Il Papa, il Cavaliere e gli operai Alcoa

2 Febbraio 2010
1 Commento


Andrea Pubusa

Due fatti hanno segnato lo scorso fine settimana la drammatica lotta dei lavoratori dell’Alcoa: l’invocazione del Papa all’Angelus e la lettera del Presidente del Consiglio ai dirigenti dell’Alcoa. Sia il primo che il secondo chiedono attenzione per le drammatiche conseguenze sociali della chiusura della fabbrica. Entrambi invocano interventi adeguati alla gravità della situazione.. Ora che il Santo Padre si occupi della condizione dei lavoratori in lotta e ne sposi le aspirazioni al lavoro è un fatto altamente positivo. Civile e religioso. Avvicina il capo della Chiesa all’insegnamento di Cristo, che in realtà fra gli umili della terra viveva e ne rappresentava le aspirazioni. Ed è comprensibile che il Pontefice, che è privo di potere temporale, rivolga la sua implorazione a chi, le multinazionali, il potere ce l’hanno.
E’ anche un bene che il Capo del Governo abbia un attimo di attenzione verso una realtà in sfacelo. E’ meno positivo il fatto che anch’egli, espressione del potere temporale, implori la multinazionale di attendere gli esiti del pronunciamento della Commissione europea sulla riduzione delle tariffe energetiche. Che l’Alcoa - chiede Berlusconi - aspetti ad assumere decisioni finali; attenda la risposta degli organismi europei al quesito sulla natura della riduzione del costo dell’energia: è o no aiuto di Stato? E’  o no vietato, perché lesivo della dea concorrenza su cui si fonda l’Unità europea?
Ebbene, i due interventi danno risalto ad un fatto che nessuno sottolinea; rende manifesta l’impotenza degli organi di governo rispetto alle scelte imprenditoriali, mette in luce la mancanza di strumenti pubblici d’intervento a mitigare l’impatto sociale delle conversioni industriali e a delineare alternative produttive. L’invocazione della massima autorità religiosa e della massima autorità di governo danno risalto anche all’impotenza del sindacato. Non è un caso che le proteste assumano caratteri estranei alle forme classiche di lotta sindacale. Tendono a catturare l’attenzione dei media, ma tradiscono un’impotenza sostanziale: occupazione di torri, incatenamenti, invasione di aeroporti o strade, blocco di dirigenti ed infine le drammatiche morti per protesta: l’ultima, l’altroieri, non nel profondo sud, ma nel bergamasco, una delle zone più industrializzate del Paese, dove un operaio licenziato si è dato fuoco.
Ma perché tutto questo? Sono tutti questi segni di impotenza e di sfiducia nella possibilità d’intervento. Di più sono espressione della coscienza che ormai di fronte al gelido calcolo del profitto, al feticcio della concorrenza e al dio mercato, nulla è opponibile. Chi può esercitare un potere che determini un’alternativa o che quantomeno lenisca le ferite sociali? Si toccano con mano gli esiti disastrosi del liberismo sfrenato, che ha travolto tutti gli strumenti di intervento pubblico in economia. Si è data libertà alla mano invisibile del mercato, nella convinzione ch’essa, priva di lacci e laccioli, potesse risolvere da sé tutti i mali e ogni contraddizione. In realtà, ci si accorge che la mano invisibile nient’altro è che la legge della giungla, dove domina il più forte ed i più deboli non hanno altra funzione se non quella di essere strumento della sazietà dei forti.
Nella vicenda del Novecento abbiamo assistito ad altre gravi crisi. Quella del ‘29 e, stando in casa nostra, la grave e finale crisi, fine anni ‘50-anni ‘60, del settore minerario nel Sulcis-Iglesiente. Ebbene in entrambi i casi a porre rimedio è stato l’intervento pubblico, non la mano invisibile, le leggi e l’azione di governo non la concorrenza. Dalla crisi del ‘29 sono nate in Italia le partecipazioni statali, una forma, al tempo, originale di intervento dello Stato in economia, E sono state proprio le partecipazioni statali a costituire l’ammortizzatore sociale nel lungo processo di chiusura delle miniere. I minatori di Carbonia furono addirittura assorbiti dal produttore pubblico di energia, l’Enel, che li accompagnò alla pensione, dopo averli riciclati inserendoli nei propri ranghi. Certo, le partecipazioni statali erano anche carrozzoni, fonti di spreco e strumenti di clientelismo, ma erano anche veicoli di solidarietà sociale, come nel caso del nostro settore estrattivo. Il passaggio delle miniere di carbone all’Enel fu un’operazione non di mercato, ma di pronto soccorso sociale, tant’è che uno degli intellettuali più brillanti, nonché autorevole esponente socialista, del tempo, Riccardo Lombardi, l’avversò con fermezza non in odio ai lavoratori, ma perché pensava di preservare l’Enel da operazioni improprie di salvataggio. E tuttavia quegli interventi hanno consentito al Sulcis Iglesiente di mandare a casa in modo soft decine di migliaia di lavoratori e di delineare per le nuove leve un’alternativa industriale, l’alluminio a P. Vesme, i poli chimici altrove. Poli che oggi vengono chiusi, senza alternative e senza ammortizzatori.
Ed allora? L’invocazione del Papa e quegli operai in Piazza S. Pietro, la lettera del capo del governo ai dirigenti Alcoa sono la prova provata di un fallimento. Dell’incapacità del mercato di risolvere i problemi sociali senza spargimenti di sangue, senza macelleria sociale. In Europa sono 23 milioni i disoccupati. E aumentano in modo drammatico. Questa massa non ha i classici strumenti di difesa nello Stato, nel sindacato e nei partiti. e così invoca il Papa, quasi a sperare in un miracoloso intervento divino. Quando anche questa speranza sarà morta, dove andrà questo esercito di disperati? Distrutti i partiti di massa, eliminati così i soggetti di lotta e gli ideatori di alternative, questo esercito d’incazzati senza ideali e senza partito, può anche prendere strade pericolose. Altre volte è successo nella storia. Nella prima metà del ‘Novecento il fascismo e il nazismo sono stati lo sbocco alle crisi del liberalismo. Una svolta autoritaria e barbara. Se ne vedono oggi i sintomi nel razzismo diffuso, nel riflusso della solidarietà, nel diffondersi di forme sempre più estese d’inciviltà d’ogni genere. Nella riduzione a carta straccia della Costituzione. Eppure si continua ad affogare lo Stato nell’acqua gelida del privatismo, come ha denunciato anche Scalfari nel suo logorroico editoriale domenicale su Repubblica. Ciò che inquieta è che - come spesso accade nei momenti di crisi profonda - la classe dirigente parla d’altro. In fondo, a Bisanzio, mentre i turchi assalivano la fortezza, dentro i palazzi del potere si discettava finemente e accanitamente sul sesso degli angeli? E sappiamo com’è andata a finire.

