Mio padre, schiavo di Hitler

26 Aprile 2020
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Gianfranco Meleddu

Mio padre Ignazio Meleddu, nato il 22 febbraio 1923, ha scritto un libro sulla sua vita per regalarlo a tutti noi figli e nipoti. Di seguito riporto alcuni estratti riguardanti la prigionia
Partì nell’agosto del 1940 a 17 anni, tornò nel luglio del 1945 a 22 anni
Mio padre il 25 luglio 1943, si trovava a Tirana, caporal maggiore genio marconisti
La notizia di quel 25 luglio si diffuse rapidamente creando euforia in tutti noi ed in tutti i reparti che erano nelle vicinanze: cavalleria, autocentro, fanteria, genio guastatori ecc. ecc. C’era anche un distaccamento di camicie nere, purtroppo queste erano ormai allo sbando e molte venivano da noi cercando una divisa dell’esercito per sottrarsi così alle possibile rappresaglie che i ribelli, tra i civili del luogo, potevano perpetrare in qualsiasi momento e pareggiando così il conto. Erano patetici, e sembravano cani bastonati. La loro posizione era veramente critica.
La corrispondenza con i miei familiari era sempre meno frequente, a causa appunto della scarsità dei mezzi di trasporto e per la distanza che ci separava. Quando aprivo la busta per apprendere le notizie, il più delle volte mi trovavo tra le mani un foglio di carta in cui leggevo solo stiamo bene con i soliti saluti; tutto il resto era sotto uno strato d’inchiostro di china. Alla censura non sfuggiva niente. Forse mio padre voleva informarmi in quale situazione si trovavano e come stavano affrontando quel periodo di carestia con una famiglia numerosa da mantenere. Io dovevo adeguarmi a quei provvedimenti e non indicare mai la località in cui mi trovavo [infatti il mio indirizzo dopo nome e cognome terminava con un P. M 22.(Posta Militare)]. Quel numero stava per Tirana.
8 settembre 1943
I nostri ufficiali ci consigliarono di restare calmi restando uniti, di evitare ogni azione che avrebbe potuto essere compromettente per la nostra incolumità. L’aeroporto fu il primo ad essere passato sotto il comando tedesco. Arrivavano aerei a tutte le ore carichi di mezzi e di uomini. Due giorni dopo la resa, vennero in reparto tre ufficiali tedeschi, ci riunirono con i nostri ufficiali, e, tramite un interprete con un discorso che non lasciava nessuna speranza di libertà e rientro in patria, ci dissero: Volete venire con noi o seguire la sorte? Nessuno alzò la mano. La risposta era ovvia: Seguire la sorte! Così avvenne la resa. Alcuni, degli altri reparti, seguirono i tedeschi, ma finirono per fare gli attendenti dei soldati. Che umiliazione! I ribelli vista la mala parata chiedevano con insistenza di unirsi a loro; certi scapparono in montagna e nessuno del nostro reparto ha saputo la fine che abbiano fatto. Alcuni autisti sabotarono diversi mezzi versando dello zucchero nella benzina ingrippando così i motori, ma per loro non fu una buona trovata perché i tedeschi li costrinsero alle riparazioni. Intanto i nuovi occupanti si davano da fare accostando i camion ai negozi d’ogni genere, fermando i passanti e costringendoli a trasbordare le mercanzie, facendo razzie, lasciando dietro solo miseria e dolore. I magazzini di vestiario dei nostri reparti furono subito presi d’assalto, ancor prima che arrivassero i nuovi padroni. Per le camicie nere fu una manna. Restammo un paio di giorni in attesa di ordini. Nessuno doveva mancare, eravamo contati, pena la decimazione. Il giorno 20, sempre di quel mese, gli ufficiali c’informarono che all’indomani si partiva per destinazione ignota con i mezzi a disposizione purtroppo esigui per tutti i reparti in trasferimento. Alcuni dicevano che si rientrava in Italia via terra, altri che ormai il nostro destino era segnato: eravamo prigionieri e quindi destinati ai campi di concentramento nazisti.
La partenza avvenne puntuale, come da programma, gli autocarri erano stracolmi e si faceva il percorso a tappe forzate. In testa alla colonna c’era un lancia RO, quel mezzo a gomme piene risalente alla prima guerra mondiale, carico di viveri, con cucina da campo e cuochi che una volta al giorno ci preparavano un po’ di minestra. Per ogni tappa i mezzi tornavano indietro per trasportare il resto della truppa e questa spola durò un paio di giorni. A me capitò di viaggiare al primo turno e trovai posto sopra la cabina legandomi con lo zaino alla sponda. Le armi dovevamo tenerle e deporle dietro loro ordine.
