad arrellatau” sul furto; e non poteva mancare “su giugi dellegau“, il giudice delegato, che ha accertato l’entità del furto, sancendo “s’arrasuttau“, il risultato (32-40)).
Nella loro feroce critica antipapale e antiromana, i goliardi vengono spesso associati ai partiti o movimenti anticlericali. C’è di vero che nel papa essi vedono non solo l’ipocrita tutore della tradizione morale ma l’esponente di una gerarchia organizzata sul potere e sulla ricchezza. Una casta che predica bene e razzola male, anzitutto in campo sessuale. Non a caso Predi Antiogu durante la predica ben due volte sente il bisogno di allontanare da sé il sospetto dei parrocchiani di farsela con la commare: “E a mimmi no m’ei’ bogau, aici sindi ‘oghint is ogus e i s’aba de su figau, chi a mesudì toccau i mi seu abarrau aundi e’ ‘ommai Prudenzia a fai meigamma, candu chi sa scuredda no potta’ mancu dentis e sena de contai is atrus incumbenientis” (217-223). A lei fa donno (”ndi fadia arregalu“) è vero di un capro “d’onni annu, po Pasca“, ma “sena nienti de mali” (60-65).
Anche la pubblicazione in forma anonima è un classico dei poemetti goliardici. Escono scritti a mano o, in proseguo di tempo, sotto forma di dattiloscritto senza data e senza firma, e per questo motivo quasi tutti sono oggetto di congetture di ogni tipo sul loro autore, sulla città di provenienza e sulla datazione. Questi poemetti (divenuti simbolo dell’irriverenza e del libero pensiero) avevano amplissima diffusione fra gli studenti, passando di mano in mano su edizioni clandestine, riprodotte in proprio a mano o, in epoca più recente, con la macchina da scrivere, delle quali venivano fatte altre copie ugualmente clandestine con la carta carbone, o riprodotte col ciclostile. A causa di questa modalità di diffusione dell’opera, le versioni in circolazione venivano in qualche parte manomesse dai copisti con aggiunte di rime, strofe e personaggi apocrifi.  Spesso dunque l’anonimato era il frutto del carattere collettaneo della composizione alla nascita o, via via, nel corso degli anni. Questo spiega anche perché frrequentemente di questi poemetti, pur nel momento del successo, nessuno ha rivendicato la paternità.
Queste notazioni nulla tolgono al valore de Sa scomuniga. Sono numerose le testimonianze riguardanti la frequentazione della goliardia e dei loro caffè da parte di studenti poi divenuti famosi. A Pisa, per esempio, l’aretino Antonio Guadagnoli, improvvisando quartine scherzose, fece una penosa impressione al Leopardi, che vi accenna nello Zibaldone; il monsummanese Giuseppe Giusti, eterno fuoricorso, venuto, come scrisse lui stesso, “a studiar Legge di contraggenio“; il maremmano, ma pisano d’elezione, Renato Fucini, che nel caffè dell’Ussero scoprì la propria vena poetica; per giungere al primo italiano vincitore di un Premio Nobel, il versiliese Giosuè Carducci, il quale, dopo aver superato brillantemente un esame, corse all’Ussero a improvvisare - come lui stesso scrive nelle memorie - un poema eroicomico: “Eroe dell’epopea, ch’io un po’ cantavo, un po’ declamavo, era un vaso etrusco personificato, il quale entrava nell’Ussero e spaccava le tazze, i gotti, e simili buggeratelle moderne“.
Sull’autore de sa scomuniga una cosa è certa. Conosceva bene il mondo dei pastori.  Perobabilmente era figlio di proprietari di bestiame, forse di allevatori di capre. Comunque, aveva familiarità con l’ovile. Non avrebbe potuto, se no, descrivere in sardo le bestie, la segnatura e ogni altra cosa, come ha fatto nella parte iniziale. Uno studente universitario della prima metà dell’Ottocento, dunque. Di Massuddas o dintorni. E siccome gli universitari in quel tempo si contavano sulle dita delle mani, chi avesse pazienza, non andrebbe lontano dal risolvere il mistero della paternità de Sa scomuniga, se individuasse coloro che da Masullas e dintorni vennero a studiare nell’Ateneo cagliaritano tra il 1840 e il 1850. Uno di loro, forse, da grande, divenuto avvocato o funzionario o medico, ma, al tempo dello scritto, un gioioso e irriverente compagnone, è molto verosimilmente l’autore (o il coautore) de sa scomuniga, per il sollazzo dei suoi amici e di noi tutti.

