Socialdemocrazia “appagata” e subalterna al liberismo

27 Dicembre 2016
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Gianfranco Sabattini

In un articolo apparso su “La Lettura”, l’inserto culturale della domenica del “Corriere” del 27 novembre scorso, col titolo “Destra batte sinistra 2-0”, e per sommario “I liberisti creano i poveri, i populisti ne cavalcano l’ira e gli eredi delle socialdemocrazia non toccano palla”, Michele Salvati illustra sinteticamente il ruolo cui è stata ridotta la socialdemocrazia a fronte della crisi in cui versano quasi tutte le economie del mondo, dopo la Grande Recessione iniziata nel 2007/2008. Dalla lettura dell’articolo sembra emergere che i partiti socialdemocratici non abbiano alcuna responsabilità sul diffondersi degli esiti della crisi che affliggono la totalità degli Stati europei di più antica tradizione democratica. In realtà, una responsabilità, di non poco conto, è a loro direttamente riconducibile.
Salvati, semplificando ed estraendo dalla grande varietà dei casi, ma in termini puntuali, rileva che, almeno nella tradizione degli Stati europei, sono sempre esistite due destre; ve ne è una, liberista e mercatista, che ha sempre sostenuto la libertà dei mercati e oggi sostiene il processo di globalizzazione delle economie nazionali e il conseguente progressivo abbattimento dei confini degli Stati nazionali; questo tipo di destra, a parere di Salvati, è sempre stato ostile, non tanto verso lo Stato “guardiano notturno”, come garante dell’ordinato svolgersi dell’interazione tra i diversi attori del sistema sociale, quanto verso la sua interferenza nel funzionamento del sistema economico, fatti salvi gli interventi volti allo smantellamento delle “difese corporative” e alla soppressione delle pratiche contrarie alla libera concorrenza tra le attività produttive.
Oltre a una destra liberista e mercatista è sempre esistita – sottolinea Salvati – vi è pure una “destra conservatrice, tradizionalista e comunitaria”, tutta “Dio, Patria e Famiglia”, che ha sempre tratto, e continua a trarre, “i suoi consensi proprio dagli sconvolgimenti sociali che il capitalismo senza freni produce: disoccupazione e precarietà, declino di intere regioni, peggioramento nella distribuzione del reddito” ed altro ancora.
Salvati ricorda anche che, sin dagli albori del capitalismo moderno e della democrazia rappresentativa, le due destre, a volte, sono coesistite, non senza configgere tra loro, all’interno delle stesso partito, e a volte sono esistite organizzate all’interno di partiti diversi, manifestando le loro contrapposizioni e divisioni quando le “ragioni del mercato” fossero entrate “in conflitto con quelle della società”. Quando ciò è accaduto – osserva Salvati – la destra tradizionalista ha avuto buon gioco nel prestare attenzione agli stati di disagio della società, trovando il facile consenso di chi fosse rimasto ancorato ai valori conservatori, tradizionali e comunitari, perché avvertiti minacciati dal prevalere di situazioni e atteggiamenti “estranei ai loro modi di vita”.
Questa forma di reazione è ormai nell’esperienza di tutti, considerando che la destra conservatrice, reagendo agli effetti della crisi attuale, è riuscita a prevalere su quella liberale, non solo in America, con la vittoria di Donald Trump nelle ultime elezioni presidenziali, ma anche in Europa, dove i partiti ed i movimenti populisti, prevalentemente di destra, stanno allargando a dismisura il loro consenso.
Il fenomeno – ricorda Salvati – è stato studiato ed illustrato dall’economista, sociologo e filosofo ungherese, Karl Polanyi, in un libro (“La grande trasformazione”), pubblicato in America nel 1944. Il saggio ha visto la luce quando il conflitto volgeva al termine, prefigurando nei Paesi occidentali, dopo la sconfitta del fascismo, il ricupero di assetti politici ed economici di tipo socialdemocratico. La sua pubblicazione ha preceduto di poco anche il ricupero del mercato, nella prospettiva tracciata da John Maynard Keynes; una prospettiva, questa, che ha implicato un ritorno al libero mercato con lo Stato, però, nel ruolo di suo regolatore, attraverso la soluzione del problema del come combinare nel modo più conveniente efficienza economica, giustizia sociale e libertà individuale.
