Carbonia. Non è una città libera. La continuità col passato

25 Aprile 2021
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Gianna Lai

Oggi 25 aprile, Festa della Liberazione, è domenica e parliamo in questo blog della Resistenza e, come ogni domenica, dal 1° settembre 2019, della storia di Carbonia.

Carbonia non è in grado, neppure dopo la proclamazione della Repubblica, di accogliere interamente le famiglie dei minatori occupati nei cantieri, interrotta la costruzione di case e strade programmata prima della guerra, sempre in condizioni di grave emergenza, quindi, la vita  nei cameroni della periferia cittadina o, peggio ancora, nelle baracche fatiscenti. Che continuano a segnare drammaticamente l’avvicendamento di operai e disoccupati in città, come nel passato, spesso senza alcuna possibilità  di controllo da parte dell’amministrazione e delle autorità. Una popolazione priva di servizi igienici, luce ed acqua potabile, accomunata, da questo punto di vista, agli abitanti dei paesi più poveri della provincia cagliaritana,  ma anche per denutrizione e malattie endemiche, tifo e paratifo in particolare, cui si aggiunge la stagionalità della malaria. Povertà e miseria, un degrado che dura a lungo nella estrema periferia della città e che ben ci restituiscono, ma ahimé troppo saltuariamente, le relazioni del prefetto di Cagliari al Ministro dell’Interno.
Dice Aldo Lai, futuro sindaco di Carbonia, che al tempo dell’amministrazione Mistroni non c’erano soldi per i comuni,
Carbonia è proprietà di una azienda che ha la sua sede a Roma, instabile la popolazione e, anche nel dopoguerra, come ai bei tempi del regime, i licenziati, perdendo ogni diritto, son costretti  ad abbandonare immediatamente le loro case,  di esclusiva proprietà aziendale.
Già alle amministrazioni  comunali, ricostituite secondo la legge del 1915, non si attribuisce alcuna autonomia amministrativa né finanziaria: ogni spesa, ogni delibera deve essere approvata, e può essere respinta dalla prefettura o dal governo, “ambienti dove non pullulano  elementi progressisti ma che, anzi, sono praticamente dominati da autentici fascisti o da rigidi conservatori, che restano refrattari alle esigenze del decentramento”, come denuncia Piero Montagnani in Rinascita del novembre-dicembre 1947. Il Comune di Carbonia, salvo le tasse degli abitanti, definite nella misura di 300 lire, non aveva praticamente altre entrate, perciò avrebbe tentato di imporre una tassa su ogni tonnellata di carbone  venduto dalla SMCS, proprio “in occasione del Convegno dei Sindaci del Sulcis-Iglesiente, il 30 luglio 1947″, ma inutilmente, avendo ricorso la SMCS  al Consiglio di Stato che, subito dopo, la avrebbe abolita. E nel mentre gli oneri derivanti  dalla sua condizione di comune minerario, specie nel campo sanitario ed assistenziale, continuarono a  ricadere tutti sul Comune stesso, esonerati gli industriali da qualsiasi contributo per rendere meno penose le condizioni dei minatori.
E, prosegue Aldo Lai,  “non c’erano soldi sopratutto per i sindaci  di sinistra, come quelli di Carbonia, considerati dei veri sovversivi”. Che ancora in questa grave emergenza continuano a svolgere  un ruolo trainante, insieme ai rappresentanti, in Giunta e in Consiglio, della Lista del popolo, e sempre di grande sostegno alla massa operaia. Anche di quella più emarginata della estrema periferia, la più esposta al turnover, spesso impossibile da integrare per il suo passaggio così rapido in città. Se riprende infatti la vita a Carbonia nel dopoguerra, precaria e irregolare per la presenza continua di centinaia di emigrati non registrati, è proprio l’incessante ricambio della popolazione, che stenta a riconoscersi in quella realtà mineraria, il problema più importante da affontare. Estranea ancora al territorio, se non fosse per la socialità promossa da partiti e sindacati, per la funzione aggregante della loro politica, che interviene a costruire  un profilo nuovo del centro abitato, a definirne ancora una cultura operaia, certamente fondata su  uguaglianza e solidarietà. A migliorarne e ad arricchirne pure l’esistenza,  nei dopolavoro e nelle frequenti feste popolari