……..
Arrivo a Vienna, passando attraverso la Bulgaria
Restammo in attesa di ordini, ma non per molto perché arrivarono quasi subito un paio di ufficiali tedeschi con molti soldati; ci fecero sbarcare ed in fila indiana con zaino in spalla ci accompagnarono al treno che era poco distante. Quelle guardie armate cominciarono a borbottare sgridandoci, ma non ottenendo ciò che loro desideravano, perché noi non conoscevamo la loro lingua, ci spintonavano buttandoci dentro i carri bestiame. Eravamo chiusi al buio ed ammassati come bestie. Come al solito: destinazione ignota. Dopo molte ore di sofferenze trascorse al buio ed al continuo rumore assordante del convoglio, aprirono la grande porta e ci fecero scendere. Finalmente si respirava liberamente quell’aria fresca a pieni polmoni e notammo che era mattino, perché essendo stati chiusi al buio così a lungo, avevamo perso la cognizione del tempo. Eravamo arrivati alla stazione di Linz. Nuovamente in marcia, zaino in spalla ed in fila indiana ci accompagnarono in un posto poco distante, alla periferia della città. L’organizzazione era perfetta: i militari che ci avevano scortato da Vienna, dopo averci contato, ci consegnavano ai loro colleghi. Eravamo considerati come merce a buon mercato. Fummo introdotti in una grande sala e qui nuovamente una perquisizione. Io avevo ancora tre scatolette, due me le portarono via. Tutti gli indumenti compresi quelli che avevamo addosso dovevano essere sistemati nello zaino perché andavano in un’apposita sala per la disinfestazione. Ci portarono via le scarpe (le mie erano nuove) consegnandocene un tipo con le suole di legno e le tomaie di stoffa. Il mio nome venne sostituito con un numero ( 1613 ) preceduto da due lettere K G (Prigioniero di guerra in tedesco). Con le nuove scarpe camminavo malamente e quindi con fatica, avevo la sensazione di avere i piedi ingessati, ma purtroppo dovevo sopportare, sperando di abituarmi quanto prima. Finalmente, dopo tanti giorni senza un pasto caldo, arrivò una bella zuppa di verdura ed una fetta di pane nero da grammi cinquanta.
…….
Al campo di concentramento di Linz
Ogni tanto, da questo campo base, partivano gruppi di nostri compagni, destinati chissà dove e noi, ex lavoratori delle ferrovie, aspettavamo con la speranza di essere assegnati a un lavoro meno faticoso possibile. Partimmo per ultimi, destinati ad un campo di concentramento vicino alla ferrovia, denominato “ S. Martino” Lager 1102/ G. W. 398/ Linz. Ma quale impressione ebbi nel vedere i miei connazionali che lì alloggiavano da diversi giorni: i loro racconti non erano per niente incoraggianti. Eravamo 700, sistemati in tante baracche a loro volta divise in tanti scomparti con la capienza per trenta persone, con brande a castello ed al centro una stufa. Io e l’amico Mario Coarelli, che era anche l’unico collega rimasto della compagnia marconisti, ci sistemammo uno vicino all’altro ed ascoltando dai nostri compagni, che ci avevano preceduti, come si svolgeva la vita in quel campo e come era organizzato il lavoro, ci apprestammo, a malincuore e con rassegnazione, a quel modo di vivere cui stavamo andando incontro.
Tutti gli occupanti di quel Lager erano adibiti a diversi lavori: manutenzione della rete ferroviaria, costruzioni rifugi antiaerei, distribuzione di carbone per riscaldamento alle famiglie che ne facevano richiesta, però il maggior numero lavorava nella rimessa delle locomotive e questi facevano anche il turno di notte.
Io come tanti altri, iniziai il lavoro il 1° Novembre del 1943. Sveglia alle sei, un po’ di acqua sporca ed una focaccina da dividere in quattro. Per fare le parti uguali avevamo costruito una bilancina con dei pezzetti di legno e dello spago; la quantità era sì e no cento grammi, e questa era la razione per ventiquattr’ore.
…..
maggio 1944
RICOVERO IN OSPEDALE
Una mattina, mentre eravamo in fila per andare al lavoro, un mio compagno mi disse: ma tu sei ammalato! Non te ne accorgi? Sì, risposi, mi sento un po’ strano. Lo credo bene, riprese, sei giallo come un limone maturo! Eravamo in piena primavera ed io avevo attribuito quel senso di malessere proprio alla nuova stagione, invece ero affetto da ittero. Marcai visita e stetti a riposo per alcuni giorni nel campo ma, non riscontrando nessun miglioramento, mi ricoverarono in ospedale da campo di Haide/Linz.
