Ordoliberismo e germanizzazione dell’Europa

26 Agosto 2016
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Gianfranco Sabattini

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Un tedesco, al di sopra di ogni sospetto, il sociologo Ulrich Beck, afferma a chiare lettere in “Europa tedesca. La nuova geografia del potere”: “Nessuno ha voluto che ciò accadesse, ma di fronte al possibile crollo dell’euro la Germania in quanto potenza economica è ‘scivolata’ progressivamente nella posizione di decisiva grande potenza politica dell’Europa”. Come è potuto accadere?
La causa principale, secondo il sociologo tedesco, è da rinvenire nel fatto che il dibattito pubblico sulla crisi del processo di unificazione politica del Vecchio Continente sia stato condotto, e continui ad esserlo, quasi esclusivamente dal punto di vista dell’economia, trascurando che non si tratta solo di una crisi economica o, se si tiene conto che gli economisti non sono stati in grado di prevederla, della teoria economica in generale, bensì di una crisi delle società e della politica europee, come se la teoria economica avesse espulso dal suo campo d’indagine lo studio della società, che pure la riguarda.
A parere di Beck, per riproporre il rilancio del processo di unificazione dell’Europa non è sufficiente limitare il dibattito pubblico agli aspetti puramente finanziari negativi dei quali soffrono alcuni Stati membri dell’Unione: non basta discettare ed insistere sulla necessità che si adotti una comune politica fiscale e monetaria, ed anche una comune politica economica e sociale, se si trascura che sullo sfondo del dibattito si è persa di vista la “questione fondamentale, cioè quella di una società europea”, e siano stati fatti i conti “senza il sovrano che è il cittadino”.
La crisi economica ha fatto nascere una contrapposizione tra i Paesi del Nord dell’Europa, con a capo la Germania, e quelli del Sud; la posizione di questi ultimi si è ultimamente aggravata con l’aumento della spesa pubblica sostenuta per fare fronte al precipitare del fenomeno migratorio; fenomeno – non lo si dimentichi – alimentato da coloro che fuggono dai loro Paesi, per sottrarsi alle persecuzioni, alle conseguenze della guerra civile e all’impossibilità di una qualsiasi forma di sopravvivenza, per il venir meno di ogni condizione di stabilita economica e sociale. Di fronte a questa situazione, a parere di Beck, la questione da affrontare non può essere solo quella di impedire il crollo della moneta unica, ma quella di evitare lo smarrimento totale dei “valori europei” e, in particolare, della comprensione del modo in cui risolvere i reali problemi del mondo, in condizioni di libertà e di tolleranza.
Se ci si limita a ritenere la crisi del processo di unificazione europea di natura unicamente economica, si rischia di non riuscire a considerare che l’unità politica possibile deve essere perseguita, com’è sancito nei Trattati comunitari originari, nell’interesse di tutti gli Stati membri, e cioè per “creare un’Europa capace di trovare riposte ai radicali cambiamenti e alle grandi sfide” del mondo attuale, senza ricadere nelle tragedie che hanno dilaniato il Vecchio Continente nella prima metà del secolo scorso.
Il dibattito pubblico in corso è, invece, tutto imperniato sui debiti, sui deficit di bilancio e sui problemi monetari; la riduzione del perseguimento dell’unità politica dell’Europa al solo problema della stabilità dell’euro ha comportato che si trascurasse, ignorandolo, il reale scopo per cui il progetto europeo è stato concepito ed avviato a realizzazione. In questo modo, tra l’altro, a parere di Beck, si è finito col trascurare che l’”Europa è un’unione di nazioni che erano un tempo culture mondiali e grandi potenze, le quali cercano ora una via d’uscita dalla loro storia bellicosa”. Tale storia dovrebbe suggerire ai responsabili del processo di unificazione politica europea che le grandi sfide nascono ora a livello globale e che una di esse nasce appunto dal fenomeno dei migranti, rinunciando  a governare pacificamente il quale si rischiano gravi conseguenze sul piano della pace mondiale; da qui l’opportunità, per i Paesi dell’Unione, di risolvere unitariamente il problema fuori dalla logica umanitaria e di prima accoglienza, sinora privilegiata, che non ha prodotto risultati positivi.
L’ossessione tedesca per la stabilità monetaria non è solo imputabile agli eventi esterni sinora considerati; oltre a questi esistono anche motivi interni, che possono essere personificati nelle figure di Wolfang Schäuble e di Jens Weidmann, ministro delle finanze, il primo, e presidente della Bundesbank, il secondo: entrambi sono i “cani da guardia” dell’austerità tanto cara alla Germania. Ad essi, tuttavia, deve aggiungersi la Cancelliera Angela Merkel, la quale, al di là del suo perbenismo e dell’immagine comprensiva che sa offrire di sé nelle relazioni inrercomunitarie, pur evitando i toni forti di Schäuble e di Weidmann, non esita a prescrivere severi “compiti a casa” ai Paesi i cui conti pubblici in rosso sono ritenuti responsabili dell’instabilità della moneta unica, come osserva Maurizio Ferrera in “La Germanizzazione dell’Europa” (“La Lettura” del “Corriere della Sera del 22 maggio).
