Berlinguer, il leader sconfitto ma non disilluso

23 Agosto 2014
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Norma Rangeri - Il Manifesto del 9.7.2014 

Il nuovo gruppo ren­ziano avrebbe il com­pito di gui­dare il «Par­tito della Nazione» (copy­w­rit di Alfredo Rei­chlin) verso il pro­gresso e il benes­sere del nostro mal­con­cio paese. Di fronte a que­sto par­tito final­mente mag­gio­ri­ta­rio (anche se per effetto di defor­manti premi di mag­gio­ranza e se di massa per il momento c’è solo l’astensionismo) è dun­que lecito chie­dersi se il suo padre nobile vada ricer­cato nel com­pro­messo sto­rico ber­lin­gue­riano o se, vice­versa, quel ten­ta­tivo di governo della mal­certa demo­cra­zia ita­liana non gli sia nep­pure parente per­ché, come diceva Enrico Ber­lin­guer, «non c’è fan­ta­sia, inven­zione o rin­no­va­mento se si sman­tella quello che vi è alle spalle». La neces­sa­ria distanza tem­po­rale tra quella tra­iet­to­ria ber­lin­gue­riana e i nostri tempi potrebbe favo­rire final­mente un’analisi sto­rica su quella sta­gione cru­ciale. E il libro di Chiara Valen­tini Enrico Ber­lin­guer (Fel­tri­neli, pp. 342, euro 14) è un ponte verso un auspi­ca­bile approdo sto­rico per la note­vole mole di docu­men­ta­zione rela­tiva ai ver­bali delle dire­zioni del Pci, diven­tati pub­blici in que­sti anni («una miniera di infor­ma­zioni sui fatti poli­tici anche inter­na­zio­nali, sulle deci­sioni e sugli scon­tri al ver­tice, per esem­pio negli anni ’80 Ber­lin­guer si era tro­vato più di una volta in minoranza)».

Un mosaico da decifrare

Il punto di par­tenza, l’immagine che avvia il flash-back sul Pci di Ber­lin­guer è sem­pre la stessa: per­ché quei fune­rali immensi, appas­sio­nati, pieni di gente in lacrime per un uomo riser­vato, per un lea­der distac­cato e poco incline alla reto­rica del con­senso. Scrive l’autrice alla fine del volume: «Quelle selve di pugni chiusi che Enrico non amava e che si alter­nano ai segni di croce, que­gli uomini del potere che di colpo sem­brano aver perso ogni anta­go­ni­smo per il capo dell’opposizione, sono imma­gini di un mosaico mai deci­frato del tutto».
A piazza San Gio­vanni insieme al dolore, quel 13 di giu­gno di trent’anni fa si respira anche una grande inquie­tu­dine, una sen­sa­zione insieme di tri­stezza e di affanno, come già vent’anni prima durante un altro cele­bre fune­rale, quello di Pal­miro Togliatti. Nella pre­fa­zione al suo Quando c’era Ber­lin­guer (la rac­colta dei testi delle inter­vi­ste apparse nel bel film omo­nimo), Wal­ter Vel­troni cita la con­clu­sione di Sto­ria degli ita­liani, dello sto­rico Giu­liano Pro­cacci, su quei fune­rali del 1964: «Nella tri­stezza che lo accom­pa­gnava per l’ultima volta, vi era la con­sa­pe­vo­lezza di un tra­guardo che non era stato rag­giunto e il pre­sen­ti­mento di un lungo e fati­coso cam­mino».
Se il film di Vel­troni ci ha emo­zio­nato con la forza delle imma­gini, Valen­tini ci intro­duce al die­tro le quinte del «potere rosso», ci con­sente di par­te­ci­pare alla for­ma­zione di un lea­der, di seguirlo passo passo nella sua cre­scita umana e poli­tica.

