La “questione morale” ha rilevanza politica e non solo economica

21 Maggio 2019
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Gianfranco Sabattini

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La questione morale squassa il Paese e coinvolge i partiti. Solo il M5S tiene la barra e regisce con prontezza ad ogni inquinamento in casa propria. De Vito è stato espulso da Di Maio non appena appresa la notizia del suo coinvolgimento in un affare corruttivo. La posizione è chiara: un cosa è l’aspetto penale, di competenza della magistratira, altra l’etica pubblica che è questione politica.
La Lega è sempre stata infiltrata dal malaffare e Salvini, così decisionista e spietato coi migranti, è indulgente e accogliente con gli indagati del suo partito. Siri e lo scandalo di Legnano sono i casi più recenti, ma non gli unici. Il PD fa anche peggio. Gli indagati se li tiene, anzi prima li fa dimettere poi … fa loro ritirare le dimissioni, come per la Marini in Umbria. Lì si giunge addirittura all’assurdo di una Presidente di Regione (la Marini appunto) che, prima si dimette e poi in Consiglio regionale…vota per respingere le proprie dimissioni! Poi…si dimette ancora!
Ecco perché la questione morale è forse il problema centrale del Paese, da cui in fondo tutti gli altri discendono. Sul tema pubblichiamo una riflessione di Gianfranco Sabbattini, sempre attento  ai nodi centrali della polis.

Di fronte al diffondersi, a tutte le latitudini del Paese, del coinvolgimento in casi di corruzione di pubblici funzionari ai danni del pubblico interesse, torna prepotentemente all’attualità la gravità del problema della “questione morale”; il tema è stato riproposto all’attenzione di tutti da un articolo di Andrea Pubusa, apparso su questo “Blog” nell’aprile scorso. L’importanza dell’argomento per la democrazia italiana non è sembrato importare più di tanto, se la “provocazione” di Pubusa” non ha avuto il riscontro che avrebbe meritato attraverso interventi dei lettori che sarebbero serviti ad approfondire la conoscenza della natura del fenomeno. Ritengo, perciò, possa essere di qualche utilità allargare le osservazione che già ho avuto modo di formulare in un commento all’originario articolo del Direttore del “Blog”.
La questione morale, della quale in Italia si discute da decenni, è considerata da molti (giuristi, storici, economisti ed altri) fatto dirimente per il funzionamento delle istituzioni democratiche nate sulla scorta della Costituzione repubblicana adottata dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Spesso, nei dibattiti sull’annosa “questione”, viene evocato quanto sull’argomento l’ex Segretario del partito Comunista Italiano, Enrico Belinguer, ha avuto modo di affermare nella storica intervista rilasciata, nel 1981, al  direttore de “la Repubblica”, Eugenio Scalfari.
Nel corso del tempo, però, il senso delle parole di Berlinguer è stato travisato, anche dallo stesso intervistatore nella conduzione della sua attività di fustigatore del costume politico Italiano; nel corso del tempo, infatti, la denuncia dell’ex Segretario è stata intesa come semplice attività illegale, compiuta da un pubblico ufficiale, per motivi estranei alla cura dell’interesse collettivo.
Nell’intervista, Berlinguer aveva affermato, giustamente, che la questione morale era da ricondursi al fatto che i partiti politici avessero occupato, nel corso dell’attuazione della Costituzione repubblicana, “lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo”, nonché “gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali”.
Pensare, perciò, che la questione morale, così com’era stata evocata da Belinguer, potesse essere connotata, come poi è accaduto, in termini di un’attività corruttiva ai danni dell’interesse pubblico, ha avuto solo l’effetto di ricondurla all’attività di “mariuoli” che potevano “annidarsi” all’interno dei partiti o nei gangli della pubblica amministrazione; intendendo che in quest’ultima i “mariuoli” operassero nell’esclusivo interesse dei partiti, in quanto da questi direttamente espressi. Considerata in questa prospettiva, è diventato facile accreditare il convincimento che la questione morale sia nient’altro che un fenomeno illegale avente un prevalente impatto negativo sul piano strettamente economico. Non è però così! La “questione” ha invece un prevalente impatto negativo sul piano politico, prima che su quello economico.
Carlo Cottarelli, economista noto al pubblico italiano per aver svolto dal 2013 al 2014 l’incarico di “Commissario per la revisione delle spesa pubblica”, nel libro “I sette peccati capitali dell’economia italiana”, considera la corruzione e l’evasione fiscale come atti illegali aventi rilevanza collettiva, commessi ai danni del pubblico interesse, più diffusi in Italia che all’estero, assumendo dimensioni “che danneggiano seriamente l’economia”.
Tuttavia, al centro del dibattito sulla questione morale, più che l’evasione fiscale massiva e pervasiva dell’intero sistema sociale italiano, è la corruzione ai danni dell’interesse dell’intera collettività il fenomeno  che viene messo al centro del dibattito pubblico; in questo contesto, la corruzione è intesa come relazione legalmente inappropriata che si instaura tra un “pubblico ufficiale” (rappresentante del popolo o burocrate operante all’interno dell’organizzazione della pubblica amministrazione centrale o locale) ed altro soggetto, disponibile a ricompensare la controparte “in denaro o altro modo, in cambio di qualcosa che il pubblico ufficiale dovrebbe o non dovrebbe fare”.