Ecco ora il testo integrale de Sa scomuniga
(a Cagliari, in un caffé letterario o in una aula universitaria della metà dell’800, davanti ad una folla di goliardi in festa, uno di loro, travestito da predi Antiogu, da un finto pulpito così declama…)

Populu de Masuddas,
chi a s’ora de acuiai
is cabonis e is puddas
basseis a scrucullai,

donaimí atentzioni
po totu su chi si nau,
si ap’ a teni arrexoni
de cicai is crabas mias,
ca funti giai dua’ bias

chi dd’apu fatu notoriu
e custu ad essi su tretzu
e utimu monitoriu.
Po chi nisciunu però
no potzad allegai

ni chi sì ni chi no,
avrincus de ignoràntzia
ddu torraus a manastai
sagundu sa costumàntzia
po odrini de Muntzannori.

Po cuddus chi no ddu scinti,
obrascendi a sa dí binti
de su mesi chi ddu’ e’ bassíu,
ind’una noti `e scuríu
faci a su spanigadroxu

a i’ duas oras po is tresi
fuanta prus de xincu o sesi,
chi, a pistoa e a scupeta,
passau’ funti in Gennereta,
s’eca ant assatillau

e is crabas ind’anti liau
de mimmi su Vicariu;
ch’e’ sagundu su sumàriu
chi ddu’ a’ fattu me in Cùria
su missennori Notariu,

ca totu andad a tanori
de su chi ad arrellatau
‘opai Ninni su majori
cun totu’ is barracellus
e sagundu s’arrasutau

de su giugi dellegau
de custa comunidadi,
chi in drotina e sabiori
u’ antru no ddu’ ind’adi.
Auncas artzeus sa ‘oxi:

is crabas fuanta doxi
senza chi sianta contadas
cuatru brabeis angiadas
i atras tres allatantis
chi xincu dis a innantis
po essi tropu pitias
i si ddui fuanta istruías.
Ddui fud u’ angioneddu
sentza de teni s’annu,
chi a pasci, su scureddu,
no podía’ mancu bassí,
ca ddi luxía’ su piu
de cantu fu’ grassu,
ni a de noti ni a de dí.
Ddui fu’ su crabu mannu,

ddui fu’ su mascu `e ghia
e u’ antru chi ndi tenía
chi donni’ annu, po Pasca,
sena nienti de malu,
a una gomai mia

ndi fadía s’arregalu.
E po tali sinnali
potànta is pegus mius
totus sa guturada.
Potàda su crabu sou

po chi essi fatu scidu
sonalla e pitaiou.
Su tontu! A no ai sonau
candu ndi dd’anti liau,
ca ndi fuía bassíu

cun sa daga e is trumbonis,
ca si ant’essi cagau
po finzas is cratzonis.
Basta’, sigaus a nai
ca no mi ‘ollu imbidrigai:

is brabeis fuanta nieddas
e potànta po sinnali
is origas ispitzadeddas;
fuanta is angioneddus
bellus i arrufadeddus

e po essi cannotus
fuanta sena coa
i a corrixeddus trotus.
I’ mascus fuanta totus
de una manta e unu colori:
ddu’ indi fudi unu brabudu
e u’ antru incorradori
e po tali sinnali,
poita sémpiri atumbàda,
unu corru dd’amancada.

Is crabas e i su crabu
fuanta a lana amasturada,
piu longu e piu crutzu,
e totu acaddaionada;
unu solu ddu’ indi fudi

chi camminàd a tzoppu
poita nci fudi arrutu
a intru de unu garropu.
Una ind’anti lassau
ca fu’ totu arrungiosa

screpada e tziddicosa.
E una strumbonada `e balla
ddi si ghetint a s’amuntu
ca po essi a su scuru
no potànta s’ogu puntu!

