La “fuga” dalla povertà presuppone la libertà

17 Dicembre 2015
Nessun commento


Gianfranco Sabattini

Angus Deaton, al quale è stato assegnato quest’anno il primio Nobel per l’economia, è un economista singolare: ha studiato presso l’Università di Cambridge, si è indirizzato originariamente verso gli studi di matematica, poi ha meditato di diventare filosofo della scienza e, alla fine degli anni Sessanta, ha maturato l’interesse esclusivo per lo studio dell’economia.
I motivi che hanno spinto Deaton a privilegiare gli studi dell’economia si avvertono con forza leggendo il suo ultimo libro tradotto in italiano, “La grande fuga. Salute, ricchezza e origini della disuguaglianza”; in esso il tema centrale è la narrazione della “fuga” dalla povertà, attraverso la spiegazione di “cosa” è accaduto nel momento in cui ha avuto inizio l’abbandono dell’indigenza da parte di singoli soggetti o di singoli Paesi; di “chi” ne ha beneficiato (perché “alcuni” sono riusciti a migliorare le loro condizioni di vita ed “altri” hanno fallito; infine, del “come” affrontare in prospettiva il problema delle disuguaglianze, che si formano o si approfondiscono ogni volta che, in un dato contesto sociale o nel mondo, si verifica uno “scatto in avanti” nel miglioramento delle condizioni di vita.
Nella prospettiva di Deaton, i fatti sono narrati tenendo conto di una visione globale della “fuga” dell’umanità dall’indigenza; ovvero, sulla base della considerazione che, così come all’interno dei singoli sistemi sociali, anche a livello dell’economia-mondo il miglioramento di un dato gruppo, o di un certo Paese, di solito va di pari passo con la possibilità che un altro gruppo o altri Paesi falliscano nella loro lotta contro l’indigenza.
Tuttavia, il fallimento dei ritardatari sulla via del miglioramento del loro livello di vita non esclude, secondo Deaton, lo spegnimento dell’insaziabile desiderio di libertà; desiderio, questo, che induce a tentare di conquistare la libertà anche nelle condizioni più difficili, perché è con la libertà che i ritardatari (individui o interi Paesi) conservano la possibilità di conseguire un livello di vita che sia degna di essere vissuta.
La Rivoluzione industriale e la globalizzazione delle economie nazionali in un unico mercato internazionale sono due fenomeni di rilevanza universale che, nella storia dell’umanità, hanno segnato, in modo particolare, due momenti di “fuga” dalla povertà; in entrambi i casi è cresciuta la prosperità, ma anche la disuguaglianza e quando quest’ultima diventa “ancella dello sviluppo – afferma Deaton – si commette un grave errore se ci si limita a guardare ai dati medi o, peggio ancora, ai soli dati relativi ai gruppi di successo”; si tratta di un tipo di approccio che, “non solo non tiene in alcun conto la maggioranza del genere umano ma che tace del contributo involontario” dei soggetti o dei Paesi danneggiati dallo sviluppo o, nella migliore delle ipotesi, semplicemente rimasti indietro.
Poiché il desiderio di fuggire dall’indigenza è sempre presente, occorre considerare che esso non sempre può essere soddisfatto. Può esserlo, se chi è rimasto indietro dispone delle conoscenze necessarie che solo l’ambiente istituzionale e sociale può rendere disponibili. Secondo Deaton, tutti coloro, singoli oPaesi, che sono stati fortunati nell’aver avuto successo nell’attuazione della loro “fuga”, hanno “l’obbligo morale di contribuire a ridurre la povertà e cattiva salute nel mondo”, nel senso che i singoli soggetti o i Paesi cui la fortuna ha arriso hanno il dovere di soccorrere chi è rimasto prigioniero dell’arretratezza e della povertà.
Questo dovere, afferma Deaton, è adempiuto, a livello nazionale, attraverso politiche ridistributive del reddito, mentre, a quello internazionale, grazie agli sforzi dei Paesi ricchi a favore di quelli poveri. Sul contributo degli aiuti dei Paesi ricchi allo sviluppo di quelli arretrati, Deaton manifesta pessimismo perché gli aiuti spesso sono erogati tramite organizzazioni che vincolano la destinazione delle risorse a particolari impieghi, di solito rispondenti alla soddisfazione dell’interesse del Paese erogatore, non necessariamente coincidente con quello beneficiato; accade, infatti, che in assenza di un’autorità politica internazionale, l’afflusso degli aiuti cambi il più delle volte in peggio le condizioni sociali a livello locale. Ciò che, auspicabilmente, secondo il premio Nobel, dovrebbe accadere è che nei Paesi poveri si ripeta quanto si è verificato nei Paesi ricchi, ciascuno dei quali si è sviluppato a modo suo, con i propri tempi e sulla base delle proprie strutture economiche e sociali.
Malgrado il suo pessimismo, circa l’utilità degli aiuti internazionali ai Paesi poveri, Deaton ammette la possibilità che gli aiuti possano essere utili per realizzare politiche appropriate nell’interesse delle popolazioni locali. In realtà, se la libertà è intesa come Deaton l’ha definita, come desiderio irresistibile degli uomini e dei Paesi di migliorare il proprio status di sicurezza economica, la condizione cui vincolare i governanti dei Paesi poveri potrebbe essere quella di imporre loro, prima di ricevere gli aiuti, di dotare sul piano istituzionale il loro Paese di un’organizzazione “bene ordinata”, nel senso di John Rawls, ovvero di un’organizzazione politica che almeno garantisca il rispetto delle propensioni dei singoli cittadini a soddisfare le loro aspirazioni. Se ciò accadesse, potrebbero essere evitate le situazioni che hanno portato anni or sono alle dimissioni dalla vicepresidenza delle Banca Mondiale per la Ricostruzione e lo Sviluppo di  Joseph Stiglitz, a causa del disaccordo sul fatto che gli aiuti fossero destinati a forme d’impiego che disattendevano l’intenzione dei governanti di un Paese povero di impiegarli per migliorare il livello di istruzione, condicio sine qua non perché il desiderio di “fuga” dalla povertà potesse essere soddisfatto con successo.
L’istruzione costituisce il presupposto perché prenda forma la libertà auspicata da Deaton; ciò perché è attraverso l’istruzione che diventa fondamentale la capacità sociale delle quale parla un altro grande economista esperto dei problemi propri dei Paesi poveri, Moses Abramovitz; questi, in un saggio famosissimo il cui titolo è “Catching Up, Forging Ahead, and Falling Behind” (Convergenza, sviluppo e rimanere indietro), apparso nel 1986 su “The Economic Journal”, sosteneva che le opportunità possono essere colte quando i Paesi poveri dispongono di una “capacità sociale” (social capability), consistente nella disponibilità di un quadro politico-giuridico utile a consentire ai suoi cittadini di sapersi adattare al cambiamento prodotto dall’istruzione, al fine di riuscire a “fuggire” con successo dalla povertà.
 

0 commenti

  • Non ci sono ancora commenti. Lascia il tuo commento riempendo il form sottostante.

Lascia un commento