Carbonia. Il fronte interno durante la guerra in miniera e in città si vive così (1942-1943)

16 Febbraio 2020
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Gianna Lai

 


 

Continua la storia di Carbonia iniziata su questo blog il 1° settembre.

‘Molti operai si rifiutano di rendere come prima, dicendo che l’esaurimento fisico non permette loro di lavorare per 8 ore con martelli e picconi, che richiedono una costante forza muscolare. Anche le donne brontolano perché non sanno come sfamare i figli’, cita G.Giacomo Ortu da un documento della polizia politica del 1942. Se anche la malaria continua a imperversare, per il venir meno delle opere di bonifica, è la scarsezza di cibo, un razionamento drastico, a causare tanto ‘disimpegno’: ‘è necessario migliorare l’alimentazione poiché nei mesi di luglio e di agosto nel Sulcis si è sofferta la fame’, comunica il presidente ACaI nel Promemoria del settembre ‘42 al duce,’ pur rimanendo inalterato il ritmo di produzione grazie allo spirito di sacrificio  e di dedizione (sic!) dei minatori’.
Siamo alla fine del ‘42, sempre più difficile la vita in città: e già più allarmanti, nei primi mesi del ‘43  le relazioni del presidente Todini della Cooperativa di consumo SMCS,  sulla situazione alimentare, essendo giunte ai panifici solo la metà delle scorte di grano assegnate alla città, sì da imporre  l’abolizione di tutti i supplementi e la riduzione delle razioni a 150 grammi giornalieri,  come nel resto d’Italia, 300 per i minatori. I quali ricevevano all’ingresso della miniera 100 grammi di formaggio salato e altri 100 grammi di pane, poiché il razionamento alimentare fissava a meno di un migliaio di calorie la razione individuale giornaliera, facendo eccezione solo per gli addetti ai lavori pesanti. Venuta quasi del tutto meno l’agricoltura in zona, ferme definitivamente le navi noleggiate dall’ACaI, prosegue il blocco dei trasporti nel Tirreno ad impedire il rifornimento dei generi di prima necessità nel Sulcis. E intanto i servizi di polizia annonaria non sono più in grado di  assicurare la distribuzione delle poche risorse rimaste, gli operai in miniera privi addirittura di calzature e di vestiario appena decenti. Il latte arriva dagli allevatori, che stanno a oltre 200 km. di distanza  dalla città, essendo ben poca cosa la produzione dell’Azienda agraria dell’ACaI, come sottolinea  sempre il presidente Todini della Cooperativa di consumo SMCS, nella sua Relazione del 1943. Mentre il  mancato approvvigionamento, può mettere in pericolo l’ordine pubblico, ‘forte  malumore tra le maestranze, aggravato dal panico per le incursioni aeree e i continui allarmi quotidiani’.
Probabilmente non gradito per la franchezza degli interventi sulla città e sui suoi abitanti, viene rimosso dalla carica, proprio durante quei mesi, il podestà Pitzurra e sostituito con Vitale Piga, podestà camicia nera, fascista della prim’ora, di incondizionata fedeltà al regime: da lui e dal  Prefetto di Cagliari Leone, nel dicembre del 1942, l’auspicio di un magnifico futuro per la città, nonostante la condizione terribile in cui versano i lavoratori, ‘Carbonia innalza il suo gagliardetto e la sua anima verso di voi, o Duce, che con profetica visone e ferma decisione ne avete decretato la nascita e guidato il rapido imponente sviluppo. Carbonia fascistissima con i suoi 45 mila abitanti, presidiata dal cuore dei suoi 13 mila minatori, terrà duro e marcerà fino ed oltre la vittoria’. Tale, a quel tempo, la crescita degli abitanti prevista in città dai dirigenti  locali, in risposta al regime che continuava a imporre e a ordinare,  nel breve tempo, un aumento massiccio della produzione di Sulcis.
