Regno Unito: essere o non essere… in Europa?

1 Febbraio 2016
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Gianfranco Sabattini

Dopo l’ultima vittoria elettorale, Cameron è stato costretto ad approvare una legge che impegna il Regno Unito a indire, entro la fine del 2017, un referendum che dovrà stabilire se il Regno Unito dovrà uscire o continuare a fare parte dell’Unioen Europea. Daniel Shade e James Bartholomeusz, entrambi del “Project for Democratic Union” (PDU), un istituto che, operando principalmente a Londra e a Berlino, porta avanti l’idea del compimento della piena unità politica dell’Eurozona, in un loro recente articolo (“Vota Brexit e perdi il posto a tavole”, Limes, n. 12/2015) sostengono che l’obbligo di Cameron è la conseguenza di una promessa fatta in “cattiva fede”; ciò perché, se è vero che il referendum è la conseguenza di un impegno assunto nel manifesto elettorale che lo ha visto vittorioso nelle elezioni del maggio scorso e della necessità di contrastare l’ascesa politica del nazionalistico “United Kingdom Independence Party” di Nigel Farage, non è meno vero che nei mesi successivi al risultato elettorale sono state portate avanti delle iniziative per una “rinegoziazione dei termini della membership britannica nella UE”.
Quali sono le probabilità di un “Brexit”, ovvero che il Regno Unito decida di uscire dall’Europa? Quale sarebbe l’impatto di tale decisione sull’UE? Per rispondere a queste domande, occorre innanzitutto ripercorrere la movimentata storia dell’ingresso e della permanenza del Regno Unito nell’UE, per poi analizzare le potenziali conseguenze del possibile recesso e individuare i probabili scenari futuri.
Il rapporto del Regno Unito con la CEE, e in generale con il processo d’integrazione europea, è stato ricco di colpi di scena e di ribaltamenti delle decisioni che la classe politica inglese ha assunto in momenti diversi, in funzione dell’evoluzione della congiuntura politica internazionale. A complicare questo rapporto vi è stato anche, nel tempo, il comportamento tentennante di uno sei paesi leader dell’edificazione degli Stati Uniti d’Europa, la Francia, che a volte si è mostrata favorevole al coinvolgimento del Regno Unito, mentre in altri momenti ha mostrato una ferma chiusura a tale coinvolgimento.
Da un lato, la classe politica britannica ha spesso manifestato il suo interesse a condurre il paese all’interno della CEE; dall’altro, la stessa classe politica e una parte consistente dell’opinione pubblica non hanno mai mancato di criticare il progetto sopranazionale, in quanto lo avvertivano contrario agli interessi nazionali. Eppure, nel 1946, è stato proprio il primo ministro britannico Winston Churchill, in un discorso svolto all’Università di Zurigo, a esortare i paesi europei a creare gli Stati Uniti d’Europa, un progetto di unione politica federale sopranazionale, sebbene – osservano Shade e Bartholomeusz – nello stesso discorso l’allora ex primo ministro abbia anche detto che la Gran Bretagna doveva “essere amica e sponsor della nuova Europa” e non parte di essa. Dalla considerazione dell’intero suo discorso appare chiaro, sempre secondo i due autori, come la visone che Cherchill aveva dell’Europa “fosse plasmata più da pragmatismo che non da convinzioni ideologiche”; pragmatismo che il vecchio leader inglese aveva maturato con l’ascesa al potere di Hitler, le cui pretese egemoniche sull’intero Vecchio Continente dovevano essere contrastate, se si voleva salvare l’integrità dell’impero britannico.
A tal fine, nel 1940, al momento dell’invasione nazista della Francia, il governo Churchill aveva proposto una dichiarazione di unione che avrebbe saldato il Regno Unito e la Terza Repubblica Francese in un solo Stato, un progetto del quale Charles de Gaulle, leader della resistenza francese con base a Londra è stato “fiero sostenitore”. Si può anche aggiungere che il pragmatismo, non disinteressato, di Churchill deve aver influenzato fortemente la classe politica francese se, ancora, dopo oltre dieci anni dalla fine della guerra, come documenti d’archivio britannici, ritrovati nel 1956 dalla BBC (servizio pubblico radiotelevisivo del Regno Unito) attestano, il primo ministro francese Guy Mollet ha proposto al suo omologo britannico Anthony Eden una fusione delle Francia con il Regno Unito, per meglio risolvere i problemi dei loro imperi in fase di disgregazione. La proposta non ha avuto un seguito, ma l’aspirazione ad unire i due paesi è stata superata l’anno dopo, allorché nel 1957 è stata istituita con il Trattato di Roma la Comunità Europea.
