Carbonia. Le miniere per la Ricostruzione

26 Aprile 2020
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Gianna Lai

Un nuovo momento della storia di Carbonia, come ogni domenica dal 1° settembre.

Nell’Ottobre del 1943 il governo Badoglio e il Comando militare delle forze armate alleate  riattivano la produzione delle miniere di Carbonia, da mesi molti i pozzi allagati o in stato di abbandono, destinata alle truppe alleate stesse e all’industria di guerra nei territori liberati. Certo modesto fu, con le sue 400.000 tonnellate estratte nel corso
del 1944, il contributo del Sulcis al fabbisogno energetico  del Mezzogiorno d’Italia, se consideriamo che negli anni 1941-42, i consumi del paese  toccarono all’incirca i 16 milioni di tonnellate, avendo anche Carbonia raggiunto allora il  massimo, col suo milione di combustibile prodotto. E tuttavia le difficoltà, in pieno conflitto, di approvvigionarsi dall’estero e la perdita delle miniere dell’Arsa, imponevano ad alleati e autorità statali di puntare ancora sulle miniere del Sulcis, la cui produzione, perciò, nel solco già tracciato dal velleitarismo autarchico dei programmi mussoliniani, sarebbe stata ancora finalizzata all’emergenza bellica. Non esprimendo, del resto, il governo del Sud, durante l’occupazione alleata, alcun piano di razionale sfruttamento delle coltivazioni, che potesse farne prevedere la sopravvivenza oltre la fine della guerra stessa. Il Sulcis e le zone minerarie furono, per questo, le uniche località sarde sottoposte, dopo l’8 settembre, a regime di occupazione da parte degli eserciti alleati, che fino al 1945 ne controllarono direttamente la ripresa e ne riavviarono il processo estrattivo, solo in parte più moderno, rispetto a quello degli anni precedenti, grazie all’introduzione di macchinari americani, come leggiamo su L’Unione sarda del 31 marzo 1945, nell’articolo intitolato ‘La Sardegna può dare carbone per tre milioni di tonnellate l’anno’.
Sempre subordinata alla congiuntura economica mondiale e agli eventi bellici, improvvisati come sempre e di scarso respiro i programmi, l’azienda non fu neanche allora in grado di garantire profitti, a causa della scadente materia prima,  come sostenevano gli stessi americani, non lasciando così intravvedere niente di buono sul futuro di quel territorio. Come possiamo leggere in Maria Rosa Cardia su Nuova Rinascita Sarda del maggio 1988, le parole  del Commissario regionale alleato J. K. Dunlop, già nel gennaio del 1944,  sono abbastanza chiare: il carbone Sulcis, da annoverare tra le antraciti e le ligniti, ‘è estremamente scarso qualitativamente e può essere usato solo per limitate utilizzazioni’. Al punto che in Sardegna ‘molto carbone deve essere importato, per un tonnellaggio pari a un terzo di quello esportato’, al punto che ‘lo zinco, il prodotto minerale più importante dell’isola, deve essere esportato sopratutto al suo stato grezzo per la carenza di carbone adatto o di una potenza idrolettrica adatta a lavorarlo’. E sarà subito dopo l’Alto commissario a lanciare il grido d’aiuto, ’se le miniere carbonifere hanno potuto resistere alla tremenda crisi e mantenere una produzione sia pure ridotta ed a costo assolutamnete antieconomico, ciò è perché gli Alleati le hanno assistite e sorrette……è necessario non lasciar morire le miniere, ma conservare alla Nazione questo patrimonio che, seppure non è di primo piano nel quadro dell’industria italiana, tuttavia è sempre di grande rilievo’. Ritenendo l’Alto Commissario indispensabile, per  la ripresa industriale complessiva,  garantire provvidenze, approvvigionamento di materie prime, attraverso la collaborazione degli alleati, insieme alla ‘creazione di un mercato  di minerali e metalli basato su prezzi equi, che consentano una migliore retribuzione delle maestranze’.
Ma i nodi sarebbero presto venuti al pettine. Per il momento si trattava, innanzitutto, di formare una direzione ex novo ed un gruppo di tecnici da sostituire ai vecchi collaboratori,  dopo che l’Azienda Carboni Italiani, sciogliendo i suoi organismi, per trasferirsi nei territori della Repubblica di Salò occupati dall’esercito tedesco, aveva rotto ogni rapporto con la Società Mineraria Carbonifera Sarda, sua affiliata isolana. E si trattava, sopratutto, di procedere in breve tempo alla riassunzione delle migliaia di operai, che avevano in massa abbandonato Carbonia a partire dal marzo del 1943, quando si erano verificati i primi spezzonamenti sulla città e l’ACaI aveva dovuto ridurre drasticamente l’attività produttiva, per il blocco delle comunicazioni stesse e il venir meno degli imbarchi di Sulcis verso i porti della Penisola.
Perciò, il 1 novembre del 1943, la Commissione Alleata, che gestiva anche le miniere del bacino metallifero dell’Iglesiente-Guspinese e che definiva i prezzi di vendita e il commercio stesso dei relativi prodotti, senza possibilità di intervento alcuno da parte di altra autorità isolana, compresol’Alto Commissario, istituì la Divisione per le miniere dell’ACaI, un distaccamento del quale aveva sede in città, guidato dal capo Divisione alleato per le miniere di Carbonia, il maggiore Max E. Mattews. Mentre il governo Badoglio incaricava, nel mese successivo, l’ingegner Bruno Sanna di esaminare la situazione mineraria della Sardegna, nominandolo, nell’aprile del 1944, Commissario governativo per la SMCS e per l’ACaI.
Si può dire che i cantieri di Bacu Abis, Cortoghiana Vecchia, Tanas, Sirai e Serbariu ripresero a funzionare solo dopo la riattivazione della Centrale termoelettrica di Santa Caterina, la ripresa del Porto di Sant’Antioco  e dello scalo ferroviario di Iglesias, presso i quali veniva imbarcato il carbone per raggiungere le industrie sarde e i porti di Palermo e Napoli. In Sardegna destinato agli impianti termoelettrici della SES, alle Ferrovie dello Stato, al cementificio. Così nel novembre del 1943 vennero estratte dalle miniere sulcitane 7.500 tonnellate di carbone, ma già 34.000 nel dicembre  e 41.000 nel gennaio del ‘44, essendo l’organico dell’azienda ormai formato da quasi 4.000 lavoratori in pianta stabile.   Già negli ultimi mesi di quell’anno l’azienda aveva infatti disposto un numero tale di nuove assunzioni da potere garantire,  in poco tempo, le richieste degli Alleati. 5 mila gli operai nei cantieri alla fine dello stesso anno, pur nella continua richiesta al governo Bonomi, da parte delle forze di occupazione, in particolare nella persona del maggiore Elley W. Stone, di altri 2000 lavoratori, da assumere ancora nel corso del 1945. Intanto, su sollecitazione del ministro del Tesoro, la Presidenza del Consiglio dei ministri portava  da 20 a 30 milioni le sovvenzioni per la SMCS del mese di novembre e a 50 quelle di dicembre 1944, essendo le scorte finanziarie  dell’azienda, al momento della riapertura dei pozzi, ridottesi ad  appena 3milioni e 950 mila lire,  mentre i debiti ammontavano a oltre 43milioni e 500 mila lire. Sicché il bilancio del 1943 si sarebbe chiuso  con una perdita di 200milioni di lire, una volta vendute,  pur quasi combuste, le 70mila tonnellate di carbone, ancora  giacenti  da mesi nel porto di Sant’Antioco.

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