Su ambiente e clima più ombre che luci dopo il G20 e la Cop26

4 Novembre 2021
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Tonino Dessì

Se l’esito del G20 romano è stato irrilevante, l’andamento della Cop26 di Glasgow è addirittura preoccupante.
Si configura un passo indietro anche rispetto agli Accordi di Parigi del 2015.
Benchè nessuno ormai si azzardi a negare il cambiamento climatico in corso e seppure non si metta più in dubbio che l’accumulo degli effetti dello sviluppo economico contemporaneo contribuisca ad aggravare le condizioni ambientali del Pianeta, non solo non si intravvede una strategia comune minima per affrontare la questione, ma di intravvedono scenari di conflitto che rischiano di peggiorare l’evolversi della situazione.
La Russia, la Cina e l’India hanno messo nero su bianco che l’obiettivo di abbattere le emissioni di CO2 entro il 2050, al fine di contribuire a contenere l’innalzamento della temperatura globale entro 1,5 gradi centigradi, per loro è impraticabile.
Non sarebbero in grado di riconvertire i rispettivi consumi energetici da fonti fossili prima del 2070.
La diatriba sulla pretesa dell’Occidente di comprimere le aspettative di benessere delle popolazioni di quei Paesi è in parte fondata, in parte pretestuosa.
Cina e India sono diventati in assoluto i Paesi più inquinatori e più inquinati, ma è vero che un singolo cittadino dei Paesi occidentali più sviluppati inquina molte volte di più di qualsiasi singolo cittadino di quei Paesi.
Cina e India sanno benissimo (lo sanno i rispettivi governi e i rispettivi establishment), tuttavia, che riprodurre alla rispettiva scala demografica il modello affluente di consumi degli USA e dell’Europa -o della stessa Russia, che ha cessato di essere un Paese povero già dai tempi dell’URSS- provocherebbe effetti disastrosi nella stessa qualità della vita delle rispettive popolazioni.
Gli USA, l’Europa, il Giappone, si illudono di poter ridurre l’impatto ambientale delle rispettive economie senza modificare il proprio modello economico-sociale fondamentale.
Ovvio, che così non se n’esce.
Perciò sullo sfondo della questione climatica, se emerge una divisione reale tra due strategie, si può dire che nessuna di esse sia innocente.
Credo che gli USA in particolare stiano giocando un’ambiziosa partita competitiva sul terreno di una riconversione tecnologica ed energetica globale.
Da un lato possono contare sulla loro totale autosufficienza energetica, il che consente loro di modulare i tempi della fuoriuscita dalle fonti fossili con autonomia interna, condizionando tuttavia l’intero mercato energetico globale.
Nello stesso tempo il loro vantaggio tecnologico e nella ricerca industriale applicata è ancora enorme, anche rispetto alla Cina.
La Cina non ha autosufficienza energetica e la sua prospettiva di crescita incontra proprio il limite derivante dalla sua domanda di energia, che fra l’altro incide sui prezzi internazionali del petrolio e del gas: incide meno sul carbone, che la Cina consuma in enorme quantità, ma che ormai non è più una fonte appetita nemmeno dai paesi meno sviluppati.
La stessa condizione in cui versa l’India.
La Russia sta continuamente sprecando la sua grande disponibilità di materie prime energetiche fossili senza riuscire a investirne i guadagni sul piano dell’ammodernamento della sua base produttiva. In Russia la manifattura produce poco e ancora non al passo con la competizione tecnologica globale. Se i prezzi delle materie prime energetiche cadessero tendenzialmente per via di una progressiva sostituzione della domanda occidentale di quelle fonti, la stessa sovranità economica del Paese si indebolirebbe, al più trasformando la Russia in un satellite della Cina: il che non so se davvero rientri negli auspici dei russi.
Questo è al momento lo scenario oggettivo.
Aggiungerei che l’intera partita che si sta giocando resta sorda e cieca nei confronti di un’altra parte del Pianeta, l’Africa, nel cui sfruttamento indiscriminato tutte le potenze sopra richiamate, nessuna esclusa, sono forsennatamente e cinicamente impegnate, talchè tutta questa rappresentazione nasconde il perpetuarsi nel XXI secolo del più radicale neocolonialismo di rapina.
Perciò, appunto, di innocente, nello scontro e nell’impasse del G20 come nel rischio di fallimento della Cop26, c’è poco: le grandi questioni connesse alla giustizia sociale, geografica, generazionale sul Pianeta vi sono estranee.
E alla fin fine vi è estranea la preoccupazione ambientale.
È emblematicamente ingannevole il messaggio dell’unico impegno sul quale si troverebbe un accordo fra i “grandi”, quello di piantare miliardi di alberi per pareggiare le emissioni di C02.
Una sciocchezza sul piano scientifico e un’aberrazione sul piano economico: varrebbe immensamente di più una decisione di assoluto divieto di continuare la deforestazione in Amazzonia, nel bacino del Congo, in Indonesia.
Ma questo vorrebbe dire mettere in discussione in primo luogo le multinazionali degli allevamenti, dell’industria, del commercio e del consumo della carne, insomma il sistema agroalimentare non dei Paesi poveri, bensì dei Paesi più affluenti quanto a benessere, nessuno dei nominati escluso.
Che la questione sia messa male, anzi malissimo, lo si può evincere da un altro sintomo.
Sta emergendo il vezzo fra i politici e nei media di ribaltare lo stallo sui movimenti ambientalisti.
Adesso è a Greta Thumberg e a Fridays For Future, esclusi dalle due kermesse climatiche ufficiali, ma tuttavia ben visibili all’esterno, che si chiede di “passare dalla protesta alla proposta-
Un capovolgimento di responsabilità cinico e vile. In realtà ai movimenti ambientalisti, se non vogliono rassegnarsi a virare in disperazione i loro slogan di protesta contro il persistente “bla bla bla” dei governi e degli establishment politico-economici, si pone un problema di salto di qualità nelle forme di protesta, più che nella “proposta”.
Non saprei come concludere provvisoriamente questo ragionamento, se non con due auspici, su entrambi i quali confesso un grande pessimismo. Il primo riguarda la prospettiva più generale. Bisogna sperare che non intervenga una catastrofe peggiore della pandemia, per convincere tutti a fare sul serio. Il secondo riguarda i nuovi movimenti e le nuove generazioni ambientaliste.
L’auspicio è che fra le forme di lotta pacifiche e fra le loro conseguenze suscettibili di scuotere le coscienze non vi sia il martirio personale. E non scherzo affatto, perché in tutto il mondo, da diverso tempo, gli assassini di esponenti locali delle lotte contro la devastazione ambientale sono diventati frequenti.

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