Il Decreto Di Maio è debole, ma chi può fargli le pulci da sinistra?

24 Luglio 2018
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 Andrea Pubusa

Ma vi pare sano di mente il gruppo dirigente dem? Dice di voler riconquistare la sua gente e poi che fa? “Il Pd - riferiscono i media - ha presentato un emendamento per sopprimere l’articolo del decreto dignità che aumenta i risarcimenti per i lavoratori che vengono licenziati ingiustamente”. E se venisse accolto? Il lavoratore ingiustamente cacciato dal lavoro perderebbe il posto ed anche il risarcimento!   O avrebbe una somma minore. Cornuto e mazziato! Oltre al danno la beffa! Per capirci:  il decreto dignità porta le mensilità minime di risarcimento da 4 a 6 e quelle massime da 24 a 36. Al PD non va bene. E dà a Di Maio un assist per una battuta facile, facile: “Come si può essere contrari a una norma che dà un giusto indennizzo ai lavoratori che subiscono degli abusi?  Ed ancora: “il segretario del Pd potrebbe spiegare a tutti perché un partito di “sinistra” si schiera contro il riconoscimento di maggiori diritti a chi lavora?”.  E promette: “Da parte nostra continueremo a difendere ed estendere i diritti sociali dei lavoratori e delle lavoratrici, esattamente quello che il Pd non ha fatto in tutti questi anni. Andremo avanti col massimo delle energie, con un governo che finalmente pensa ai cittadini e non alle lobby”.
Speriamo che il M5S  mantenga le promesse, non faccia come ha fatto con la Commissione di Vigilanza sulla Rai che ha messo l’emittente pubblica sotto controllo di un uomo di Mediaset. Ma la vicenda del decreto dignità mostra come siamo caduti in basso in Italia, quanto a sinistra. Il PD può fare opposizione solo chiedendo mano libera per il padronato, perché questo è stato il tenore delle sue leggi in materia di lavoro e non solo. Diciamoci la verità: il decreto di Di Maio è un pannicello caldo rispetto alla prorompente tracimazione del precariato. Ho perso il numero dei possibili rinnovi, mentre nella legge del 1962, superato il termine contrattuale di un minuto, tac, il contratto si trasformava automaticamente in rapporto a tempo indeterminato. E non c’erano santi: bastava ricorrere al giudice e, provato il superamento del termine, la sentenza riconosceva la nuova natura del contratto di lavoro. E il padrone non poteva neanche fare il furbo, licenziandoti  nei termini e assumendo un altro al tuo posto. Anche in questo caso il giudice sventava l’imbroglio. Vabbè! altri tempi, si obietterà. A Di Maio va riconosciuto di aver temperato, ma non superato il precariato. Il fatto è che il PD (e altri nella sinistra di contorno) non possono chiedere di più perché sarebbe come fare opposizione a se stessi, posto che le leggi di favore al precariato le hanno fatte loro. Che bravi! Hanno soppresso il diritto del lavoro!
Lo stesso ragionamento vale per il licenziamento senza giusta causa, perché l’art. 18 lo ha soppresso Renzi. Eppure anche l’incremento del risarcimento disposto da Di Maio è positivo, ma insufficiente a rendere giustizia, e - aggiungo - è anche incostituzionale.
Sull’art. 18, data la sua rilevanza generale, voglio tornare per mettere in luce che l’eliminazione del reintegro ha violato e viola non solo la dignità dei lavoratori, ma anzitutto elementari principi di civiltà giuridica. E ancor prima violenta la logica e il senso di giustizia. Per capirci, stiamo parlando del licenziamento disciplinare, per giusta causa. Volete spiegarmi perché se risulta in giudizio che la mancanza contestata al dipendente non è stata commessa, il lavoratore - se lo chiede - non dev’essere reintegrato? Risponde a criteri logici una scelta contraria del legislatore? E risponde ad un senso elementare di giustizia?
Ma c’è di più e peggio. Esiste un principio generale del diritto, oltre che di civiltà, secondo cui se il giudice riconosce in capo ad un soggetto un diritto, questo dev’essere, se possibile, specificamente soddisfatto. Se Tizio deve restituire un quadro a Caio e il quadro non è andato distrutto, Caio ha diritto a riavere il suo quadro e non il valore equivalente in danaro (risarcimento). Insomma, l’effettività della tutela, che è principio costituzionale desumibile dall’art. 24 Cost., nel porre la garanzia giurisdizionale a tutela dei diritti e degli interessi legittimi, implica la reintegrazione in forma specifica e non per equivalente ogni qualvolta  questa sia possibile. La soppressione della reintegrazione nel posto di lavoro, quando il licenziamento risulti, davanti al Giudice (e non dinnanzi ad un soviet operaio), sfornito di una giusta causa, costituisce dunque una violazione del dettato costituzionale in un principio generale di grande rilevanza. Una legge che impedisca il reintegro infrange il principio di effettività della tutela  e si traduce in un’arrogante prevaricazione nei riguardi del cittadino-lavoratore. Viola l’art. 24 Cost.
Da questo punto di vista, il PD si assunse, a suo tempo, una grave responsabilità, poiché da qualunque angolo visuale la si voglia guardare, la soppressione della reintegrazione (in luogo della sua estensione) costituisce una grave passo indientro culturale e giuridico per il Paese. Se si tien conto che lo Statuto dei lavoratori fu votato anche dalla DC, ci si rende conto che il PD di Renzi è stato (ed è) un partito molto meno democratico e sociale dei vecchi democristiani, che, in fondo, nelle loro correnti più avanzate erano molto impregnati della cultura sociale cattolica. Ma lo stesso discorso può avanzarsi oggi per il M5S e il suo decreto Dignità. La dignità del lavoratore, incolpato ingiustamente e la cui correttezza sia stata accertata in giudizio, si tutela dandogli la facoltà di rientrare al lavoro su ordine del giudice, con il risarcimento del caso. Monetizzare un diritto in un rapporto squilibrato significa nella maggior parte dei casi favorire la parte più forte.
Un’opposizione seria dunque riconosce a Di Maio il merito di avere rimesso mano sul rapporto di lavoro non per ampliare, ma per limitare i poteri padronali, il che spiega anche la dura opposizione della Confindustria, che non tollera questa intrusione del legislatore e vuole avere mano assolutamente libera (in fabbrica e nei luoghi di lavoro c’è solo il potere dell’imprenditore!), ma il passo è troppo piccolo. Bisogna eliminare ogni abuso del potere nel rapporto di lavoro, che si ha quando si assegnano all’imprenditore poteri per stabilire o sanzionare fatti inesistenti, come, ad esempio, la temporaneità insussustente del posto e della prestazione di lavoro, o come l’inesistente giusta causa. Ma chi può in parlamento fare oggi questa sacrosanta battaglia, se tutti (salva qualche rarissima mosca bianca) hanno fatto strame dei diritti dei lavoratori?

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