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In que­sto revi­val ber­lin­gue­riano (biso­gna dirlo: ricco di grandi bana­liz­za­zioni che, come ha scritto sul mani­fe­sto Luciana Castel­lina rife­ren­dosi al pre­mio Strega, Fran­ce­sco Pic­colo, spesso dipin­gono Ber­lin­guer come «la figura un po’ pate­tica del vec­chio nonno»), la discus­sione poli­tica si accende nel giu­di­zio sulla linea poli­tica degli anni ’70-’80. Tut­ta­via, e come sem­pre, vicenda pri­vata e dimen­sione poli­tica sono inscin­di­bili. Si com­prende Ber­lin­guer se si è cono­sciuto Enrico, la sua casa, la sua fami­glia, la sua città. E la tra­ge­dia che lo col­pi­sce ancora ragaz­zino, inter­rom­pendo le belle estati di Stin­tino a gio­care alla Rivo­lu­zione fran­cese (ovvia­mente pren­dendo per sé la parte di Robe­spierre). Una tra­ge­dia che ne cam­bierà per sem­pre il carat­tere estro­verso, vivace, di figlio felice di una fami­glia dell’alta bor­ghe­sia sas­sa­rese. La madre si ammala di ence­fa­lite ende­mica, il male pro­cede len­ta­mente, poi la prende fino a defor­marle il volto. Al punto che i com­pa­gni di gio­chi non fre­quen­tano più la casa di quel ragaz­zino che perde la madre quando fre­quenta il quarto gin­na­sio. Il pro­fes­sore che gli fa ripe­ti­zione parla di «un ragazzo dispe­rato».
Le uni­che occa­sioni in cui si sot­trae alla soli­tu­dine sono le discus­sioni di poli­tica nella grande casa di Sas­sari, con il padre bril­lante avvo­cato, bor­ghese illu­mi­nato. «Avevo letto Baku­nin — dice Ber­lin­guer — mi sen­tivo un anar­chico». Let­ture clan­de­stine (Marx), let­ture libere (gli amati filo­sofi). A farne le spese gli studi liceali. Ber­lin­guer pre­fe­ri­sce di gran lunga il poker (dove invece è bra­vis­simo). E con la scusa delle carte fre­quenta i luo­ghi di ritrovo dei comu­ni­sti dei quar­tieri poveri, dove ini­zia il suo per­corso di «comu­ni­sta auto­di­datta, un po’ estre­mi­sta». Che finirà in car­cere per aver orga­niz­zato i «moti del pane» a Sas­sari nel ’44. Senza il poker e le «cat­tive com­pa­gnie» chissà… forse non avremmo avuto il più impor­tante segre­ta­rio del Pci.
Il gio­vane Enrico all’università e alla vita pro­fes­sio­nale che la fami­glia indi­cava, pre­fe­ri­sce il par­tito, la mili­tanza nelle orga­niz­za­zioni gio­va­nili. Un per­corso lineare, soli­ta­rio, di mas­sima appli­ca­zione e devo­zione alle regole, ma sem­pre lon­tano dal fana­ti­smo ideo­lo­gico come è pos­si­bile leg­gere in un pas­sag­gio impor­tante che Valen­tini mette a sigillo della prima parte del libro. Il XII con­gresso, nel ’69, e la suc­ces­siva radia­zione del gruppo del «Mani­fe­sto». Pagine intense, con le testi­mo­nianze di Ros­sana Ros­sanda e Luigi Pin­tor.
Si capi­sce che Ber­lin­guer è con­tra­rio alla radia­zione. Il segre­ta­rio del Pci chiede e ottiene che la pub­bli­ca­zione della Rivi­sta «Il Mani­fe­sto» venga rin­viata di qual­che mese, ma quando final­mente va in edi­cola su quelle pagine c’è scritto chiaro e tondo che biso­gna tagliare il cor­done ombe­li­cale con l’Unione sovie­tica. Tanto basta per met­tere in moto il pro­cesso della radia­zione. Al quinto numero («Praga è sola») scatta l’aut-aut: o chiu­dete la rivi­sta o siete fuori. Non che den­tro il par­tito non si discuta in ter­mini forti, ma il dis­senso non può essere così espli­cito e così pub­blico. A Belin­guer viene rico­no­sciuto di aver cer­cato in ogni modo di evi­tare il distacco. Il giorno della sua morte Pin­tor e Ros­sanda scri­vono sul nostro gior­nale il loro saluto. «La radia­zione fu una brutta pagina che Ber­lin­guer non con­tri­buì a scri­vere… forse avrei dovuto par­larci più a fondo, prima della rot­tura… il nostro difetto mag­giore è stata l’impazienza, il grande limite del Pci, all’opposto, l’essere lento e in ritardo», scrive Pin­tor. «È il segre­ta­rio del Pci con cui si è con­su­mata la nostra rot­tura. Noi abbiamo guer­reg­giato con il padre senza mai male­dirlo», scrive Ros­sanda sulla stessa prima pagina. Sospeso tra tra­di­zione e inno­va­zione, tra con­ser­va­zione e rivo­lu­zio­na­mento, Ber­lin­guer fa un passo avanti e poi torna al cen­tro. Il par­tito innan­zi­tutto.