In quel posto patii veramente una fame che non dimenticherò mai. Mi davano una pappa molto densa e dolce in una tazza da un quarto, ma il contenuto di solito non arrivava alla metà del recipiente e questo per tre volte al giorno e cento grammi di pane nero per soddisfare l’appetito dell’intera giornata. Dicevano che, essendo ammalati e quindi stando a riposo, quel vitto era più che sufficiente per nutrire il nostro organismo. La degenza durò ben quindici giorni; per me era un’eternità, il tempo sembrava fermo e aspettavo con ansia la fine di quel calvario. Finalmente al termine del quindicesimo giorno, mi trasferirono a Pupping, comando base dei campi di concentramento di quella zona. Il capitano medico, che parlava un po’ l’italiano, c’informò che c’erano disposizioni, al termine del ricovero, per quelli provenienti dell’Albania in quanto zona malarica. Si poteva scegliere: rientrare in campo oppure andare a lavorare con i contadini. Ascoltando quelle parole mi sembrava di sognare, mi vedevo già in mezzo ai campi lontano dal filo spinato, e non più guardato a vista da soldati in armi.
L’arrivo nella fattoria
(Nel parlare della fattoria ha sempre usato i termini “il padrone” e “la padrona”)
Avevo appena deposto lo zaino in camera quando il padrone senza perdere tempo disse: Prendi quella zappa e vai giù al campo delle patate, la c’è la padrona con un’altra persona, ti unirai a loro nel lavoro. Ero stanco ed affamato ma, ormai rassegnato, presi la zappa e con un nodo alla gola andai sul posto che mi era stato indicato.
Dopo un’ora circa di lavoro la padrona disse: E’ ora di merenda. Erano le quattro e di consuetudine s’interrompe il lavoro quasi sempre a metà sera per mangiare e riposare. Quelle parole mi deliziarono enormemente, perché ero veramente all’estremo delle forze e non poteva essere diversamente considerando che ero convalescente di una recente malattia e mezzo distrutto da un viaggio a dir poco massacrante. Finalmente tutti a tavola; il cibo era abbondante: pane, burro, salumi di proprietà e sidro. Feci conoscenza con la famiglia che comprendeva il padrone, la moglie di nome Teresa, però di solito la chiamavano Res, un bambino, loro figlio, di cinque anni chiamato Franz come il padre, una ragazza ucraina, anch’essa deportata, di nome Maria. Si aveva tanta voglia di dialogare di sapere, di conoscerci; loro non capivano una parola della mia lingua ed io cercavo, con quelle poche anzi pochissime parole che sapevo, aiutandomi anche a cenni, di interloquire. Quel primo pasto lo ricorderò sempre, perché dopo tanto tempo avevo finalmente potuto soddisfare quell’appetito che era fisso in me nelle ventiquattr’ore. Per riprendere la zappa, non c’era più tempo perché era già ora di governare le bestie.
PRIMAVERA DEL ‘45
Eravamo verso la metà del mese di Aprile, i bombardamenti si facevano sempre più intensi. In quella casa non avevano la radio, ma il passaparola era frequente con le notizie sull’andamento degli eventi bellici. Però erano notizie che facevano sperare la fine di tanto orrore, molto vicina.
In quei giorni di fine Aprile, nevicò tanto da coprire ogni cosa con un manto molto spesso che non impedì quel frenetico movimento di mezzi e di persone. Dalla strada principale che costeggiava il lago si percepiva un cupo rumore continuo, anche durante la notte. Erano militari con prigionieri e deportati in fuga dal fronte russo. Anche i treni viaggiavano a pieno carico con gli sfollati che cercavano una nuova sistemazione ad Ovest. Ormai il cerchio stava per chiudersi e la fine era imminente. Il primo Maggio transitarono da noi un gruppo di ragazze che prestavano servizio nell’aeronautica, erano circa trecento; anche loro, scappavano dal fronte. La responsabile le sistemò in diverse case agricole. Con loro c’era un soldato incaricato per il trasporto degli zaini ammassati su di una carretta trainata da un cavallo. La padrona fu costretta ad alloggiarne un centinaio, tutte tra i 18 ed i 21 anni. La casa era completamente invasa: il pagliaio, il fienile, dentro casa nell’andito e persino in cucina. Tutto era invaso con una confusione incredibile. Due giorni dopo partirono. Erano allo sbaraglio e stavano andando incontro agli americani che avanzavano dalla parte opposta. Ma, per quello che avevo potuto capire, era già programmato lo scioglimento della compagnia, di conseguenza prima di trovarsi di fronte agli americani, erano libere di abbandonare il reparto e rientrare alle proprie residenze. La padrona di casa, inutile dirlo, alla loro partenza, tirò un grosso sospiro di sollievo. Per fortuna quella specie di tornado durò poco. Io gioivo, ovviamente, perché tutto quel trambusto per me era l’anticamera della libertà che supponevo vicinissima. La strada principale continuava ad essere intasata con automezzi in transito di ogni tipo che, cercando rifugio il più lontano possibile dal fronte russo, andavano verso la cittadina di Ebensee.