Si tratta certamente di comportamenti illegali che hanno (o possono avere) un impatto negativo sulla gestione della “cosa pubblica” e dell’economia in generale e che di solito hanno a che fare con acquisti di beni e servizi della pubblica amministrazione: la costruzione di un’infrastruttura pubblica, una sentenza resa da un giudice di comodo, la scelta di un membro del consiglio di amministrazione di una società a partecipazione pubblica, o decisioni di altro genere. Nel loro complesso, gli atti illegali commessi in tutti questi casi hanno concorso – come già si è detto - a radicare l’idea che la corruzione abbia un prevalente impatto negativo sull’andamento del sistema economico nazionale, per la sua entità e frequenza, ma anche per la sua maggiore diffusione in Italia che in altri Paesi, quali ad esempio quelli dell’Europa comunitaria.
A parere di molti critici dell’illegalità commessa nello svolgimento della vita pubblica italiana, le cause della maggior diffusione della corruzione sono diverse: innanzitutto, una causa è rinvenuta nella maggior complessità della burocrazia italiana rispetto a quella estera (quanto più grande è l’apparato burocratico, quanto più numerose sono le decisioni che la pubblica amministrazione deve prendere, tanto maggiore è la probabilità che si verifichi un atto corruttivo); una seconda causa è ricondotta al deficit di “capitale sociale” (o senso civico), del quale soffrirebbe in modo particolare l’Italia (la mancanza di senso civico, secondo i sostenitori di questa tesi, spiegherebbe anche perché, in Italia, il rispetto delle regole sia così scarsamente osservato); una terza causa è individuata nel fatto che, in Italia, la repressione non sarebbe sufficientemente severa.
Pur nella consapevolezza dei danni arrecati all’economia, sulla severità con cui la corruzione è perseguita esiste una disparità di opinioni. Secondo alcuni, un’eccessiva severità nel perseguirla potrebbe ridurre l’efficienza della pubblica amministrazione; l’incompatibilità tra la riduzione della corruzione, attraverso una maggiore severità della pene previste, e l’efficienza economica potrebbe manifestarsi, o con  una limitazione della discrezionalità della pubblica amministrazione nell’operare le proprie scelte (e, quindi, in una diminuzione dell’efficienza comportamentale del pubblico settore), oppure con una maggior complessità dello svolgimento del processo decisionale della stessa pubblica amministrazione.
In realtà, pensare che la questione morale consista in atti di corruzione come causa di un prevalente impatto negativo sul piano economico, significa confondere il sintomo (il sacrificio di un interesse materiale pubblico) con la sua causa reale (l’occupazione dello Stato e di tutte le sue istituzioni e articolazioni). Confondere, però, il sintomo con la causa effettiva comporta una grave distorsione della comprensione della “questione”; ciò perché non viene evidenziato il danno più rilevante derivante dalla mancata rimozione delle cause del suo reiterato manifestarsi, cioè il deterioramento della democrazia e il mancato rispetto della dignità dei cittadini, che costituiscono (sia pure indirettamente) la vera e più profonda causa dell’impatto negativo dell’illegalità dei pubblici ufficiali sul piano economico.
E’ lo stesso Cottarelli, tuttavia, ad affermare che la corruzione deve essere perseguita anche per ragioni etiche, anche quando, per ipotesi, essa non dovesse avere conseguenze economiche. A spiegare perché ciò dovrebbe avvenire è Lorenza Carlassare, costituzionalista e professoressa emerita di Diritto costituzionale all’Università di Padova; in un articolo apparso su “MicroMega” (n. 3/2019), col titolo “Quando la disobbedienza civile diventa dovere costituzionale”, la costituzionalista spiega che le Costituzioni democratiche del secondo dopoguerra hanno “collocato la persona umana e la sua dignità al centro del sistema giuridico, affermando tra i valori costituzionalmente rilevanti è incluso quello della “giustizia”; quest’ultimo valore, infatti, entrato “a fare parte del diritto positivo come diritto costituzionale”, è superiore alle leggi ordinarie, le quali perciò hanno perso la loro “sovranità” da quando è stata posta sopra di loro una Costituzione cui devono conformarsi, pena l’invalidità.
Le Costituzioni democratiche hanno così introdotto “due distinti piani di legalità”: quello che riguarda la Costituzione e quello relativo alle leggi ordinarie, che “trovano nella Costituzione un limite invalicabile”. La subordinazione delle leggi ordinarie alla legge fondamentale che si è data la comunità non ha un significato solo tecnico-formale, ma ne ha anche uno dotato di “una forte carica politica”; dire perciò – afferma la Carlassare – “che la Costituzione è un limite invalicabile per la legge [ordinaria] significa dire che la Costituzione è un limite invalicabile per la maggioranza politica“; significa, in altre parole, che quest’ultima, pur producendo la legge ordinaria, “non è più libera di disporre del proprio potere a suo arbitrio”.