A darci un quadro reale dello stato delle cose, le parole di SergioTurone, ‘il grave disagio avvertito per il razionamento, il lievitare continuo dei prezzi e, più in generale, il malcontento per una guerra già all’inzio non sentita e che si protraeva assai oltre le previsioni dell’ottimismo ufficiale, finirono per provocare le  prime smagliature nell’ordine repressivo in cui il paese giaceva da quasi due decenni’. E nel febbraio del 1943 la catastrofica sconfitta tedesca a Stalingrado e la disastrosa fine dell’ARMIR, l’Armata Italiana in Russia, ad accentuare ‘il distacco dell’opinione pubblica  dal regime fascista’,  mentre il conflitto, dopo l’intervento dell’esercito americano, volge a favore degli alleati anche in Africa. Così gli scioperi del marzo 1943,  le motivazioni salariali e politiche,  contro l’allungamento della giornata lavorativa a dodici ore, contro la fame e contro il terrore, sono il segnale di una nuova raggiunta ‘unità dei lavoratori tipica  dell’azione generale condotta dai Comitati di Liberazione Nazionale’, il segnale del ‘naufragio del regime, del vantato sistema corporativo su cui esso aveva preteso di fondare la struttura sociale paese’. Perché le restrizioni della guerra non avevano fatto altro che ‘mettere a nudo le conseguenze catastrofiche politiche,  economiche e sindacali del regime, fondato su due cardini, sviluppo delle industrie private e contenimento della domanda interna, attraverso lo stretto controllo delle retribuzioni’. Senza impedire tuttavia che il deficit dello Stato  raggiungesse  gli  84,785 milioni di lire  negli anni 1942-43, fino a portare ‘la pressione a limiti intollerabili’.
E a Carbonia? Già agli inizi della guerra ‘anche a Carbonia sono incominciati segni di lagnanze specie nella numerosa classe impiegatizia. A ciò sembrano aver contribuito alcune azioni di rappresaglia adottate dai dirigenti di quel Fascio (somministrazione di olio di ricino), contro alcuni operai’. Così Ignazio Delogu, che riporta le fonti documentarie della polizia politica in città, nel corso del 1940: ancora quelli, diciamo così, tradizionali, i metodi autoritari e violenti del regime, mentre  si fa via via  più capillare la vigilanza e più oppressiva, di fronte alla insofferenza operaia, ad impedire ogni possibile forma di protesta in miniera e in città. Vi svolge un ruolo fondamentale il sindacato  fascista, mai dalla parte degli operai, mai impegnato a difenderli seriamente di fronte all’azienda, ad alleviarne le sofferenze, a garantirne servizi alle famiglie. Il responsabile Tito Morosini,  pur richiedendo nei suoi Rapporti,  condizioni di vita meno indecenti per i lavoratori, è vera espressione del potere politico, espressione di una ideologia del ’sindacato misto’, come lo intendevano i fascisti che, nell’interesse della comunità, avrebbe dovuto conciliare gli interessi, invece del tutto opposti, degli imprenditori e delle maestranze. E garante di una struttura, ‘già alla fine degli anni venti priva di ogni autonomia decisionale ed ormai sotto il rigido controllo di prefetti, questori e podestà’, che avevano il compito di ‘far dipendere direttamente dallo Stato le organizzazioni di massa’, come dice Vittorio Foa, in ‘Sindacati e lotte sociali’.  Impossibile la protesta in quel tempo, se non nei luoghi dove esistono organizzazioni clandestine politiche e sindacali di opposizione,  dice  ancora Vittorio Foa, riferendosi, in generale, alle condizioni delle fabbriche italiane del Nord, durante i mesi degli scioperi nel triangolo industriale. Impossibile a Carbonia, come invece taluni hanno scritto, attribuendone la paternità al sindacalista del fascio Morosini, che avrebbe organizzato la protesta il 2 maggio del 1942: proprio nella settimana che precede l’arrivo di Mussolini a Carbonia e in Sardegna, una protesta, o sciopero che sia, organizzata dal responsabile dei sindacati fascisti! Ma, innanziutto, esclusa categoricamente  dagli operai intervistati, che già lavoravano in miniera durante il fascismo, e poi, senza soluzione di continuità, nel dopoguerra,  quando sì, proprio allora, avrebbero cominciato a svilupparsi le prime forme di protesta organizzata. Essi dichiarano: ‘eravamo dipendenti di una fabbrica militarizzata e negli anni della guerra, quando la città soffriva per la scarsità