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Del resto Belin­guer aveva dimo­strato la sua aller­gia alle basto­na­ture sta­li­niane, anche in un’altra occa­sione, acca­duta molto tempo prima della radia­zione del gruppo del «Mani­fe­sto». L’episodio è rac­con­tato in una pagina molto pre­ziosa. Dai ver­bali della dire­zione del Pci del 30 otto­bre del ’56, sui fatti d’Ungheria, emerge il «pro­cesso» al segre­ta­rio della Cgil Giu­seppe Di Vit­to­rio. Il lea­der sin­da­cale si sfoga con l’amico Anto­nio Gio­litti («L’armata rossa che spara sui lavo­ra­tori di un paese socia­li­sta è inac­cet­ta­bile»), rin­ca­rando poi la dose con una sua pub­blica dichia­ra­zione: «L’intervento sovie­tico viola il prin­ci­pio dell’autodeterminazione dei popoli». Togliatti, e sia pure con toni diversi, scrive Valen­tini, «tutti gli uomini della dire­zione, da Amen­dola a Ingrao, da Longo a Ter­ra­cini, si erano schie­rati con il segre­ta­rio cri­ti­cando dura­mente il capo della Cgil. L’unica voce con­tra­ria era arri­vata dal mem­bro più gio­vane, dal poco più che tren­tenne Enrico Ber­lin­guer: ’In Unghe­ria c’è stata un’esplosione di mal­con­tento popo­lare e ciò esige di spie­garne le cause… se ci sono due posi­zioni tra i com­pa­gni della Cgil e il par­tito si sosten­gano aper­ta­mente». È l’inizio di una lunga mar­cia che lo allon­ta­nerà pro­gres­si­va­mente dal regime sovie­tico per avvi­ci­narlo al valore uni­ver­sale della demo­cra­zia, anche a costo di rischi per­so­nali (l’ormai accer­tato atten­tato in Bul­ga­ria nei primi anni ’70).
Così come è una lunga mar­cia quella che lo por­terà dalla dif­fi­denza verso il refe­ren­dum sul divor­zio all’adesione al movi­mento fem­mi­ni­sta. Un aspetto della «rivo­lu­zione cul­tu­rale» ber­lin­gue­riana che oppor­tu­na­mente Valen­tini sot­to­li­nea. Nel ’74 noi del Mani­fe­sto par­liamo di occa­sione straor­di­na­ria per la tra­sfor­ma­zione dei rap­porti ses­suali e sociali, in sin­to­nia con il sen­ti­mento pro­fondo del paese. Ber­lin­guer è «togliat­tiano». Pre­oc­cu­pato degli equi­li­bri poli­tici con la Dc, riduce la que­stione cat­to­lica a que­stione demo­cri­stiana. Il libro insi­ste, e giu­sta­mente, sull’evoluzione del segre­ta­rio che appro­derà alla «teo­ria dif­fe­renza», con­vin­cen­dosi del nuovo approc­cio teo­rico: «Se non ci sarà anche la rivo­lu­zione fem­mi­nile non ci sarà alcuna reale rivo­lu­zione in Occi­dente».
E tut­ta­via sotto la sua guida si esprime la linea più di destra del par­tito, pur non essendo Ber­lin­guer un uomo della destra comu­ni­sta, anzi, come scrisse Ros­sanda alla sua morte, essendo «più un uomo dei Fronti popo­lari che parente di Turati».
E per poli­ti­che di destra si devono inten­dere i due grandi abba­gli stra­te­gici: il com­pro­messo sto­rico (dopo il golpe cileno del 1973), un grave errore di pro­spet­tiva per­chè in quel momento l’Europa sta andando a sini­stra non a destra; per­ché la Dc non è Moro ma Andreotti. E la suc­ces­siva, coe­rente scelta dell’unità nazio­nale, nel ’76, quando il Pci lascia soli i movi­menti del ’77, con tutto il ter­ri­bile far­dello che ne con­se­guirà, fino all’assassinio di Aldo Moro. No, è la tesi del libro, pro­prio l’«affaire Moro» dimo­stra che Ber­lin­guer aveva visto giu­sto sulle ten­sioni auto­ri­ta­rie, aveva ragione a per­se­guire lo sto­rico compromesso.

