Può servire un museo della solidarietà?

22 Luglio 2012
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Gianfranco Sabattini

Di recente, sul mercato librario italiano, è comparsa la traduzione di un lavoro di Richard Sennet, noto sociologo americano, dal titolo: Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione. Il libro narra del successo cha ha avuto l’inaugurazione all’inizio del secolo Diciannovesimo l’Esposizione Universale di Parigi. Il successo dell’Esposizione è stato dovuto, per Sennet, al fatto che con essa veniva celebrata una civiltà che aveva per destino il progresso, il cui «motore» all’epoca era costituito dallo spirito del capitalismo che, con l’Esposizione, segnava il massimo della sua apoteosi.
Nel libro, Sennet evoca anche un evento quasi contemporaneo della mostra parigina, espresso dalla costituzione alcuni anni prima, nel 1894, del Musée sociale, descritto come una sorta di Louvre del lavoro, volto a mostrare in che modo il capitalismo ottenesse i suoi risultati, ma anche a denunciare una questione che lo stesso capitalismo contribuiva a sollevare, ovvero la «questione sociale», causata dal fatto che i successi del capitalismo si coniugavano con crescenti squilibri sociali.
Visto dall’interno del Musée, la celebrazione del capitalismo appariva, tuttavia, un evento meno esaltante, nel senso che il suo percorso appariva segnato da grandi successi, ma anche dagli alti costi di una distribuzione del prodotto sociale molto inegauale, a svantaggio soprattutto di chi viveva della rimunerazione dei servizi della propria forza lavorativa. Il diffondersi della percezione della questione sociale è stato contrassegnato da movimenti culturali e politici di opposte tendenze. Alcuni impegnati ad evidenziare i guasti che la logica comportamentale del capitalismo aveva finito per far pesare sulla tenuta dei legami sociali all’interno dei sistemi nei quali il capitalismo stesso aveva informato di sé sepre più ogni aspetto della vita. Altri impegnati ad esaltare il «motore stesso» del capitalismo, individuato nel ruolo e nella funzione della concorrenza economica e della competizione sociale.
Dal dibattito tra sostenitori e critici dello spirito del capitalismo ha tratto origine l’interrogativo se, all’interno dei sistemi sociali capitalistici, la solidarietà potesse sopravvivere, considerando che le forze che determinavano la loro dinamica sembravano corrodere i presuppostoi della solidarietà stessa.
Tali forze hanno sviluppato una concorrenza disgregatrice della coesione sociale, nel senso che, da un alto, hanno emarginato sul piano economico quote crescenti della forza lavotaiva dsponibile; dall’altro, hanno favorito l’accumulo di privilegi e di ricchezza a un’élite che ha occupato il vertice della gerrachia sociale e che, per conservarsi nella posizione raggiunta, ha profuso i propri sforzi per frustrare ogni tentativo di umanizzare il sistema sociale con l’introduzione di regole volte al contenimento delle diseguaglianze.
A fronte del crescente peggioramento della questione sociale, il Musée potrebbe essere «ristrutturato» per rendere manifesto il senso e il significato dell’apologo contenuto nella descrizione dell’esperimento mentale sugli esiti negativi della concentrazione della ricchezza formulato nel XIX secolo in Progresso e libertà da un economista americano quasi sconosciuto, Henry George. Se il progresso indotto dalla competitività propria dello spirito del capitalismo determina l’esclusione continua e definitiva, per via del progresso, di quote crescenti dei componenti del sistema sociale dalla fruizione dei risultati di quel progresso, allora è possibile pensare ad un momento in corrispondenza del quale il prodotto sociale può essere ottenuto azzerando quasi totalmente la partecipazione alla sua distribuzione degli esclusi dall’élite privilegiata.
In tal modo, i privilegiati, cioè i proprietari della ricchezza prodotta e accumulata potrebbero appropriarsi dell’intera produzione conseguita senza il coinvolgimento degli esclusi. E per quanto il costo della “riproduzione fisica” degli esclusi possa essere reso equipollente al “costo della biada per i cavalli” o al “costo dell’olio lubrificante per funzionamento delle macchine”, il prodotto sociale eccedente tale “costo di riproduzione”, rimanendo invenduto, mancherebbe di tradursi in ricchezza reale. Per questa via, il sistema sociale si ridurrebbe ad essere sorretto da un’economia funzionante in regime regressivo, in assenza di ogni spirito solidaristico e collaborativo.
Questo limite, osservava George, al quale conduce il progresso tecnico del capitalismo in assenza di solidarietà può sembrare molto remoto, perfino impossibile a raggiungersi, ma è un punto verso cui tende sempre più rapidamente il “turbocapitalismo” del mondo attuale; un limite, perciò, che dovrebbe essere tenuto nella massima considerazione nel formulare la riforma delle istituzioni ridistributive, quali quelle del welfare State, più consona alla bisogna di un sistema sociale impegnato a rimuovere gli effetti indesiderati che il progresso del capitalismo ha determinato.
L’apologo di George dovrebbe suggerire, perciò, la necessità che il Musée sia oggi riallestito in maniera tale da consentire di illustrare ai suoi visitatori moderni la necessità e l’urgenza di porre rimedio ai guasti sociali del capitalismo. In altri termini, il riallestimento del Musée dovrebbe essere finalizzato ad indurre i suoi visitatori a valutare negativamente le disuguaglianze quando queste mancassero di essere compatibili con i principi informatori di un’organizzazione del sistema sociale fondata sulla solidarietà e la reciproca collaborazione di tutti i suoi componenti.

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