Storia di una famiglia partigiana

31 Agosto 2020
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Già pubblicato il 25 Aprile 2020

Sonia Aquilotti racconta a Gianna Lai

La mia era una vecchia famiglia di Urbino, i nonni socialisti e poi comunisti, nonna Erminia la prima donna in città con tessera del PCd’I. Uno zio lo chiamavano Avanti, portava il giornale socialista ai contadini, perché lì, in quel territorio erano tutti comunisti e socialisti. Mia madre si chiamava Marxina Annibali, mio padre Elio, studente universitario che non si laurea e diviene restauratore d’arte. Nel 1922 con Gramsci nel Partito comunista, tra i sardi conosce Polano e Cassitta, poi fondatore e dirigente della sezione del PCI di Urbino. Quindi, con la famiglia, a Roma, il Testaccio la sua sezione, la più turbolenta, a detta dei fascisti.
I miei genitori hanno ospitato Antonio Gramsci, lo raccontavano a noi ragazzi, che si spostava spesso da un luogo all’altro per ragioni di sicurezza, cambiando addirittura quartiere, per non essere preso dai fascisti e non mettere a repentaglio la vita di chi lo ospitava, mai due notti di seguito nello stesso posto. E dopo il suo arresto e gli anni del regime che si rafforza, anch’essi condannati al confino, insieme a Silvana e Sergio, i primi due figli. Dal 1926 al 1935 tra Ustica e Ponza, dove papà conosce Pertini, lo ricorda piccolo di statura e molto vivace. Si commuoveva sempre, vedendolo in tv, quando fu eletto Presidente della Repubblica.Nel 1936, la seconda luna di miele per Elio e Marxina. Al rientro a Roma, sono nata io, poi dopo nasce Assunta nel ‘39, mentre mio padre, per mantenere la famiglia ritorna alla condizione di semplice manovale. Abitavamo in una casa popolare fenomenale, bellissima, in via Alessandro Volta, n^ 45, scala F, interno 4, con lavanderia sotto l’ingresso centrale. Il 27 aprile di ogni anno tutti alla tomba di Gramsci, con un garofano rosso, presso la piramide di Cesto. Ma si fece fin da subito sempre più stretto il controllo nei nostri confronti, ogni sera in casa le camicie nere a perquisire,che scioglievano persino le mie fasce di bambinetta piccola, per vedere se ci fossero cose nascoste in mezzo. Alla fine del ‘39 un tenente dell’esercito segnala a mio padre la presenza del suo nome nella lista dei ‘pericolosi’, lo avverte e gli dà un consiglio, ‘lei sa fare il sapone, lei è un saponiere, cosa ne pensa di andare in Sardegna?’ E ancora più stretta la vigilanza, questa volta la casa perquisita dopo aver trovato una foto di Lenin, che papà aveva ricevuto in quei mesi. Unico modo per sfuggire, d’accordo con il portinaio che ci avvertiva dell’arrivo delle camicie nere bussando alla porta, uscire di casa e nasconderci nel deposito dell’acqua, dietro la tromba delle scale.
Eravamo a Cagliari allo scoppio della guerra, l’imprenditore del sapone, il saponiere Elio, con la caldaia presso la chiesetta di San Pietro, il laboratorio in via Trieste, nel luogo occupato oggi dalla Conad. La nostra abitazione nel quartiere di Sant’Avendrace, in via Piave. Mio fratello Sergio militare nell’esercito, dopo i bombardamenti di Cagliari Elio e Marxina decidono di rientrare a Urbino, con noi piccole, mentre sembrava che la guerra fosse finita. Avevo 6 anni, e ricordo la tristezza dei miei genitori per la figlia sposata rimasta a Cagliari e il figlio militare, non si sapeva neppure dove. Per me un’esperienza bellissima, un vivere diverso, sempre liberi fra i campi e le fattorie, a Castel Cavallino presso i nonni, in comune di Urbino, ad appena 7 chilometri dal centro, 72 persone in tutto. Si andava alla scuola rurale, i miei fratelli hanno sempre frequentato le scuole dei Salesiani, mai le scuole pubbliche, per non prendere la tessera del Partito nazionale fascista, ed è qui che ci coglie l’armistizio e poi la Resistenza. Insieme a molti dei suoi parenti del luogo, mio padre entra in clandestinità e diviene Comandante partigiano di zona, nell’ambito del Comitato di Liberazione Nazionale, essendo il dirigente più importante del partito comunista di Urbino. E assume il nome di Piantalegge, quello che le leggi le fa, a favore dei contadini, e le fa rispettare, garantendo approvvigionamenti per la popolazione e corretti rapporti con i contadini che li assicuravano. Il territorio era quello della Romagna, presso il Passo del Furlo, dove Elio-Piantalegge fu condannato a morte dai nazistifascisti, con manifesti esposti in tutto il territorio. Ricercato vivo o morto, senza però che i tedeschi ne conoscessero le sembianze, il viso, non possedendone immagini e fotografie. Denunciato, probabilmente dall’unico fascista che ci fosse ad Urbino, e, pronto per l’esecuzione, costretto a scavarsi la fossa, lo salvò l’intervento della moglie tedesca di un cugino, un’insegnante proveniente dalla Ruhr che, vestita con grande eleganza, attraversò la via inscenando un grande putiferio. Che lei era venuta dalla Germania a conoscere i parenti del marito italiano ed ora lo cercava e non lo trovava più, che le avevano detto che qualcuno di questi stupidi italiani lo aveva scambiato nientemeno