Come afferma Salvati, il saggio di Polanyi ha costituito sul piano storico-culturale un’appropriata integrazione della critica keynesiana “ai razionalizzatori teorici del fondamentalismo di mercato”, difensori dell’idea che il mercato, in quanto dotato di meccanismi autoregolatori, non necessitasse di alcuna regolazione esterna; dopo il primo conflitto mondiale, tuttavia, l’idea non era valsa ad evitare sul piano sociale ed economico effetti negativi, culminati nella Grande Depressione del 1929/1932. Secondo Polanyi, i sistemi sociali, per ovviare a tali effetti, hanno fatto ricorso a due soluzioni: il socialismo e il fascismo. Il primo si è affermato come tendenza a superare l’idea del mercato autoregolato, subordinandolo ad una sua regolazione autoritaria (comunismo) o a una regolazione democratica (socialdemocrazia), realizzata con la conservazione di un mercato sottoposto al rispetto di regole democraticamente decise. Il fascismo, viceversa, si è affermato nel tentativo di sopperire alla difficoltà delle classi conservatrici per arginare i partiti d’ispirazione socialista, indipendentemente dal fatto che si trattasse di socialismo autoritario, oppure democratico.
La specificità della soluzione socialista autoritaria e di quella fascista, al fine di porre rimedio agli esiti negativi del mercato non regolato, è consistita nel fatto che, la prima ha risolto il problema indicato da Keynes sacrificando del tutto il mercato, le istituzioni democratiche e la libertà di scelta dei cittadini, mentre la seconda, per perseguire lo stesso obiettivo, ha conservato il mercato in regime di un rigido controllo politico, al prezzo della soppressione, sia delle istituzioni democratiche, che della libertà di scelta dei cittadini.
Al termine del secondo conflitto mondiale, con il ricupero della democrazia, ha avuto inizio una fase di modernizzazione degli Stati occidentali, svoltasi nell’arco di un periodo di sostenuta crescita delle loro economie, favorita dalla costruzione di un funzionale sistema di sicurezza sociale e dalla realizzazione di un’equa distribuzione del reddito. Questo periodo, si è protratto per tutto l’arco dei “gloriosi trent’anni 1945-1975”, nella prospettiva della critica keynesiana alla teoria economica tradizionale, mentre le analisi di Polanyi sono state quasi dimenticate, forse per ragioni di opportunità politica; la pubblicazione del saggio dell’economista ungherese, contenendo una radicale critica della regolazione autoritaria del mercato, cadeva in un momento in cui le democrazie occidentali avevano interesse a non “dispiacere” l’URSS, loro alleata contro il fascismo, che aveva scelto la via del socialismo autoritario.
Il processo dei primi trent’anni postbellici è terminato col sopraggiungere di una crisi dell’economia mondiale, a causa dell’instabilità dei mercati energetici e del conseguente disordine valutario. Il perdurare della crisi ha indotto i sostenitori del libero mercato a rinvenirne l’origine nell’eccessivo livello della spesa pubblica, sostenuta per la realizzazione del sistema di sicurezza sociale e per l’attuazione della giustizia sociale. Alla fine degli anni Settanta, i critici dell’interventismo statale, riuniti nel sodalizio della Mont Pelerin Society di Friedrich Hayek e Milton Friedman, approfittando dell’avvento al potere, nel Regno Unito e negli USA, di due personalità politiche aperte alle loro idee, sono riusciti a fare prevalere l’attuazione di politiche neoliberiste.
Tali idee, tuttavia, non negavano che l’attività politica, decisa democraticamente, potesse coordinare l’efficienza economica con la giustizia sociale e la libertà individuale; affermavano però che il problema posto da Keynes poteva essere meglio risolto senza l’intervento regolatore dello Stato. Con ciò, la scienza economica è stata orientata alla ricerca del modo migliore col quale, “finanziarizzando” l’attività economica, le risorse rese disponibili dalla crisi dell’economia reale degli anni Settanta, potevano essere impiegate per riattivare il processo di accumulazione della ricchezza, disgiunta però dalla produzione di beni e servizi reali che da sempre l’aveva resa possibile.
Dalla fine degli anni Settanta, per rilanciare la crescita dell’economia mondiale, le risorse sono state indirizzate verso attività speculative; gli speculatori, principalmente le istituzioni finanziarie, strumentalizzando le idee degli economisti neoliberali, hanno portato a legittimare la convinzione che il modo di migliore per rilanciare la crescita e lo sviluppo dei sistemi sociali in crisi fosse quello di attenuare l’intervento regolatore dello Stato, indicando nei livelli di spesa pubblica destinati al mantenimento del sistema di sicurezza sociale e alla realizzazione della giustizia sociale, la causa prima del basso tasso di accumulazione capitalistica.