Alcuni osservatori tedeschi, come lo stesso Beck e l’altro sociologo Wolfang Streeck, hanno valutato la Cancellierta soggetto politico pervaso da un robusto spirito opportunistico e ambizioso, al punto da indurre il primo a chiamarla “Merkivielli” e il secondo a ritenerla “un pericolo per la democrazia in Germania e per i destini dell’Unione Europea nel suo complesso”. Secondo Ferrera, quale che sia “il giudizio sul supposto sistema Merkel per la democrazia tedesca, lo scenario della germanizzazione dell’Europa non è solo un’invenzione degli eredi del pensiero critico francofortese. Si tratta di un’ipotesi discussa nel dibattito interno alla Germania, anche da parte di chi è a favore dell’euro”, convinto che la moneta unica “sia stata una buona cosa e possa essere conservata, purché Berlino abbandoni l’idolatria della stabilità e la condanna moralistica del debito”.
Del rigorismo monetario della Merkel e compagni, oltre agli eredi del pensiero critico della scuola di Francoforte, hanno mostrato d’essere preoccupati anche molti altri studiosi tedeschi, come dimostra la recente organizzazione di un convegno svoltosi presso la “Hertie School of Government di Berlino”; un convegno che ha avuto ad oggetto la discussione critica dell’ordoliberismo, definito sin dal titolo del convegno stesso: “An Irritating German Idea”. Dai lavori dell’incontro berlinese è emersa una dura condanna dell’ordoliberismo, in quanto, a parere di molti partecipanti, esso è stato trasformato dall’attuale società politica tedesca in una “religione civile”; ispirandosi rigorosamente ad essa, la classe politica tedesca, considera fine del potere pubblico quello di “imbrigliare società e politica tramite le regole del mercato e la disciplina morale”.
In questo modo, la Merkel e compagni possono assegnare ai Paesi dai conti pubblici in rosso onerosi “compiti a casa”, dando per scontato che l’interesse dell’Unione Europea debba coincidere con quello tedesco, secondo l’assunto che ciò che è bene per la Germania è “bene anche per tutti gli altri Paesi membri” dell’Unione; viene sancito così, in termini impositivi, che il possibile progresso sulla via dell’unificazione politica del Vecchio Continente può essere solo quello di un’Europa germanizzata. E’ però fortemente improbabile che questa prospettiva sia condivisa ed accettata dagli altri Paesi dell’Unione, per cui, a parere di Ferrera, non è plausibile ora pensare di poter realizzare un qualche contrappeso alle pretese tedesche, sia per la debolezza politica ed economica dei Paesi latini, sia per la propensione del Regno Unito ad abbandonare il progetto europeo, sia infine per la tendenza della Francia a rimanere, sul piano economico, sotto l’ala protettiva di Berlino. Che fare allora?
Si deve forse sperare che le sfide esterne all’Unione, soprattutto quelle nascenti dalle minacce alla sicurezza e dai pericoli connessi all’espansione continua dei flussi migratori, possano indurre la Germania, come conclude Ferrera, a perseguire un ulteriore passo in avanti sulla via di un’integrazione politica depurata dalle pulsioni egemoniche che hanno caratterizzato sinora i rapporti del sistema Merkel con i restanti Paesi dell’Unione? Oppure, il pericolo della germanizzazione dell’UE può essere evitato, come suggerisce Beck, attraverso la negoziazione di un nuovo “contratto sociale per l’Europa”, al fine di assicurare ai cittadini europei maggiore libertà, maggiore sicurezza sociale e più democrazia, indipendentemente dall’urgenza che il miglioramento dello stato dell’Unione proceda di pari passo con un mutamento dello stato del mondo globale, utile ad eliminare le minacce alla sicurezza e a bloccare i flussi migratori?
E difficile pensare che la Germania, facendo affidamento unicamente sulla propria forza economica, possa fare fronte, “motu proprio”, alle minacce alla sicurezza e agli effetti destabilizzanti del fenomeno migratorio sull’intera area comunitaria, senza un’alleanza su basi paritarie con gli altri Paesi. Soprattutto, è difficile pensare che la Germania, che ha sinora tratto grandi vantaggi sul piano economico e su quello politico dall’adozione della moneta unica ed anche dalla crisi, possa trascurare di valutare la necessità di fare valere il proprio prestigio a livello globale in termini più efficaci di quanto non abbia fatto sinora; optando, però, per una prospettiva di azione, nei confronti dei potenti della terra, meno nazionalistica e più aperta alla collaborazione con gli altri Paesi.
Da questa collaborazione, la Germania potrebbe trarre la necessaria legittimazione che le garantirebbe anche la forza morale necessaria, non solo a difendere il livello di benessere proprio e quello degli altri Paesi europei, ma anche a cambiare la situazione globale attuale che, avendo destabilizzato le condizioni esistenziali dei Paesi arretrati, ha dato origine alle minacce incombenti sulla sicurezza europea, con un fenomeno migratorio ormai divenuto insostenibile.

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