Il buco nero di Piazza della Loggia, la strage impunita

15 Gennaio 2014
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Gianluca Scroccu

«Siamo testimoni. Siamo legati tra noi e dalla storia, dal nesso che connette ogni strage impunita agli omicidi brigatisti, ma ancor di più dal mistero di una coincidenza che bussa insistente alla porta». Così scrive Benedetta Tobagi nel suo nuovo libro “Una stella incoronata di buio. Storia di una strage impunita” (Einaudi, pp. 470, € 20).
Dopo aver raccontato la storia dell’omicidio del padre nel suo primo e giustamente fortunato romanzo, ora la scrittrice si sofferma su un evento efferato come la strage di Brescia. E ci riesce grazie ad un significativo lavoro di documentazione storica e una grande capacità di narrare la storia d’Italia partendo dalla testimonianza delle persone protagoniste.
I fatti sono noti. Nella città lombarda, e precisamente in Piazza della Loggia, il 28 maggio 1974, lo stesso giorno in cui sei anni dopo venne assassinato il padre della scrittrice, esplodeva una bomba durante un comizio antifascista in cui trovavano la morte ben otto persone.
Una strage senza condanne, di cui ci è rimasto persino il terribile sonoro, e che l’autrice sceglie di raccontare partendo dalla vita di alcune delle sue vittime come Livia, una giovane insegnate moglie dell’operaio autodidatta Manlio Milani. Proprio quest’ultimo, lo “zio comunista” come lo chiama la Tobagi, accompagna l’autrice e quindi anche il lettore per tutto il libro con la forza della sua statura civile e la ferma volontà di ricercare la verità e di testimoniarlo ai suoi concittadini. Non esitando, proprio per questo, nell’accogliere la richiesta di un confronto sulla strage con gli esponenti di CasaPound.
Del resto Livia e le altre vittime erano cittadini che credevano nella democrazia repubblicana, persone che testimoniavano il loro impegno nel lavoro di insegnante o nelle battaglie in favore dei diritti delle donne, così come nell’impegno di militanti nel PCI e nel sindacato. Un rapporto felice, quello tra Manlio e Livia, che viene distrutto il 28 maggio da un ordigno che deflagra corpi ed esistenze.
La complessità della strage di Brescia è quella propria di tante altre che hanno attraversato la vicenda italiana, paragonata in maniera efficace dall’autrice al labirinto del Minotauro dove è facile perdersi tra depistaggi, condizionamenti della Guerra Fredda, silenzi, semplificazioni, segreti di Stato, ostacoli di ogni tipo posti anche dalle istituzioni e dai servizi segreti. Il tutto in una scena del crimine dove è persino difficile conservare le prove: dopo appena un’ora e mezzo dalla strage, i vigili del fuoco avevano provveduto a lavare il manto stradale cancellando le tracce della devastazione. Incredibile è anche la vicenda giudiziaria: come scrive la Tobagi, i processi per strage vanno incontri a tragici paradossi, in quanto «la distanza temporale aiuta a chiarire il quadro di riferimento e le finalità, palesi e occulte, delle bombe. Ma rende sempre più difficile provare le responsabilità individuali».
Se nel libro in cui aveva raccontato l’assassinio del padre Walter l’autrice aveva scandagliato il terrorismo di sinistra, in questo suo secondo lavoro il protagonista è il mondo altrettanto terribile dell’eversione nera e neofascista che mette la firma su Brescia. Scorrono i nomi dei tanti protagonisti di azioni delittuose e di una politica del terrore, cui non mancano riferimenti anche in partiti come l’MSI tutti tesi a fermare la stagione del centro-sinistra invocando soluzioni autoritarie o parafasciste, capaci di ristabilire l’ordine e la gerarchia contro ogni tentativo di far entrare i “rossi” nelle istituzioni. Da qui nasce la strategia della tensione, che dal Piano Solo passa per il tentativo eversivo del 1970 ad opera del “Principe Nero” Junio Valerio Borghese, derubricato troppo frettolosamente a “golpe da operetta”, il progetto di Edgardo Sogno, le trame di Gelli e della sua P2. Sono soluzioni di forza contro il pericolo rosso di cui si sente l’eco nelle parole del leader missino Giorgio Almirante, riportate molto opportunamente dalla Tobagi, il quale, nel 1964, arriva ad invocare in un dibattito parlamentare l’esperienza mussoliniana come la più efficace contro “l’eversione” rossa o ad esaltare nel 1970 il golpe dei colonnelli in Grecia.
In questo senso si capisce come Brescia possa diventare teatro di un evento così efferato. Nei dintorni della città lombarda fioriscono infatti in quegli anni le fabbriche dei tondini che fanno le fortune di imprenditori ricchi e spregiudicati, alcuni dei quali non si fanno troppi scrupoli nel finanziare un’eversione nera come quella di “Ordine Nuovo” che promette di frenare l’eccessivo attivismo dei sindacati e dei partiti di sinistra.
In questo contesto, il lavoro della Tobagi ci fa capire come quella stagione, e i buchi neri che continuano a persistere su quei drammatici eventi su cui non esiste nemmeno la verità processuale, persistono nel perseguitarci ancora oggi in quanto le radici della crisi italiana vanno ricercate anche in quelle vicende insolute. E ci fa riflettere sulla giustizia italiana, invitandoci ad andare oltre le sentenze e a soffermarci sulle motivazioni dove si possono leggere i contorni più specifici di avvenimenti che vanno al di là delle assoluzioni procedurali. E per capire meglio i contorni di un fatto che rappresenta il male radicale, l’autrice sceglie di accompagnare il testo con foto e quadri perché la forza dell’arte può aiutare la riflessione.
Una narrazione dolente, quella della Tobagi, ma che racchiude una carica di vitalità in grado di attraversare la storia d’Italia e le sue pagine più oscure. Per aiutare a ricordare meglio, a risvegliare la nostra passione civile, a non dimenticare e soprattutto a non rinunciare all’esigenza di ricercare la verità.

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