La grande ironia – affermano Shade e Bartholomeusz – è che il Regno Unito, dopo la parentesi unionista in tempo di guerra, è ritornata nell’alveo dell’”eccezionalismo” britannico, anche se, due decenni dopo, avrebbe bussato alle porte dell’Europa, invocandone l’ingresso. Così, mentre i paesi continentali, dopo il 1957, hanno incominciato a unirsi nella Comunità europea del carbone e dell’acciaio, e in seguito nella Comunità Europea, avviando un processo che supporterà un balzo in avanti sulla via della loro crescita economica, l’isolazionismo britannico e il progressivo crollo del suo impero hanno creato non poche difficoltà alla “perfida Albione”; il Regno Unito, infatti, ha vissuto una prolungata recessione economica, per cui, se per la Francia l’integrazione nell’Europa ha rappresentato “una parziale compensazione per la sua turbolenta decolonizzazione”, l’isolamento di Londra ha lasciato la Gran Bretagna “senza impero e senza Europa”.
In queste condizioni, all’inizio degli anni Sessanta (1963), Londra ha deciso di chiedere l’ingresso nella Comunità Europea; ma, per colmo di ironia, ha trovato l’opposizione di Charles de Gaulle, il quale, dimentico del suo assenso all’unione tra Francia e Regni Unito proposta da Churchill in tempo di guerra, ha posto il veto sulla richiesta britannica, per via del fatto che l’ingresso nella Comunità avrebbe consentito, presuntivamente, alla Gran Bretagna di svolgere il ruolo di “cavallo di Troia” in pro degli USA, permettendo loro di intromettersi nel progetto europeo, che, invece, nelle intenzioni di De Grulle, avrebbe dovuto costituire un terzo polo da opporre al potere di USA e URSS, a guida francese.
Il Regno Unito non si è rassegnato all’opposizione francese e, nonostante gli sforzi profusi per raggiungere lo scopo, ha dovuto subire nel 1967 un altro veto, sempre da parte di De Gaulle; solo la caduta del Generale, dopo il “maggio francese”, Londra ha visto aprirsi la strada che, nel 1968, l’avrebbe portata a Bruxelles; fatto, questo, che in un referendum del 1975, sarebbe stato approvato dai due terzi dell’elettorato del Regno Unito.
Dopo il suo travagliato ingresso in Europa, la Gran Bretagna ha caratterizzato la sua adesione al progetto europeo con una politica sempre orientata al perseguimento dei suoi stretti interessi nazionali; ma anche volta a spingere l’Europa sulla via di una più stretta integrazione, come è accaduto nel 1968, in occasione della “Dichiarazione di Saint-Malo”, con la quale Regno Unito e Francia hanno promosso l’attuazione di una “Politica europea di sicurezza e di difesa comune”, dotando in tal modo l’Unione Europea della possibilità di compiere missioni di “peacekeeping” al di fuori della NATO (anche se Londra si è poi sempre mostrata riluttante a contribuirvi).
L’adesione del Regno Unito all’Unione Europea, tuttavia, non è mai stata completa; ne è prova il fatto che esso ha sempre subordinato la sua partecipazione alla negoziazione di numerosi “opt-out”, cioè all’esenzione dall’obbligo di applicare al suo interno alcune disposizioni contenute nei Trattati o nella legislazione comunitaria. Tra i paesi membri che si sono avvalsi di questa opportunità, il Regno Unito è infatti quello che ha negoziato più opt-out (quattro), seguito dall’Irlanda (due), dalla Polonia e dalla Svezia (uno ciascuna).
Le esenzioni hanno riguardato: la Convenzione di Schengen (1990), rispetto alla quale il Regno Unito ha ottenuto di poter conservare il controllo delle proprie frontiere; l’Unione Economica e Monetaria, prevista dal Trattato di Maastricht (1992), alla quale Londra non ha aderito, evitando l’adozione dell’euro e l’unificazione a livello europeo delle politiche monetarie nazionali; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, entrata in vigore con il Trattato di Lisbona (2009), rispetto al quale il Regno Unito ha ottenuto di poter annettere un “Protocollo”, con cui si escludeva la competenza della Corte di giustizia dell’UE a ritenere che le leggi, i regolamenti o le disposizioni, le pratiche o l’azione amministrativa del Regno Unito non fossero conformi ai diritti, alle libertà e ai principi fondamentali affermati a livello europeo; lo Spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia, concordato con il Trattato di Lisbona (2007), rispetto al quale Londra ha ottenuto di poter scegliere, caso per caso, se partecipare al processo legislativo riguardante la cooperazione giudiziaria, la cooperazione di polizia e le politiche frontaliere.