Ehi… chi mindi fuía acatau,
minci e chi si a’ parau
e potau a segu’ de carru,
ca sind’ía fat’ andai
sciutus, mannus e nieddus,

seria conca ni xrobeddus.
Basta’, torreus a passu,
ca no mi ‘ollu annischitzai.
A prus de su chi apu nau,
chi casi mi scarescía,

ddui fu’ su mascu sanau,
ca donni’ annu dd’ ‘ocía
po Santu Liberau,
e po tali sinnali fudi
a manta pinturina

e potàda u’ ogu sciopau
de una puntura `e ispina.
Ecu totu, in concrusioni,
su chi e’ mancau a mimi.
Basciu pena de scomunioni

e scomunioni magiori
a is chi anti furau a s’arretori.
Po odrini de Muntzannori
is chi nd’anti pigau abetu
e ddu tenint in serchetu

funti totus obrigaus
a ndi fai relazioni
in Cùria o in cunfessioni,
chini íad essi chi si bolla’
a ddu depi dannuntziai

est obrigau amarolla.
Populu disdiciau,
temerariu e prepotenti,
chi non lassas cosa in logu,
ascuta e poni menti

a su chi na’ Predi Antiogu,
asinuncas t’impromitu
chi t’apu a fai unu scritu
chi per’ is arranconis,
sartus e bidatzonis

de bestiamini e de lori
no ddu’ ad a abarrai cambu,
ni massaiu, ni pastori
(ohi, amomía, oddeu)
e chi totu sa ‘idda intera,

senz’ ‘e nisciuna spera,
ddu’ ad a cabai in prumu
e mannus e pitius
a sa ‘ia ‘e su fumu!
Populo archiladori,

abbandonau de giai
de sa manu ‘e su Criadori,
torrandi a penitèntzia!
Si miticoi no ti sboddias
de is afarius de cuscièntzia

s’incapa ti ddui tròddias.
Ischi… ischi…
Liori cun totu’ cantu is tiaus.
Ma poit’ e’ chi sind’arrieis?
Ma labai ca seis maus,

peu’ de osatrus no ddu’ ind’adi
e seis in comunidadi
una maniga de ladronis.
Ni brabeis e ni angionis
e ni bacas e ni bois

no dda pódinti campai
sia’ de ‘idda o síada stràngiu
ca ognuno boid intrai
me in su cuu de su cumpàngiu.
E ita tiau de manera,

e ita totu imprabastais?
I apustis s’annischitzais
ca sinci ‘etant a galera:
a sa fruca íad essi mellus
e dd’ía a nai prus beni fatu

ca seis tantis mraxanis
e furuncus che i su `attu,
imbidiosus de s’allenu
chi sindi satant is ogus,
praitzosus che i su cani

ca ‘olleis bivi de fura
e senza de traballai,
malandrinus seni’ ‘e contu
e i su chi pari’ prus tontu
indi ‘oddi’ sa musca in s’aria!

Minci anca seis bassíus
infangaus fintzas a bruncu
in donnia soti `e pecau:
minci e chini s’ad isbiddiau!
Chini, malintentzionau,

si uni’ cun tres o cuatru
bribantis che a iss’ ‘e totu
e cicant a s’unu i a s’atru
po ddu torrai a pedí,
chi no ddu podint ‘ocí.

Chini, malu-pentzadori,
boga’ famas a su ‘ixinu
narendu chi frai Crispinu
a is oras prus serchetas
atura’ fendu marietas

e i dd’íad agatau su crabu
gioghendu cun sa pobidda,
candu chi totu sa ‘idda
ddu depid arraspetai
ca arrancu de gunnedda

no ndi dd’ad andau mai.
Cropu de anca seis arrutus!
E a mimi no m’ei’ bogau,
aici sindi ‘oghint is ogus
e i s’aba de su figau,

chi a mesudí tocau
i mi seu abarrau
aundi e’ ‘omai Prudèntzia
a fai su meigama,
candu chi sa scuredda

no pota’ mancu dentis
e sena de contai
atrus incumbenientis?
Seis osatrus is bribantis,
bagadíus e bagadías,

chi a sa muda i a su scuru
inci ‘esseis a manu muru
candu no ddu e’ babai,
ca tengu fintza bregùngia
de ddu nai me in s’Artai.