Il 4 Maggio, la neve ormai era sciolta ed il tempo volgeva al bello, ciò che c’era di meno bello erano i rumori assordanti dei motori degli aerei e le esplosioni delle bombe che, in quel giorno stavano bombardando il nodo ferroviario della stazione di Atnag, distante da noi una ventina di chilometri. Qualche giorno dopo si udirono molto distintamente i cannoni e questo voleva dire che il fronte dei belligeranti si stava avvicinando.
FINE DELLA GUERRA
Quella mattina dell’8 Maggio del 1945, mentre iniziavo il solito lavoro nella stalla dei buoi, fui sorpreso di non udire più quei rumori molesti che per tanto tempo ero stato costretto a sopportare. C’era un silenzio tombale. La strada era deserta, i treni non viaggiavano. Tutto era fermo, si udiva solo il mugghiare delle bestie. Pensai subito che qualcosa di eccezionale doveva essere successo. Non osai pronunciar parola con i padroni, ma in cuor mio speravo con ardore che quell’intuizione fosse realtà. Ancora non era mezzogiorno e finalmente il passaparola arrivò anche da noi: la guerra era finita! Sia ringraziato Dio e tutti i Santi del Paradiso. La gioia fu tanta, gli abbracci si sprecarono. Alla sera i rumori provenienti dalla strada si intensificarono ma, questa volta erano gli americani con i loro mezzi grandi e piccoli; che si dirigevano in senso contrario a quello che era stato dei tedeschi e cioè da Ebensee verso Gmunden. Non ammettevano impedimenti: gli ostacoli venivano subito rimossi con facilità, gettati, in certi casi, anche a bordo strada. La confusione era veramente tanta. I soldati tedeschi avevano abbandonato la divisa e cercavano in qualche maniera di fare ritorno alle proprie famiglie. I prigionieri, deportati civili e militari, avendo riacquistato la libertà, cercavano di scappare in direzione della propria patria. Russi, polacchi, ungheresi andavano verso Est, mentre italiani, spagnoli, francesi e belgi marciavano verso Ovest. Tutte le strade sembravano formicai. Però questa bolgia fu sedata in poco tempo dagli americani che presero i fuggiaschi sotto la loro protezione, sistemandoli nelle baracche ad Ebensee. Io mi sentivo libero, però non osavo lasciare il lavoro in quella famiglia che, nonostante tutto, mi aveva trattato bene. Per questo sentivo in coscienza dover restare fino al momento del rientro in Patria.
Ormai gli alleati avevano preso possesso del comando nei locali del comune di Altmunster. Dopo qualche giorno, mi recai per chiedere come dovevo comportarmi riguardo alla mia posizione in quella famiglia e quando sarebbe stato il rimpatrio. Il comandante era un ufficiale che parlava il barese, ma quella città non la conosceva. Aveva imparato la lingua dei genitori immigrati all’inizio del 1900 e questa volta aveva buona speranza di conoscere anche i vecchi parenti. Dopo aver parlato del più e del meno, mi disse: Tu sei libero, agisci secondo coscienza e pazienta ancora un po’, quando sarà il tuo turno penseremo noi a contattarti. In questi giorni sono di partenza francesi, belgi e spagnoli, a seguire tutti gli altri delle altre nazioni, secondo l’ordine in cui furono catturati.
Il 1° luglio 1945 l’incrociatore Garibaldi lo riportò a Cagliari

1 commento

  • 1 Giorgio
    26 Aprile 2020 - 17:32

    La frase più bella è:  ”non osavo lasciare il lavoro in quella famiglia che, nonostante tutto, mi aveva trattato bene”.
    Forse è questa l’essenza di tutto quel dramma. Una guerra voluta dai potenti delle nazioni a danno dei popoli, di tutti i popoli, di quelle stesse nazioni che sono stati vittime di quella follia

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