Va inoltre ricordato lo “sconto britannico” (British rebate), negoziato durante il premierato di Margaret Thatcher, in base al quale al Regno Unito è stato concesso di contribuire proporzionalmente meno di qualunque altro paese membro al bilancio comune europeo, per compensare il presunto danno subito dal liberalizzato settore agricolo britannico a causa del sistema continentale di sussidi all’agricoltura. Va anche ricordato che il Regno Unito si è rifiutato di adottare il Fiscal compact, ovvero il Patto di bilancio europeo siglato nel 2012 dagli altri 25 paesi UE.
Come ha fatto – si chiedono Shade e Bartholomeusz – il Regno Unito “a ritrovarsi nel punto in cui è oggi, a meno di due anni dal referendum che potrebbe sancire la sua uscita dall’UE?” In parte risultato della crisi dell’Eurozona, i sentimenti antibrusselliani sono soprattutto cresciuti a partire dagli anni Ottanta, per via dell’euroscetticismo maturato con l’avvento della Tatcher al governo del paese, nonostante che la premier inglese sia stata, come Churchill, una pragmatica filo-europea, avendo tendenzialmente riconosciuto che fare parte dell’Europa comportava benefici maggiori dei costi connessi ad un’eventuale uscita dall’Unione avrebbe comportato.
Per valutare le potenziali conseguenze di un’uscita britannica dall’Unione europea si tende a prevedere che, nel negoziare i nuovi rapporti euro-britannici, il Regno Unito si troverà probabilmente a scegliere fra tre potenziali alternative: “Rinegoziare le condizioni di una continua permanenza nell’UE”, previa negoziazione di altri “opt-out”, che avrebbero l’effetto di mettere il Regno Unito in una situazione differente, rispetto agli altri Stati membri dell’Unione, riguardo ad ulteriori materie, in aggiunta a quelle già sottratte alle regole comunitarie; adottare l’“opzione norvegese”, in base alla quale il Regno Unito potrebbe decidere di tornare a far parte dell’EFTA (l’Associazione europea di libero scambio), tenendo conto che dal 1994 è entrato in vigore l’accodo sullo “Spazio economico europeo”, che permette a tutti i paesi aderenti all’EFTA (salvo la Svizzera) di partecipare al mercato comune europeo, pur non essendo membri dell’Unione; oppure privilegiare l’”opzione svizzera”, che consentirebbe al Regno Unito di stipulare un accordo di libero scambio con l’UE, stabilendo accordi bilaterali caso per caso con i suoi ex partner europei.
Se le possibili scelte future sono relativamente chiare per la Gran Bretagna nel caso in cui i britannici si esprimessero a favore del “Brexit”, lo stesso non può dirsi per l’Europa. Potrebbe accadere che l’uscita di Londra funga da catalizzatore per una ripresa del processo d’integrazione politica dei paesi europei residui; ma occorre tenere presente il pericolo che possa accadere l’opposto, nel senso che dall’uscita di Londra potrebbero trarre vantaggio l’euroscetticismo diffuso in tutti i paesi europei e l’aspirazione nazionalista di un ritorno alle vecchie patrie europee. In questo caso, si determinerebbe il collasso delle istituzioni europee e la crisi di tutte le politiche comuni, in una corsa frenetica a ricuperare la sovranità nazionale su tutto. Se ciò accadesse, concludono amaramente Shade e Bartholomeusz, la conseguenza sarebbe la recisione dei vincoli che sinora hanno reso la guerra materialmente impossibile; il ricorso alle armi per risolvere le diatribe internazionali, benché improbabile, tornerebbe a rientrare nel novero delle possibilità, e lo spettro del mondo in crisi della prima metà del secolo scorso tornerebbe ad incombere sui paesi del Vecchio Continente.

1 commento

  • 1 francesco Cocco
    1 Febbraio 2016 - 10:58

    De Gaulle aveva ben compreso che la G.B. seguiva gli interessi americani (la guerra in Iraq ne è stata l’ennesima dimostrazione) ,soprattutto aveva compreso che gli interessi britannici avevano altra natura rispetto a quelli continentali europei. Il progetto dell’ unità europea ha dimenticato la dimensione unitaria con la quale era stato concepito, Si è sviluppato in ossequio agli interessi americani di emarginazione della Federazione russa anche quando aveva cessato di essere URSS. L’ Europa di oggi è così un pastrocchio subordinato ad interessi molto lontani dalla visione dei primi teorici e dei padri fondatori.

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