Ohi… amomia scura!
A no iscí ca ddu e’ su ‘nferru,
a no teni paura
de cussa bestia `e Lutziferru!
E no ddu biei’ pintau

ca pota’ su frucaxu
e sa coa de atzraxu
cun farruncas de intruxu?
Cadebai a Coixedda,
cu’ is corrus trotoxaus

e is ungheddas de moenti
a gropas de su tzrapenti
ca pota’ seti concas
sena contai is iscropionis
pibaras e caborus

chi ddu’ ind’adi a ceddonis.
E tigris e lionis
e cantu no ddu’ ind’adi!
Cantu brabaridadi!
Mincidissu e ita giogu

ddui faid u’ tiaueddu:
a su sessu femininu
iddi ‘eta’ prumu scallau;
a su sessu masculinu
ddi brintad una barrina

chi ddi passa’ me in sa schina
e si ndi dd’ogad in cuu.
Ahi, ddu’ ind’a’ de tremi
e de fai oratzioni
mancai fessid unu bremi.

E non prangeis ancora,
ca seis totus crocobendi?
Satana, bessi a foras
de cussu fossu prefundu
e ingiriamidda a tundu

custa ‘idda ‘e framassonis
e bogandeddus a truba
de per’is arranconis,
ca ti ddu cumandu eu:
poninceddis unu tarrori

a custa genti schirrioba
chi is domus s’isbéntuinti
che i sa palla in s’axroba,
ca abisongiu e’ chi pótinti
su coru e su figau.

Ma ita mincialli chi seu:
a chini predicu eu?
A is truncus o a sa pedra?
Ma chi tzèrriu… (no, medra!).
E chi fu’ po un’arriabi

sa scomuniga papabi
ddisi ‘etu in su mamentu
e ind’apu a fai scramentu
ca ind’ant a tenni pena
cantu ddu’ ind’adi in su ‘nferru

in su cuu de sa cadena.
Prestu, ‘oppai Ninni Frori,
su sragastanu magiori,
biteimindi is candebeddas,
labai ca funti tresi

asuta `e su faristou,
una groga e duas nieddas,
cumantzaiddas a allui
e giai chi seis igui
arregollei s’ebriariu,

totu’ is arrasponsorius
e cun s’antifonariu,
sa capa de pontificabi
s’asprassoriu e su missabi
e istrepus cantu ddu’ adi,

ca deu gei tengu innoi
sa scritura de is Profetas,
is oratzionis serchetas
e is brebus de Salamoni,
is salmus sabatinus

cundun’atera oratzioni
cosa chi apu fatu eu:
Alfea, beta, agios, o Teu,
mega, solfa, eleison, imas,
vanitas, copua e gimas,

disperditio demoniorum
liburus de ‘omai Osanna,
chi ant a tremi che i sa canna
totu’ is contribulaus
virtus, psalmorum martirizaus,

e is iscritus de Predi Giacu.
Imoi os apu a fai biri
s’onnipotèntzia mia
cun totu sa teologia
chi potu ananti `e is ogus
chi anti a fueddai is tiaus
mancai fessint a arrogus
e cun s’ornamentariu,
istrumentu poderosu
de mimi su Vicàriu,

chi ad a fai amoddiai
po totu su sparimentu
su coru prus atzraxau
e ddu depid annichilai
mancai fessi’ de stocu

o chi potid in piturras
su piu che tzudda `e procu.
Adduncas incumantzeus:
siant iscomunigaus
e anatematizaus

ab homine et latae sententiae
interditae suspensionis
censura de ogn’incremenzia
de scomunioni magiori
chi ddi fessi’ fruminada

de sa Curia de Arromas,
de totu sa cambarada
de is Papas e Cadrinalis
cun totu’ is tzaramonieris;
ddu nau e d’arrapitu:

chi siant iscomunigaus
e anatematizaus
totu’ is chi funti brintaus
in s’eca de su Vicàriu,
chi no ddui sia’ divàriu

in peruna professioni,
siad in gradu e condizioni;
siant iscomunigaus
e anatematizaus
totu’ is capus de i’ ladronis…

crobetoris e ischidonis
(e po cussu in custa ‘idda
inci a’ tanti bribantis…)
a chini scidiad e scidi
su chi mind’anti liau

e no dd’ad arrellatau.
Siant iscomunigaus
e anatematizaus
is chi anti donau agiudu
o calincunu cuntzillu,

sia’ mannu o sia’ pitiu
sia’ babu o sia’ fillu,
e candu si nau a totus
s’ad a intendi de seguru
mascus e feminas puru.