e di quartiere, assente ogni forma di intervento sociale che si spinga oltre la refezione destinata ai bambini poveri della scuola elementare. Dove la scuola c’è, naturalmente, mancando ancora del tutto nelle frazioni ed anche nel grosso centro di Cortoghiana. Perché i caratteri  sembrano rimanere quelli del passato, ancora tutti quei dialetti, dal veneto al siciliano al sardo, capendosi tuttavia benissimo gli abitanti tra loro. Ed anche  i bambini, tutti quei bambini provenienti da famiglie così numerose, come erano quelle dei minatori, che dentro la scuola apprendono l’uso dell’italiano e in casa continuano a parlare la lingua d’origine dei loro genitori.
Fino all’avvio di esperienze nuove, per esempio la promozione della Consulta popolare, come in tanti altri comuni amministrati dalle sinistre in Italia, che prepara e convoca le  assemblee degli abitanti, nei vari rioni, per dibattere i problemi della città. Assessori e amministratori possono rendere conto del loro operato di fronte agli elettori, una scuola di democrazia, di responsabilità, di civismo, di controllo sociale, che in città svolge funzioni di stimolo e di sostegno in particolare al movimento contro la chiusura  delle miniere, e destinata a venir meno solo con l’indebolimento di quel fronte di lotta.  In prima fila sempre l’amministrazione nella battaglia per la difesa del lavoro e dei lavoratori, sopratutto durante i duri interventi dell’azienda e della stessa forza pubblica a suo sostegno,
Ma neppure bastano, a proteggere gli abitanti e la miniera, sindaco e amministrazione comunale democraticamente eletti, secondo le nuove leggi della Repubblica, se  la città rimane proprietà ancora salda nelle mani dell’ACaI, secondo le leggi del tempo del fascismo. La città non è libera, aveva detto qualcuno indignato sulle pagine della stampa locale, un’anomalia a segnarne  il destino, come  si dovesse fin da allora capire che non valeva la pena modificare il quadro dei rapporti ACaI-Comune, essendo così stretti i tempi della loro sopravvivenza. Neppure di fronte alla tenace opposizione  degli operai e delle loro rappresentanze, continua e pressante, e per un arco di tempo così lungo, più lungo di quanto governo e azienda potessero, in quegli anni, appena immaginare.
Nel marzo del 1946 era entrato in funzione finalmente l’ospedale Sirai, che si aggiunge al Centro antimalarico  e al campo sportivo e al vecchio ospedaletto dell’Istituto nazionale infortuni sul lavoro: contributo di 1.800.000 mila lire da parte della Carbosarda. E nel mentre l’azienda costruisce  190 appartamenti,  a Carbonia, Cortoghiana, Bacu Abis e Sant’Antioco; “in  ripristino quelli  abbandonati durante la guerra”, si trasformano in appartamenti i cameroni di Bacu Abis e Seruci, un tempo destinati ai prigionieri di guerra.
Ancora la SMCS  a gestire gli spacci, mancando un mercato pubblico in  una città che, per abitanti, diviene in poco tempo  la terza della Sardegna, avviandosi rapidamente verso  i 40 mila residenti.
Cadenzati gli orari, la campana della chiesa in città, la sirena dei turni in miniera, è la folla degli operai in bicicletta, andata e ritorno, a segnare i passaggi importanti della giornata; il continuo andirivieni dei treni, treni merci e dei pendolari, a dare  una pallida immagine della massa sempre crescente che continua a spostarsi ogni giorno nel territorio. Dai primi 4 mila minatori del dopoguerra ai 6 mila e fino agli 11mila, poi 15 mila, per giungere ai 18 mila degli anni ‘47-’48,  distribuiti i pendolari tra le stazioni ferroviarie di Carbonia, Bacu Abis, Cortoghiana, San Giovanni, Sant’antioco, fino ai più piccoli  paesi del Sulcis Iglesiente e ai più sperduti furriadroxius, gli ultimi ancora salvi dalla furia distruttiva della miniera. Così li ricorda Aldo Lai, capostazione presso le Ferrovie Meridionali Sarde di Carbonia, così li ritraggono le foto d’epoca, in arrivo tutti i giorni dai paesi per spandersi nei cantieri, sui carri-merci e bestiame,  i portelloni spalancati, estate e inverno, le gambe penzoloni all’esterno, non bastando le panche interne e i sedili  a contenerli tutti.

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