Per rispettare i valori costituzionalmente rilevanti, però, non basta proclamarli in modo solenne, bisogna anche creare un’organizzazione istituzionale – sostiene la costituzionalista – “che renda possibile garantirli e difficile violarli”. A tal fine, per impedire l’esercizio arbitrario del potere statale, occorre evitare che esso si concentri in un unico soggetto o in un unico organo, per cui “diventa essenziale che il potere sia diviso fra una pluralità di organi o soggetti”, perché lo possano esercitare “limitandosi a vicenda, in conformità alle regole poste dalla Costituzione”.
Diventa così essenziale il principio democratico della “divisione dei poteri”, per cui chi crea le leggi ordinarie “deve essere diverso da chi le applica, in modo che chi le applica sia vincolato al rispetto delle norme già poste per tutti, in modo eguale, da un organo diverso”; se quest’ultimo decidesse secondo il proprio arbitrio di violare le norme, la sua decisone deve poter essere sindacata “da un organo terzo”, dotato di un diverso potere, esercitato da un corpo indipendente di magistrati. E’ questa l’articolazione della struttura istituzionale su cui si fonda uno Stato democratico, nel quale “il popolo esercita il potere di fare le leggi attraverso i suoi rappresentanti eletti nelle assemblee parlamentari, il governo ha il potere di applicarle dirigendo l’amministrazione pubblica, la magistratura ha il potere di controllare che la legalità sia rispettata”.
Ma se la classe politica, attraverso i partiti, ha occupato, come denunciava Berlinguer, quasi tutto lo Stato e tutte le sue istituzioni e articolazioni, come può la magistratura garantire un efficace ed efficiente controllo della legalità, se lo stesso ceto politico, dopo essersi dotato di un’efficiente rete di autoprotezione, non viene estromesso dall’occupazione indebita delle istituzioni pubbliche, costituente la vera causa della questione morale? Tra l’altro, come può essere esercitata la lotta contro la corruzione, se la mancata rimozione delle cause del suo continuo manifestarsi è, a sua volta, causa dell’origine del carente “capitale sociale (o spirito civico) che dovrebbe fungere da supporto sociale all’attività della magistratura? Perciò, la corruzione dei pubblici ufficiali alla base della questione morale che da tempo sta compromettendo la vita democratica del Paese, non può essere eliminata attraverso l’introduzione di pene maggiori più severe, in quanto queste ultime, per quanto severe possano essere, servono solo ad abbassare le frequenza dei fenomeni corruttivi, ma non a rimuoverli.
Considerate le difficoltà che si oppongono alla rimozione della causa della questione morale, vi è chi fa appello al senso etico cui dovrebbero attenersi coloro che esercitano pubbliche funzioni; per costoro, il senso etico dovrebbe comportare, non solo l’obbligo morale di non compiere reati, ma anche quello di tenere comportamenti conformi all’etica repubblicana. Ciò significa che, quando un pubblico ufficiale che ispiri la propria azione all’etica repubblicana, si macchia di un atto corruttivo, prima ancora che inizi l’azione giudiziaria, dovrebbero scattare altri tipi di sanzioni, affidate – si sostiene – all’autodisciplina del reo, o dei partiti e dei diversi gruppi politici di appartenenza. Sennonché, tranne rarissimi casi di dimissioni spontanee, quando viene accertato un atto corruttivo commesso da un pubblico ufficiale (soprattutto se membro di un partito) tutto tende a rimanere immutato o, tutt’al più, i partiti e i singoli gruppi cui appartiene il corrotto si limitano ad operare singole espulsioni, ma non a procedere alla liberazione delle istituzioni pubbliche dalla loro occupazione abusiva.
Che fare di fronte all’occupazione indebita dello Stato e delle sue istituzioni da parte dei partiti, cristallizzatasi in un irreversibile condizionamento delle regole democratiche? La Carlassare suggerisce di ricorrere alla “disobbedienza civile”, mentre l’ex magistrato Gherardo Colombo suggerisce l’opportunità di un’estesa attività di educazione per aumentare il livello di senso civico. Ma non serve la “disubbidienza”, se il suo esercizio è ostacolato dall’esistenza di un “reticolo di guarentigie”, che la classe politica ha provveduto ad erigere a presidio della sua indebita occupazione delle istituzioni pubbliche; il ricorso a questo “reticolo” impone tempi tanto lunghi da determinare la prescrizione dei reati commessi. Ugualmente, lunghi sono i tempi necessari perché, attraverso l’attività educativa, il senso civico diventi un valore prevalente all’interno di un contesto sociale come quello italiano, nel quale la corruzione gode di un consenso maggiore di quello riguardante il rispetto delle regole.
Per chi crede nella democrazia e nell’organizzazione dello Stato basata sulla divisione dei poteri non resta che una speranza; che i “ladri di democrazia e di istituzioni pubbliche” siano messi – come suggerisce Karl Raimund Popper – nella condizione di non nuocere,  se si vuole difendere, in tempi plausibilmente brevi, la democrazia contro in suoi “nemici”. Come riuscirvi, sia i costituzionalisti che gli educatori stentano ancora ad indicare modi più appropriati rispetto a quelli sinora proposti.

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