Tonino Dessì: sui mafiosi fermezza politica e rigore costituzionale

29 Ottobre 2019
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Tonino Dessì

Caro Andrea, mi pare opportuno un chiarimento che riterrei utile, se non a noi, a chi leggesse la nostra discussione per trarre spunti di riflessione. Ai tempi del terrorismo fummo molto critici verso la filosofia della “legislazione speciale”, perché ritenevamo che al terrorismo occorresse rispondere con la difesa della democrazia, la cui involuzione era invece auspicata dai terroristi di destra e di sinistra al fine di dimostrare che la loro causa era giusta e che i loro mezzi erano legittimi. Fummo per converso per la “fermezza” nel caso Moro, posizione sulla quale col tempo ho ho maturato dei dubbi, perché in realtà quello che è emerso col tempo era l’intreccio perverso fra terrorismo e deviazioni degli apparati istituzionali e dei servizi di intelligence. Sulla mafia, fermo restando il principio che lo Stato per combatterla non deve a sua volta imbarbarirsi e che anche qui esistono ambiti di contiguità e di complicità politiche e istituzionali che vanno recise, sono più propenso alle misure speciali, purchè applicate specificamente ai mafiosi e purchè non si veda mafia dove invece mafia non c’è, ma altri tipi di criminalità o di delinquenza. Perché se tutto è mafia, nulla è mafia, alla fin fine e le specificità delle strategie anticrimine finiscono per disperdere la loro efficacia mirata. Detto questo, l’ergastolo è l’ergastolo, cioè un’irrevocabile condanna a vita. Credo che la Corte abbia tenuto conto di un aspetto di ragionevolezza, eliminando la preclusione assoluta della concessione di permessi anche a persone la cui pericolosità e i cui contatti con l’organizzazione sia accertato che non sussistono più, quando la preclusione sia motivata col solo fatto che esse non intendono collaborare a ulteriori azioni dello Stato contro quella criminalità. La ragione sta anche in motivi pratici, di gestione del condannato detenuto durante una pena che non è destinata a concludersi se non quando morirà. Un permesso premio può gratificare e incentivate la correttezza dei comportamenti in carcere per il passato e per il futuro. Nulla di più, ma anche nulla di meno. D’altra parte, essendo in genere finalizzati a mantenere rapporti affettivi o famigliari, pretendere che quel tipo di condannati collabori anche con fatti di pentitismo attivo potrebbe comportare che di quei contatti, per effetto di ritorsioni più che probabili, non ne resterebbe in vita nessuno. Perciò l’incentivo (o la coazione) al pentitismo attivo sarebbe destinata a non funzionare affatto. La valutazione viene rimessa non a “un giudice”, ma a un complesso giudiziario nel quale, come sai, intervengono a supportare il giudice preposto alla sorveglianza dell’esecuzione penale anche altri soggetti specificamente competenti. Certo, non si tratta di una questione banale, da affrontare con faciloneria o peggio con imprudente burocratismo. Tuttavia anche questo fa parte della strategia complessiva, non intacca il duro regime restrittivo del 41 bis e può essere perfezionato anche normativamente quanto alla prevenzione di errori. Non siamo quindi tanto distanti, come opinioni. Ma i punti di principio della congruità e della ragionevolezza che fondano le interpretazioni costituzionali vanno sempre ribaditi. Viviamo tempi pericolosi sotto molti profili e quella della tenuta costituzionale dell’ordinamento e della cultura giuridica, tu m’insegni, è una questione fondamentale.

Risposta

Caro Tonino,

In quasi mezzo secolo di attività politica e battaglia culturale in comune abbiamo sempre tenuto la barra dritta su due punti: lotta ferma contro ogni forma di organizzazione segreta e violenta e nel contempo nessun cedimento alla legislazione emergenziale fuori dal rigoroso rispetto del quadro costituzionale. Bene hai fatto a ricordarlo per i lettori che non hanno vissuto la tormentata stagione del terrorismo.
Questi sono gli assi da tenere ben fermi anche oggi. Ma - come hai visto - il terrorismo con quel mix di lotta di massa e richiamo alla Carta è stato battuto. Fu la decisa scesa in campo degli operai delle fabbriche, dopo il vile assassinio del sindacalista comunista  Guido Rossa, a prosciugare il terreno dove i brigatisti ritenevano di poter crescere come pesci nell’acqua. La mafia, invece, è ancora forte e la criminalità organizzata non recede, ma addirittura si estende. Ecco perché il trattamento dei terroristi è più semplice. Pentiti o no, sono meno pericolosi, perché non hanno robusti riferimenti esterni. I mafiosi, invece, ce li hanno, eccome! Il mafioso poi sa nascondere le proprie intenzioni per anni, in attesa del momento propizio per ripassare all’azione. Sono poi scaltri, stanno buoni in carcere. Perché agitarsi senza alcuna utilità pratica? La dissociazione con la collaborazione è l’unico riscontro certo per capire se il mafioso ha voltato pagina. La tranquillità nel comportamento o anche lo studio, fattori sufficienti per premiare un normale carcerato, possono valere per i mafiosi, autori di crimini efferati? E poi, mentre per i carcerati comuni occorre un favor motivato verso le misure premiali, per i mafiosi questo non può esserci.
Quanto alla Costituzione quando, all’art. 27, comma 3, afferma che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”, vuol dire che lo Stato deve creare un’organizzazione protesa a questo risultato. Ma se questo risultato non si raggiunge? L’ergastolo cessa o no? D’accordo, se il risultato è raggiunto o meno non lo può dire la legge in astratto e una volta per tutte, lo deve decidere, caso per caso, il giudice. Ma la legge deve fissare i paletti con rigore. Insomma, credo che la nostra sia e debba essere una Carta mite, come ci ha insegnato Gustavo Zagrebelsky, ma non debole coi criminali e i prepotenti. La mitezza non è e non può essere sinonimo di arrendevolezza verso i forti. E’ l’esatto contrario perché volta a inverare principi di rispetto della persona, di eguaglianza e di democrazia. Ma su questi punti è più facile che un cammello passi nella cruna di una ago che te ed io la pensiamo diversamente.

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