Carbonia. Nelle miniere, dopo la nascita della Repubblica, “l’inferno nero”

28 Febbraio 2021
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Gianna Lai

Continua la storia “domenicale” di Carbonia, iniziata il 1° settembre 2019.

Le gabbie conducono i minatori a ‘meno 400′, robuste  sbarre di ferro composte di due piani, ciascuno dei quali può contenene una ventina di persone. “Sul pavimento una coppia di rotaie consente di utilizzarle anche per portare in superficie i vagoncini carichi di carbone e rispedire nel sottosuolo quelli vuoti. Le gabbie risultano sospese a robusti cavi d’acciaio imperniati in grandi ruote montate sulla sommità di torri, anch’esse d’acciaio, i castelli. Ad azionare il tutto potenti argani elettrici: funzionano con il sistema dei contrappesi, una gabbia sale e l’altra scende” , il controllo, nella Sala comando degli ascensori e dell’intero apparato per l’estrazione.
Le condizioni della miniera, come al tempo del fascismo, sempre faticosissimo il lavoro e pericoloso, attrezzate solo le nuove gallerie aperte a Nuraxi Figus e Seruci,  più moderne e più sicure. Gallerie ampie in cui è possibile introdurre le  nuove macchine,  “la monorotaia  ancorata alla volta della galleria ha sostituito le berline nel trasporto del carbone  e dei materiali. E non è la sola novità  nell’evoluzione del lavoro in miniera, dove l’estrazione del carbone viene affidata a possenti macchine che sbriciolano la vena”.
Resta, per i minatori, lo stesso sfruttamento del passato, “nelle gallerie si lavora senza interruzione, neppure una breve pausa per consumare il pranzo frugale preparato dalle mogli o dalle madri. I minatori devono mangiare frettolosamente, quelle le regole, guai a sgarrare”, la testimonianza di Antonio M. in ‘Senza sole né stelle’, di Sandro Mantega 1).
E gli stessi pericoli del passato, nei cantieri delle altre miniere, ” I minatori avevano perforato una grande bolla d’acqua chiusa nella montagna, …schizzata via a pressione, essa aveva allargato il foro e in pochi minuti allagato un paio di cento metri di galleria….e c’era il pericolo che  arrivassero altre venute d’acqua. Le pompe, se c’erano, non potevano fare nulla,  erano piccole e inutili e poi erano state allagate pure quelle.  A noi, esperti muratori, il direttore Taddei disse di costruire un muro, con una porta stagna, per impedire l’allagamento di tutta l’altra parte della miniera. Abbiamo lavorato per un paio di giorni, senza farmarci mai …… Davanti avevamo l’acqua che saliva, dietro i minatori che continuavano a lavorare con paura, ….la forza dell’acqua avrebbe ancora potuto sfondare il muro….L’acqua iniziò poi a calare da sola,  la miniera si asciugò e il nostro muro venne fatto saltare”: dalla testimonianza di Paolo Sarais, nel 1947-48 a Serbariu, che conclude dicendo come questi episodi fossere allora molto frequenti.
Così Gino Armosini, a Serbariu dal 1947: all’inizio del turno,  “ci si toglieva gli abiti del viaggio e ci si metteva gli abiti sporchi ed ancora bagnati di sudore del giorno prima”, e poi  in Lampisteria  “si versava una medaglia e si prendeva la propria lampada, una bestia con una batteria che pesava 5 chili..”  In galleria, senza neppure la protezione del casco e degli scarponi da lavoro,  “….: dove c’erano i tagli con il carbone, c’era anche il fuoco che bruciava lentamente e teneva alta la temperatura, a volte anche 40 gradi e più….. era quasi impossibile stare e, per abbassare il fuoco, si usavano delle lance lunghe sei metri, che contenevano l’acqua a forte pressione”, le quali,  per l’alta temperatura,  a volte  si fondevano in  punta, piegandosi. “Allora era un disastro, ci voleva tantissima acqua per calmare il carbone ardente; l’ossigeno alimentava  la fiamma che si poteva fermare….. costruendo, nei punti critici,  muri di mattoni….Nelle gallerie,  piene di questi muri, non si capiva più nulla e  a volte si dovevano fare un sacco di giri per raggiugere il cantiere di lavoro: tra il fuoco e questi muri, pareva proprio un inferno nero”. …. Nelle orecchie il frastuono del motore delle tavole e del motopicco, prosegue Gino Armosini, “poi arrivò la tecnologia, come la chiamavano i dirigenti, erano macchine che tagliavano  da sole il carbone,  mostri di ferro  che facevano un ruomre fortissimo, dopo un pochino le orecchie smettevano di funzionare, non si sentiva più nulla, nemmeno il compagno che, a un metro di distanza per farsi capire, si esprimeva a gesti, tutto questo per 7 ore al giorno.”   E il minatore Frau, “la miniera di carbone  era brutta a causa delle frane di coltivazione,…. si spaccavano i quadri come niente, noi lasciavamo dei puntelli nelle zone più brutte, ma quando era il momento della frana non si poteva fare più nulla”. A segnalarne l’arrivo, semmai, gli altri assidui ‘abitanti’ delle gallerie: “noi lavoravamo sempre in compagnia dei topi, c’erano in tutte le gallerie e non c’era modo di mandarli via, te li ritrovavi anche nel tascapane, a mangiarsi comodamente il tuo pranzo. Quelle bestie erano però di grande aiuto, sull’avanzamento la loro presenza ci dava quasi sicurezza: erano loro i primi a fuggire quando stava per arrivare la frana e se li vedevi scappare tutti insieme, allora dovevi seguirli, perché qualcosa di brutto stava per capitare.”  Queste le testimonianze che  si possono leggere in S. Mezzolani A. Simoncini, Storie di miniera, pubblicate da  L’Unione Sarda, nel 1994 2).
E si contano gli incidenti e i morti, a causa delle attrezzature di miniera obsolete, della scarsezza delle armature e dei mancati interventi sulla sicurezza, come nel luglio del 47, quando un gruppo di operai di Serbariu, costretti dai sorveglianti, entra in una zona da tutti ritenuta poco sicura a causa della scarsezza dell’armatura: 6 feriti gravi  per il franamento di una galleria, addirittura priva di armatura per 20 metri, secondo  L’Unità  del 12 luglio 1947.
Nella tabella pubblicata da G. Are e M. Costa, su ‘Carbosarda’, si contano, per il 1945, 8 operai morti nelle miniere dell’Iglesiente, il compensorio in cui è inserito anche il Sulcis, 18 per il 1946, 29 per il 1947 Così nel già citato grafico pubblicato da Ignazio Delogu su ‘Carbonia’, una risalita di “morti e feriti gravi”, con la riapertura delle miniere, che cala solo a partire dal 1949 3).
Inutilmente il sindacato avrebbe ancora preteso l’istituzione di  commissioni di inchiesta sugli incidenti in miniera, nessuna responsabilità mai riconobbe l’azienda, perché nessuno a garantire l’incolumità degli uomini, specie una volta entrato in crisi il Sulcis, a seguito della massiccia disponibilità sul mercato di carbone estero.
Ma si apre finalmente  in città il grande ospedale Sirai, pronto a intervenire per ogni genere di patologia che riguardi gli operai e il resto della popolazione, il Traumatologico di Iglesias, nei casi di incidenti più gravi in galleria.

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