Il sopravvento delle idee neoliberiste non è stato privo di conseguenze; la riduzione dell’intervento pubblico e la rimozione di molte regole con cui era stato governato il mercato negli anni precedenti hanno causato effetti negativi, soprattutto sul piano sociale. Di questi effetti hanno approfittato le destre. “Anzi – afferma Salvati -, sembra quasi che tra esse si sia instaurato un perverso gioco di squadra”: prima, la destra liberale ha scatenato gli “animal spirit” del mercato non regolato, che hanno causato sofferenze sociali crescenti e un succedersi di crisi economiche, culminate nel 2007/2008 con lo scoppio della Grande Recessione. A questo punto – continua Salvati – è stata la destra conservatrice e nazionalista a prendere la palla al balzo, indirizzando l’”opposizione sociale secondo i suoi valori e i suoi orientamenti: law and order, nativismo, xenofobia, opposizione ai valori liberali in fatto di sessualità e famiglia, ritorno all’isolamento comunitario”.
Di fronte a questi rivolgimenti sociali, economici e politici, la sinistra è rimasta pressoché assente: perché? Salvati lo spiega in questo modo: “avendo rinunciato al grande programma utopistico del suo lontano passato” e accettato un orizzonte capitalistico, l’unico programma al quale poteva ricorrere la sinistra era “quello socialdemocratico del passato recente, dei trent’anni gloriosi del dopoguerra”. Sennonché, il successo di quel programma era dipeso da una serie di condizioni favorevoli, dovute al fatto che tutti i Paesi che avevano avuto la possibilità di realizzarlo erano collocati nell’orbita dell’egemonia americana. Oggi non è più così, nel senso che, anche quando i Paesi europei decidessero di tornare ad attuare politiche economiche socialdemocratiche, il processo neoliberista di globalizzazione delle economie nazionali lo impedirebbe, per via della necessità che si imporrebbe per tali Paesi di tenere le loro economie e le loro istituzioni adeguate ai livelli di efficienza imposti dalla competizione internazionale.
Pertanto – conclude Salvati –, “sarebbe quasi un miracolo se la sinistra potesse prevalere da sola a livello nazionale” contro il modo di operare del capitalismo internazionale. Molto di più potrebbe essere fatto dall’Europa, se l’intera Unione non fosse egemonizzata dalla Germania, la quale, anziché favorire il ricupero dell’esperienza socialdemocratica del passato, si sta comportando, sotto le mentite spoglie dell’ordoliberismo, come “cinghia di trasmissione” del neoliberismo del capitalismo internazionale. In queste condizioni, è inevitabile il successo della destra tradizionalista e populista, la cui “offerta politica” è, a parere di Salvati, inaccettabile per la sinistra socialdemocratica, se non al prezzo di snaturare del tutto i suoi valori originari. Un’alternativa possibile, in atto in alcuni Paesi europei, che forse sarà inevitabile adottare in Italia, potrebbe essere, secondo Salvati, un’alleanza contro i populismi, tra la sinistra socialdemocratica e le forze più moderate e liberali della destra, sia pure al prezzo dei conflitti programmatici che inevitabilmente essa recherebbe con sé.
Se a tale alleanza dovesse realmente verificarsi, con quali idee la socialdemocrazia italiana andrebbe al tavolo delle trattative programmatiche con la destra liberale, posto che in Italia ne esista una? La risposta all’interrogativo può essere data considerando la responsabilità della socialdemocrazia italiana (ma non solo di essa) per non essere stata in grado di opporsi alle emergenti idee neoliberiste, che hanno poi portato allo stato di crisi attuale.
Alla fine degli anni Settanta, di fronte all’offensiva della destra liberale, la socialdemocrazia italiana, quasi risultando appagata del risultato sino ad allora realizzato (welfare universale e giustizia sociale) ha ceduto alle “lusinghe” dei teorici del nuovo “Labour” di Antony Giddens e di Tony Blair; questi, con la “terza via”, aprendo la socialdemocrazia all’illusione che una maggior libertà del mercato avrebbe consentito la sostituzione del tradizionale compromesso keynesiano tra capitale e lavoro con una nuova alleanza tra portatori di meriti, la cui libera azione avrebbe promosso spontaneamente il cambiamento positivo dell’economia e della società, e coloro che, per ottenere tale cambiamento, avrebbero dovuto lottare; in realtà, la socialdemocrazia italiana ha solo creato le condizioni per una sua omologazione alla destra liberale. Più in generale, se oggi i partititi socialdemocratici dei Paesi membri dell’Unione Europea volessero realmente riscattarsi dal ruolo subalterno all’ideologia neoliberista e ordoliberista, dovrebbero, per un verso, tentare di assumere la leadership del processo di unificazione politica dell’Europa; per un altro verso, tentare di ricuperare i propri valori originari, al fine di elaborare nuove forme organizzative del welfare, più aperte ai problemi della distribuzione del prodotto sociale e più rispondenti alle necessità dei tempi che corrono.
 

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  • 1 Oggi martedì 27 dicembre 2016 | Aladin Pensiero
    27 Dicembre 2016 - 09:45

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