E si de is pegus mius
algunu nd’ant ‘ociu,
ad essi iscomunigau
chini totu nd’a’ papau,
siad a prangiu siad a cena

e ad a patí sa pena,
comenti chi essi’ pisciau
in su Santa Santorum,
nihilis mutationis
percussione clericorum,

che chi mi essi scorriau
fatu a befa e acracaxau.
Siant iscomunigaus
e anatematizaus
a chini nd’ a’ fatu prexu,

siad acanta o siad atesu,
is chi sindi funti arrisius
e is chi sind’ant a arrí
e de manera chi
passi’ sa scomunioni

de is babais a is mamais,
de generatzioni in generatzioni,
e po chi totu’ cantus
aturinti beni ligaus
ddus intregu a Berzebù,

su cumandanti generali
de totu’ cantu’ is tiaus,
po chi ddus acudad issu,
missus et mincidissus,
dracones et omnes abissus

spiritus procellosus,
strepitus et stridores dentiun
blansphemantium et stridentium,
po chi siant abruschiaus
comenti abruschiant is procus,

supter, supra, inter et foris
in carbonibus desolatoris…
ca seu totu strologau
de candu mind’anti furau
is crabas e is brabeis.

Po chi no potzanta prusu
rapinai faci a susu
chi middus cabint a fundu
in tenebras interiores
po no biri pru’ su mundu.

Ddus truméntinti dònnia dí
a mangianu e a merí
cun centu e unu martòriu
po chi tzerrint agitòriu.
E in fini de totu custu,

po chi mroxanta de assustu,
ant’essi de totu is crèsias
de is biddas e de Casteddu
tocadas a son’ ‘e motu
is campanas a mateddu,

e de morus e de cristianus
de trucus e prubicanus,
e po essi de sinnali
inci ‘etu is candebeddas,
sa stoba e su missabi

e strepus cantu ddu’adi
po chi siant apatigaus,
e aici s’ant a apatigai,
fillus de perditzioni,
maledictus in igne eternum

cun malis et tentationis
et stercus demoniorum.
Tronus, lampus e stracía
e bentus de donnia genia
ddus potzant acumpangiai

et in testimonium veritatis
siant cum malandrinis
acqua, sulfur et ignis,
et geennam sempiterna,
chi no sciu ita tiau ad essi,

et cum omnibus perditis,
de su chi apu nau innantis
diabolibus et spiritis,
rumoribus et terremotus
tengant a bius i a motus

eorundem et ipsorum
per omnia secula seculorum.
E ita pentzastis ca brullamu
o mi pigastis po macu
candu si predicamu?

No e’ nudda ancora su sciacu:
gei mi dd’eis a nai
totu sa chiriella
candu feti si scongiuru
cun cust’atera bagatella

chi no dd’eis a agatai
nimancu me in su Credu.
Imoi gei nd’eis a intendi
fràsias e maladitzionis
de s’annu de Mrechisedecu,

de candu in su traberecu
su babu nostu Adamu
ía frastimau su fini
de Martini e de Gaini
cun totu s’arratza insoru.

Imoi ‘ollu bi’ su coru
de su prus prepotenti,
chin’ad essi aici balenti
de no si spiridai
de sa frotza de is frastimus

chi os apu a brabatai:
surgite ungues et angues
et latrones et furuncos
repetunde de abitaculis
et in sordibus sordescant

et nunquam compungimini
moriant impenitentes
et non amplius revertimini,
surgite de aquilonibus
et omnibus contremniscite,

chi a tzichirriu de is barras
potzais isciampitai
et oculis sprepeddatis
de crobus e istoris
sint in cornibus fruconatis

et Satanas a sinistris
quadrigentos comburescant
et mulieres necaturas
ca funt eguas pibirudas
sen’ `e nisciunu arreparu,

disperdantur, percutiantur
malus genus viperarum.
Scimbulatis et legatis
hominis et feminibus
comenti mallant i’ bois.

Truncus i àstuas
bóghinti e pampas de fogu biu,
Cum funibus accollaturas
in speluncam sempiternam
nunqua foras fugaturas.

Surgite, Baalam, de fornacibus,
totu cantu sa canaglia
crucifigite latrones
qui Vicarium furaverunt
et omnibus disperdimini

nisi totum reliquimini
unde, tunde, disurpare,
contristatus stimulantium
nec quemque salvos fieri
eorundem ac flagellis

animis et corporibus
frigoris et tempestate fame,
sitii et nuditate
et nunquam pace in eis,
po sémpiri acabeis.