1 commento

  • 1 Cristian Ribichesu
    2 Febbraio 2010 - 09:35

    Il problema è tutto politico, ma in uno Stato dove il 45% della classe dirigente e politica nazionale è rappresentata dal ultrasettantenni, non si può certo sperare un cambiamento in meglio, ma solo la prosecuzione di un vecchio sistema che mantenga le posizioni di potere.
    E allora è facilmente comprensibile il gioco di ricatti tra industrie e Stato, che alla fine paga. Il problema è politico e legislativo, perchè con leggi appropriate si potrebbero cambiare le regole del gioco, sporco, e riportare l’ordine, in un sistema che non può, evidentemente, essere lasciato interamente al mercato, ma che evidentemente deve trovare la soluzione giusta nella formula mista.
    Per dire, bisognerebbe imporre leggi per evitare lo svuotamento delle società per azioni con il gioco delle scatole cinesi, come bisognerebbe imporre leggi per gli stipendi dei manager. Ma occorrerebbe anche imporre vincoli alle industrie che beneficiano di aiuti dello Stato, vincoli superiori oltre al mantenimento del personale. D’altra parte sarebbe giusto migliorare i servizi per diminuire le spese degli impianti industriali, e, soprattutto, investire in istruzione e ricerca, per porre le basi per la nascita di un sistema più virtuoso (tutto evolve e va avanti e non si può pretendere, nell’era dei computer e di internet, di creare ricchezza se non si investe in Istruzione e ricerca). Invece si porta avanti il vecchio sistema, c’è chi risiede in politica da decenni, si svuota il potere dell’elettore, si crea disoccupazione, si taglia nella Scuola, si mortifica la generazione dei giovani. Tutto questo accade in Italia, dove c’è il più alto numero di beni, artistici e paesaggistici, riconosciuti dall’Unesco, e in Sardegna, isola dalle enormi potenzialità e con un basso indice demografico, che consentirebbe a tutti di vivere bene.

Lascia un commento