delle razioni alimentari, era lesa maestà persino lamentarsi di avere fame, finivi dritto dritto alla VII^ Delegazione che, proprio per questo, aveva sede in miniera. Il controllo rigidissimo, dal momento in cui si consegnava all’ufficio del medagliere la medaglia col nostro numero di matricola, aveva termine solo alla fine del turno. Ed inoltre, noi operai, eravamo in contatto solo con i componenti la squadra che, per il continuo via vai delle maestranze in città, cambiavano molto spesso. Nessuna possibilità di protesta o di organizzazione  di alcun genere, se si eccettua qualche ‘reclamo’ o contestazione contro le decurtazioni salariali. Anche se  il trattamento riservato alle maestranze  in miniera, conseguenza della politica fascista e della guerra, causava  fiera avversione, in particolare contro la dirigenza, i capi servizio e i sorveglianti’. E’ la testimonianza di un gruppo di lavoratori già  in miniera durante la guerra e  tra i più impegnati nelle lotte operaie del dopoguerra, anni cinquanta e sessanta: dirigenti sindacali e rappresentanti di commissioni interne, e poi dirigenti dei pensionati CGIL, presso la Camera del lavoro cittadina. Giorgio Figus di Nuxis, dal 1937 operaio nella escavazione dei pozzi di Serbariu e poi minatore a Nuraxeddu, Vittorio Lai, dal 1 febbraio del 1938 a Carbonia, operaio nella miniera di Nuraxeddu, Giuseppe Atzori, operaio presso l’officina di Serbariu nell’ottobre del 1942, Vincenzo Cutaia, minatore, prima ad Iglesias, dal 1944 a Carbonia, e Vincenzo Pirastru, uno dei fondatori del Partito comunista in città.  Della stessa opinione Pietro Cocco, sindaco comunista di Carbonia per lungo tempo, in un’intervista rilasciata a Sandro Ruju, ‘il sindacato fascista a Carbonia non aveva avuto neppure il tempo di attecchire, e nel 1943 si sciolse di colpo senza lasciare alcuna traccia. Nel 1942 c’era stata sì una protesta, guidata  da un sindacalista fascista, un certo Morosini, ma non fu un vero sciopero e neppure una grossa cosa, anche perché allora le miniere erano militarizzate e quindi vigeva una disciplina di ferro’. E c’era poi,  ben poco da fidarsi dei sindacati fascisti, così prosegue l’intervista di Sandro Ruju, gli operai più consapevoli, quelli che venivano dalla miniera di Bacu Abis e di Gonnesa, li conoscevano bene, avendoli visti all’opera come gestori della miniera, in occasione del suo fallimento nel 1934, e sapevano, gli stessi operai, ‘in che modo erano state risarcite le giornate di lavoro non pagate, vale a dire con piatti, pentole e altri avanzi degli spacci di quella gestione sindacale’, conclude Pietro Cocco.Testimoninze suffragate dai documenti prefettizi, ‘a Carbonia e a Montevecchio, assegnati degli operai precettati civilmente, che  non hanno accettato di entrare in miniera: sono stati immeditamente  denunciati al Tribunale militare’;
con i carabinieri sempre alle costole, i lavoratori della provincia, ‘le molto compiacenti casse malattie hanno creato nella classe operaia una mentalità oziosa. Bisogna imporre a tutti la mobilitazione civile’. E così tutta la documentazione del Prefetto di Cagliari al Ministro dell’interno, molto precisa sulle condizioni dell’ordine pubblico e della repressione delle ‘attività sovversive’, che niente dice, nella Relazione del giugno 1942, dedicata al mese di maggio, sul preteso sciopero di Carbonia, semmai tutta dedicata  al ‘Radioso maggio per la visita del duce’. A dar credito a tali annedoti su scioperi o manifestazioni di dissenso,  sembrerebbe  quasi non volersi  riconoscere quanto i minatori fossero privi di alcuna difesa da parte dei sindacati e delle altre istituzioni, preposte esclusivamente a funzioni di controllo rigido e iniquo. Perciò bisognerà attendere gli ultimi mesi del 1943, i primi del ‘44, per  assistere alla vera protesta in miniera, segnata dalla nascita  di un nuovo e consapevole movimento operaio organizzato, nei luoghi di lavoro e in città.

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