Po totu su chi eis fatu
chi totu’ is canis de pratza
osi cruxanta avatu
e si sigant aundi seis.
Una passada `e tronus

os abruxi’ bius e bonus
e fatus a muzioni,
ancu sind’arrua’ s”omu
e sindi ‘oghinti a marroni,
chi si bianta caminendu

cun sa conca ‘e su ‘enugu
e in su caminu paris
os isdollocheis su tzugu,
fatzais arrastu ‘e crabu
i arrastu `e mraxani,

sindi tiri’ donnia cani
un’ancodeddu `e croxu
i a pedra su ‘ixinau
si tirid a motroxu,
e donnia ‘ota chi andais

a cicai femina allena
po fai su mabi crabinu
cussa cosa chi potais
no indedd’ ‘ogheis prusu
e che is canis acrobaus

atureis totu e i’ dusu.
Sempiri chi éis a bassi
po fai aciapa o a pastorai,
is budellus inní e totu
sindi potzant abasciai

e si pongiad unu ‘entu
chi osi pesid a boai
che i sa folla ‘e su sramentu.
Ancu fatzais unu satu
de sa punta prus in atu

chi sindi ‘oddant a cullera
e donni’ ota chi a su prossimu
éis a disigiai mabi
sa sangia, fillus mius,
sindi ‘oghint a cungiabi

e pudesciais a bius.
Su priogu e su fadigu
osi cruxad a muntoni
comenti su grugulloni
ddui currid a su trigu.

Sempiri siais iscontzolaus,
tristus, sena acunnotu,
unu fàmini osi ‘engiada
chi osaterus e totu
osi cumantzeis a mussius

e si enga’ gana `e atripai
a chini si ‘onad a papai.
E po podi deu cannosci
cust’arratza de furuncus
si ‘essa’ corru’ de mascu

e ungheddas de mobenti.
Satana, bruta bestia,
cun arrabiu e furori
si ‘onga’ sémpiri molestia.
S’enemigu `e su Signori

osi tenti’ de manera
chi mamas, babus e fillus
totus a cropus de obrada
osi segheis i’ cillus.
Aici ad essi su fini,

aici ad a morri chini,
o cuntzillau o imbiau,
is crabas ind’a’ liau
e is brabeis de Predi Antiogu,
chi paxi no ad a tenni

ni arraposu in logu.
Custu serba’ po is mascus.
It’ap’ a nai imoi
a is eguas colludas?
Minci e chi si a’ parau!
Gei nd’éis cundiu sa ‘idda
cun centumilla maneras
de lussuria e disonestadi!
Tengu fintzas bregungia
de ddu nai me in s’Artari:

sindi andais a Casteddu,
it’anca feis me inní?
Na’ c’andais a srebí;
unu tiau, a bagassai!
E fintzas po tres arriabis

osi feis iscrapuddai
de pustis chi su sodrau,
su sennori cavalleri
os’ant apicigau
su mabi furisteri.

E imoi a intru ‘e ‘idda,
ita manera e’ custa,
ita tiau de farringiu?
Totu su logu e’ pringiu
e acanta de isciopai.

Candu mai custu s’e’ biu:
is bagadias angiadas!
Eguas de su dimoniu,
anch’e’ su matrimoniu
e is cartas de isposai?

Minci e chini s’ad isbiddiau
e potau a segu’ de carru!
E bosu Santu Luxori,
chi seis su protetori
e su Santu miu diciosu,

chi seis tantu poderosu
in celu, in terra e mari,
fadeimiddu su favori:
chi totus de su puntori
mroxanta conca a pari.

Mirai chi siddu nau:
si e’ chi middu fei’ tenni,
po essi meraculosu
éis a cannosci a mimi.
Os apu a fai una festa

mancai de cad’ ‘e s’atza,
ddu ad a essi donnia arratza
de genti furistera,
ddu ad a benni po fintzas
mrachesus de Casteddu,

ddu ad a essi brufessioni
cun suitu e tamburinu,
guetus e fogadoni.
Mirai, si miticoi
no m’alcantzais sa gratzia,

no éus a andai ceta-ceta
cun esperus e cumpretas,
e pigu a Santu Cristou
e bosu me in su niciu
abarrais sou sou.

E un’atera cosa puru:
osi fatzu abarrai
seri’ ‘e lantia a su scuru.
E osaterus, becus futudus,
ancora seis tostaus?