per un partigiano, ed ancora improperi nei confronti di tutti gli italiani, fino a convincere i tedeschi di aver commesso un grave errore ad aver arrestato proprio suo marito. Così si ritrovò miracolosamente libero Elio-Piantalegge e, forte per non essere stato riconosciuto dai militari occupanti, potè proseguire nell’azione partigiana di Comandante del Passo del Furlo, quello attraversato dagli ebrei, che una delle brigate prelevava ogni volta, in direzione di Rimini. E c’erano dei rapporti stretti col Vaticano, impegnato a salvarli, perché il nostro prete partigiano li teneva dietro l’altare e poi, di notte, essi attraversavano la strada per Rimini, o per San Marino o verso la Pineta di Ravenna, dove i nostri li accompagnavano verso la successiva pattuglia di partigiani, pronti a prenderli in consegna.
E ospitavamo spesso anche ragazze ebree, cui veniva cambiato il nome, mentre i maestri della nostra scuola erano veri e propri partigiani, protetti dai nostri vecchi, le donne sedute nel muretto a lavorare a maglia per tutto il turno della scuola, pronte ad avvisare i maestri in caso di pericolo. Mia madre tutte le mattine ad Urbino, per mantenere i contatti con la città e controllare i movimenti dei tedeschi, quella bella e vecchia città medioevale, tra municipio, galleria e caserma, da dove i compagni riuscivano talvolta a portar via le armi ai tedeschi. Entrava ad Urbino ogni mattina alle quattro, mia madre, insieme ai coltivatori diretti che portavano frutta e verdura al mercato, con tanto di autorizzazzione di ‘aiutante alla vendita’, e faceva finta di vendere anche lei tra le bancarelle, informandosi invece sul movimento dei fascisti su tutto il territorio. E poi la presenza dei partigiani per preservare le opere d’arte, spostate in continuazione da un luogo all’altro, attraverso le ronde e con l’aiuto dei contadini, ad impedire che cadessero nelle mani degli occupanti.
Io stessa divenni, senza saperlo, messaggera di comunicazioni tra partigiani e abitanti, grazie a un espediente quanto mai originale: infilavo in classe un grembiulino bianco e rosa, con un orlo enorme, alla fine della lezione il mio percorso era sempre il solito, lo strapiombo e la stradina che portava ai poderi, dove trovavo tanta gente. Alla fattoria, trovavo ‘la combriccola’, che altro non era se non la brigata partigiana, o una parte di essa. Chi mungeva, chi lavorava, chi si fermava a giocare con me. Mi chiamavano Lilla e non mi accorgevo dei bigliettini sfilati dall’orlo del grembiule, con i messaggi dei ‘maestri’, destinati alla brigata stessa. E c’era un’altra comunicazione che passava attraverso il mio comportamento, dovevo, a seconda dei casi, camminare veloce, oppure saltellare, oppure semplicemente passeggiare, ogni mio gesto un significato ben preciso per chi doveva ricevere il messaggio. Io, stando al gioco, dicevano che era un gioco, ubbidivo, divertendomi pure e solo a fine guerra ho capito di aver svolto un certo ruolo, non essendo tuttavia mai stata esposta ad alcun rischio, se non quello che tutti correvamo nelle zone di guerra. Come quando mia madre tornò in tutta fretta da Urbino, per segnalare un pericolo imminente ed io, sotto la protezione di don Arturo, cado in un cespuglio di more, impaurita da una biscia apparsa improvvisamente, salvandomi da una mitragliata dei tedeschi, che avevano scambiato per partigiani gruppi di contadini impegnati nei fondi e volevano intimidire la popolazione. E poi, strisciando per terra, sono arrivata al muro del giardino di nonna Erminia, che ha curato le mie bruciature con la buccia delle patate crude. Abbiamo resistito fino alla liberazione ad opera dei partigiani, nell’ottobre del 1944, fino al contrasto con gli americani che, insieme alla consegna della città, pretendevano di definire loro i rapporti con i contadini, rifiutandosi di garantire le spese sostenute dai partigiani, a nome del Comitato di Liberazione Nazionale, per il sostentamento della popolazione, nonostante le ricevute presentate da Elio. Un contrasto che impose di abbandonare Urbino per rientrare a Roma, nel novembre del ‘44, da dove il Comitato di Liberazione intervenne a saldare tutti i conti pendenti con gli agricoltori impegnati nella Resistenza. Ma, volendo ricomporre la famiglia, per gli Aquilotti fu necessario rientrare a Cagliari nel febbraio del ‘46, mio fratello Sergio di stanza in città, presso l’esercito alleato, ed è qui che abbiamo tutti insieme vissuto la ricostruzione e il rapporto col Partito.
Da giovane comunista ne ho conosciuto i dirigenti, locali e nazionali, Nadia Gallico Spano, in particolare, con la quale abbiamo lavorato insieme per la costruzione a Cagliari dell’UDI, e poi Renzo Laconi, che aveva grande stima di noi giovani e ci sosteneva. Da lui ricevevamo molti dei biglietti destinati ai parlamentari, aereo e nave, che ci consentivano di partecipare alle iniziative nazionali, ai Congressi e alle manifestazioni di Partito. Era come voler proseguire quel lavoro, solo appena iniziato, a Castel Cavallino, presso Urbino.

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