Passione politica oltre il PCI

13 Agosto 2014
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Stefano Folli  

Questo articolo è stato pubblicato su Il Sole 24 ore del 24 marzo 2013
 

Enrico Berlinguer è una figura essenzialmente tragica nella storia del dopoguerra. Non è l’unica, ma è vero che dopo di lui, dopo la sua terribile morte a Padova nel 1984, che commosse milioni di italiani, si sono verificati fin troppi casi in cui alla politica drammatica si è sostituita la politica ridicola. Invece Berlinguer, segretario del Pci nella stagione della disillusione, testimoniò con la vita una verità di fondo: e cioè che la passione politica spesso si paga ed esige il prezzo più alto. Non è un cabaret o un teatrino televisivo, bensì un impegno totale che può essere persino fatale. Basta questa considerazione per spiegare le ragioni che hanno spinto Miguel Gotor a dedicare allo statista comunista un’antologia ragionata di scritti, discorsi e interventi. Un modo per riproporne il pensiero, ma soprattutto, sembra di capire, la rigorosa dirittura morale su cui non è inopportuno che i giovani riflettano. 
Naturalmente c’è sullo sfondo un equivoco da chiarire. La parabola umana di Berlinguer prescinde dal dato che egli era un dirigente del Pci. Avrebbe potuto condividere una diversa fede politica ed ugualmente viverla con la stessa passione che tutto consuma, con la medesima onestà esistenziale. Il fatto che egli fosse il segretario del Pci ha mosso la fortissima emozione collettiva che ha scandito uno degli eventi centrali del decennio Ottanta, ma ha poco a che vedere con il giudizio politico e storico sull’esperienza del comunismo italiano. Come dire che la rettitudine di Berlinguer era il tratto caratteristico di un uomo degno che si trovava a essere il leader del Pci; ma non dipendeva da quella sua funzione politica, con i suoi meriti e i suoi errori.
In fondo ha del tutto ragione la figlia Bianca quando scrive (e Gotor riporta) che la figura di Enrico Berlinguer non merita oggi certi sbrigativi processi di “smitizzazione” proprio perché in passato non aveva bisogno di essere “mitizzata”. È così. La sua è una nobile vicenda umana che va trattata con rispetto proprio per il suo risvolto tragico. Che non riguarda solo la morte, ma l’intero percorso compiuto da Berlinguer nei suoi ultimi anni. È il percorso di un uomo che vuole convincersi o forse illudersi della possibilità di riformare il comunismo nonostante l’Unione Sovietica. Che si rifiuta di accettare l’alternativa fra appiattimento su Mosca e fuoriuscita da quella specifica forma di comunismo che fu la gabbia del Pci. Che non crede al riformismo socialdemocratico (da un certo momento in poi incarnato in Italia da Bettino Craxi) e si sforza di nutrire la propria tenace ostilità al socialismo facendo ricorso alla «diversità morale» dei comunisti, un tema che ha pesato non poco nel dibattito pubblico di quegli anni e nella successiva, irrisolta “transizione” seguita alla fase di Mani Pulite.
Il lavoro di Gotor aiuta a ricostruire la visione berlingueriana nei suoi passaggi essenziali: dall’insistenza sul valore del l’«austerità» al progressivo avvicinamento all’area del Governo; dalla proposta del compromesso storico dopo il golpe cileno al sofferto strappo con Mosca. «L’idea di austerità di Berlinguer è fra le più significative e tortuose del suo pensiero, ma non può essere ridotta a una semplice istanza moralistica o a un rifiuto intransigente del mondo dei consumi. In realtà… Berlinguer era convinto nel ‘77 di una crisi imminente del modello di sviluppo capitalistico… Di conseguenza inserì quel discorso in una linea di progressiva fuoriuscita da quel sistema».
Non si potrebbe dire meglio. La tortuosità berlingueriana è la cifra di un dramma personale e politico. Un uomo alla guida di un partito che rappresenta milioni di italiani, ma che non si riconosce più nell’Est e poco anche nell’Ovest: non nel mondo del «socialismo reale» e però nemmeno nell’occidente capitalistico. Di qui l’intervista a Pansa nel ‘76, con l’ammissione che ci si sente più sicuri nell’Europa occidentale, sotto l’ombrello della Nato. Constatazione a cui tuttavia non fanno seguito tutte le conseguenze necessarie. Fino alla famosa intervista a Scalfari dell’81, in cui Berlinguer usa la questione morale per stabilire una distinzione fra il Pci e la socialdemocrazia, ma in cui si coglie tutta la difficoltà d’interpretare la fase che si è aperta dopo la morte di Moro e la fine della solidarietà nazionale. In quegli anni il Pci si dichiara ostile agli euromissili atlantici schierati (dal socialdemocratico Schmidt e dal Governo pentapartito italiano) in risposta agli Ss-20 sovietici. Si riscoprono i toni antichi dei «partigiani della pace». E Berlinguer si avvia all’ultima parte della sua vita.

Enrico Berlinguer, La passione non è finita, a cura di Miguel Gotor, Einaudi, Torino, pagg. 176, € 12,00

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