Deu s’abetu, labai!
Ni cun Santus, ni cun tiaus
no nci brulleis meda,
asinuncas oi e totu
ind’éis a torrai sa sceda,

e s’apu a biri a baceddus,
fatus a cancarroni,
morendu me in sa ‘ia
seria de curifessioni.
O creestis ca brullamu?

Oh, ita mobentis chi seis!
Epuru gei ddu sciéis
chi su caratiri miu
teni’ s’autoridadi
de torrai su motu a biu.

Ellu e duncas? It’ e’ custu?
Malignus e discannotus,
chi ‘olleis degumai
po finzas is sazerdotus?!

2 commenti

  • 1 francesco cocco
    23 Gennaio 2014 - 13:33

    Bene, il prof. Pubusa si diverte! Lo fa seguendo la tradizione dei grandi giuristi: forse che Salvatore Satta non alternava lo studio delle pandette con la scrittura di opere letterarie di livello quali il “giorno del giudizio”? Ritengo molto utile porre in evidenza opere del livello de ” sa scomuniga” . Appartengono alla nostra miglior tradizione folclorica, ed il folclore è comunque una prima presa di coscienza di sè. Sbaglieremmo a pensare sia una forma di regressione, piuttosto il ritorno alle proprie radici per prender più forza , nei momenti difficili, e così affrontare con più lena il futuro. Il ” Ganosa” e “Ganollu, che Gramsci voleva mettere al centro di un poemetto su imitazione de “sa scomuniga” non sono forse un ritorno al mondo dell’ infanzia? Non certo come regressione ma come ricerca di forza vitale per superare i momenti difficili che era costretto a vivere? Forse, con un’operazione di stampo vichiano, dovremmo saper attingere alla nostra infanzia di popolo, facendo riferimento alla esperienza degli anziani, alle difficoltà enormi che nel secolo scorso hanno dovuto superare.
    Detto questo non so che dire sulla stimolante tesi del prof Pubusa in merito all’ autore del poemetto in argomento. Certo non è opera di persona priva di strumenti culturali, il latino maccheronico mi richiama quello dei “carmina burana” che in forme spezzettate circolavano nel mondo universitario, come residuo di un’ antica tradizione da cui non dovettero essere esenti le università sarde. Detto questo, sarebbe bello riuscire a ritrovare oggi la forza dissacrante e polemica de “sa scomuniga”, forse potrebbe aiutarci a superare questi tempi così travagliati.

  • 2 michele podda
    23 Gennaio 2014 - 20:08

    Straordinario esempio di VERA lingua sarda, quella che ancora esiste diffusa nei paesi in ogni parte della Sardegna, e che certi intellettuali poco attenti trascurano ostinatamente, adottando per contro una lingua di plastica, fatta di strani neologismi e di italianismi terminanti in “u” o “s” e contenenti “tz”.
    Certo, questo è dialetto della lingua sarda, come altri numerosissimi dialetti presenti in ogni dove e di cui ogni abitante va orgoglioso, come lo è del costume tradizionale e di altri caratteri che lo distinguono anche dai paesi vicini.
    Ma tutti questi dialetti fanno per intero la LINGUA SARDA, ricca e varia ma sempre UNA, dal capo di Sotto a quello di Sopra. Per un gallurese, o logudorese, o baroniese non sarebbe difficile capire questo dialetto, a patto che abbia dimestichezza con la lingua sarda in genere, a cominciare da quella della sua zona. Per tutto l’ottocento sicuramente tutti si capivano in qualunque dialetto si parlasse, e per un barbaricino imitare il gallurese o il campidanese non era assolutamente impossibile, perché allora l’italiano della scuola e della televisione non aveva ancora fatto tabula rasa della lingua sarda.
    Lo dico perhè anche in questo brano ritrovo modi di dire, proverbi, espressioni e metafore che sono di uso corrente nella Barbagia, come in tute le zone sardofone, dove oggi si avrebbe l’impressione che questo sia un linguaggio del tutto diverso.
    Questo componimento sarà certo oggetto di studio quando la lingua sarda sarà d’obbligo in tutte le scuole della Sardegna, come lo saranno componimenti di Padre Luca Cubeddu, o di Efisio Pintor Sirigu, o di Diego Mele, tutti validi rappresentanti della VERA LINGUA SARDA.

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