La seconda svolta di Salerno

Furono comun­que bru­cianti scon­fitte poli­ti­che, appun­ta­menti man­cati, ricco con­cime per l’anomalia ita­liana. Sot­to­li­neare i punti di un dis­senso stra­te­gico con quel par­tito comu­ni­sta è impor­tante anche per rico­no­scere la suc­ces­siva rot­tura di con­ti­nuità che nel 1980 prende corpo con la cosid­detta «seconda svolta di Salerno», dopo il ter­re­moto dell’Irpinia, quando tra lo «strappo» in poli­tica inter­na­zio­nale, la vicenda ope­raia della Fiat e l’esplodere della que­stione morale, i ragio­na­menti di Ber­lin­guer si diri­gono verso quell’alternativa di sini­stra che la pre­ma­tura fine non gli con­sen­tirà di met­tere in atto. Que­sto lea­der, scon­fitto ma non disil­luso, torna all’intesa con la sini­stra, chiama i qua­dri del Pdup a entrare nel par­tito, dà nuova spinta al movi­mento paci­fi­sta. Non farà in tempo a per­cor­rere le sue nuove fron­tiere, muore pro­prio quando urge una rifon­da­zione della sini­stra in un paese che vive l’onda di piena del cra­xi­smo, pre­lu­dio di un ber­lu­sco­ni­smo che scorre ancora invi­si­bile sotto la pelle. Intanto il mondo tele­vi­sivo di Arcore esi­biva una neu­tra­lità tutta appa­rente ege­mo­niz­zato dalle future teste d’uovo della sini­stra post-moderna.
Oggi vediamo tra­mon­tare quel mondo ma soprav­vi­ver­gli l’egemonia sot­to­cul­tu­rale, e quella que­stione morale che il «pen­siero lungo» di Ber­lin­guer aveva decli­nato come que­stione demo­cra­tica, né più né meno. Il segre­ta­rio del Pci fu per­sino vili­peso, den­tro e fuori il par­tito, in una vio­lenta pole­mica ingag­giata in nome di una pax cra­xiana dalla destra comu­ni­sta di Gior­gio Napo­li­tano. Solo Fabri­zio Barca ha ripreso la discus­sione nei ter­mini ber­lin­gue­riani, di una fame­lica inva­sione delle affa­ri­sti­che nomen­kla­ture di par­tito nelle isti­tu­zioni. Ina­scol­tato. Si fa prima a dire «pren­dia­moli a calci nel sedere que­sti cor­rotti», oppure «man­diamo un super­com­mis­sa­rio», che a ripen­sare quelli che ancora ci osti­niamo a chia­mare par­titi men­tre in realtà sono comi­tati, cor­date, elet­to­rali, pre­lu­dio al pre­si­den­zia­li­smo che verrà.

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