I limiti delle valutazioni microeconomiche dell’impatto delle innovazioni scientifiche e tecnologiche sui sistemi produttivi

13 Aprile 2017
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Gianfranco Sabattini

Da tempo sul “Blog” sono ospitati articoli di Fernando Codonesu riguardanti il ruolo dell’innovazione tecnologica sul funzionamento dei sistemi produttivi. Presentati con enfasi dal Direttore del Blog, tali articoli meritano una riflessione critica sul “messaggio” che essi trasmettono, considerata l’angusta prospettiva metodologica assunta per valutare gli effetti riconducibili all’impatto delle innovazioni scientifiche e tecnologiche sulle modalità di funzionamento dei sistemi produttivi e sulla struttura organizzativa dei sistemi sociali all’interno dei quali operano le attività produttive.
Codonesu narra degli esiti, a suo dire “strabilianti” della cosiddetta “rivoluzione digitale”, per gli effetti positivi derivanti dalla diffusione dei vari prodotti digitali e per tutti i cambiamenti sociali, economici e politici determinati dall’avvento della digitalizzazione degli accessi alle fonti informative.
Per quanto coinvolgente possa essere ogni discorso sui benefici della rivoluzione digitale e affascinanti possano risultare le “storie imprenditoriali” dei suoi protagonisti, una valutazione parziale di tali effetti, al pari di quella degli effetti di qualsiasi altra “rivoluzione scientifica e tecnologica” sul sistema produttivo e su quello sociale, è di solito fuorviante, in quanto è inevitabile che essa risenta dei limiti della peggiore ideologia, che secondo Karl Raimund Popper consiste nel voler far credere che una valutazione astratta sia anche concreta.
Sylvia Nasar, esperta giornalista economica, ha pubblicato di recente un ponderoso volume sui geni che hanno creato l’economia moderna, cambiando la storia del mondo. In “L’Immaginazione Economica”, la Nasar narra dell’impegno profuso da Karl Marx, John Stuart Mill, Joseph Schumpeter, Alfred Marshall, Irving Fisher, John Maynard Keynes, Friedrich Hayek, Milton Friedman, Paul Samuelson, Amartya Sen e da altri ancora (tra i quali potrebbero essere ricordati in particolare Kenneth Boulding ed Herman Daly) per salvare l’umanità dal terribile destino che i secoli antecedenti il XIX sembravano averla condannata. “L’Immaginazione Economica” racconta infatti come i principali esponenti della “scienza triste” (The Joyless Science, come l’aveva definita Thomas Carlyle) hanno contribuito ad immaginare un mondo migliore, più prospero e più giusto (anche se non ancora per tutti) che poteva essere assicurato all’umanità attraverso il progresso scientifico e tecnologico.
Non in tutti i tempi, tuttavia, la teoria economica dei padri fondatori gode di buona fama; nei momenti di crisi, questa teoria e gli economisti sono sempre esposti al rischio di una crescente delegittimazione. Da che cosa deriva, in realtà, questo rischio? Per rispondere, può essere sufficiente l’analisi impietosa che qualche tempo fa Bernard Maris, economista magrebino dell’Institut d’Etude Européenne di Parigi, nella sua “Lettera aperta ai guru dell’economia che ci prendono per imbecilli” ha compiuto dell’uso parziale della teoria economica e dell’attività dei suoi “addetti ai lavori”. Quella di Maris è una delle tante critiche formulate contro i limiti dell’uso della teoria economica per la valutazione e spiegazione dei fatti sociali; ad essa se ne potrebbero aggiungere molte altre, e la lista risulterebbe molto lunga. La critica di Maris, però, è una di quelle che mettono in evidenza le carenze interpretative di certi indirizzi dell’analisi economica moderna.
Maris critica soprattutto la assiomatizzazione della microeconomia, la teoria cui si ricorre per valutare i fatti economici dal punto di vista esclusivamente privatistico, sulla base dell’assunto che quando la valutazione è “positiva” per un singolo componente del sistema sociale lo sia anche per tutti gli altri); ciò porta a privilegiare il momento del rigore analitico e la considerazione di aspetti particolari della realtà economica, rispetto al momento della fondazione empirica e della considerazione del funzionamento dell’intero sistema economico, determinando la scomparsa della dipendenza della teoria economica dalla storia, quindi estraniandola da tutti quegli elementi storici che il suo progredire logico-formale ha trasformato progressivamente in “dati”. Il sempre più frequente uso acritico dei paradigmi della teoria economica moderna ha portato i microeconomisti ad essere vittime dell’”anatema” di Popper, esponendoli perciò al rischio di perdere ogni credibilità professionale.
Il progressivo svuotamento di ogni riferimento fattuale ha portato la microeconomia a non poter essere utilizzata con successo per scopi normativi, vale a dire, per scopi di politica economica. Infatti, quando gli economisti pretendono di esorcizzare il futuro dei sistemi sociali, per liberarli da probabili “insidie”, ricorrendo all’uso, come si suole dire, di “scatole analitiche vuote”, quali sono quelle costruite da buona parte della microeconomia moderna, non hanno potuto che fallire nel loro intento; fatto, questo, ampiamente dimostrato dall’inconsistenza di tutte le previsioni, fondate su quelle “scatole”, formulate prima dello “scoppio” della Grande Recessione del 2007/2008; fallimento che è costato ai microeconomisti, riuniti a convegno, la domanda sprezzante della Regina Elisabetta II: che razza di guru siete se, nonostante le capacità previsionali delle quali pretendete d’essere depositari, non siete stati in grado, alla vigilia del 2007/2008, di prevedere la Grande Recessione che stava per sopraggiungere? Giudizi più spietati di quelli di Maris e di Elisabetta II, sulla credibilità della teoria economica moderna e degli economisti professionali, non avrebbero potuto essere formulati.
A trarre le teoria economica e gli economisti dalla bocciatura inappellabile di Maris e della Regina Elisabetta II, dal punto di vista dello studio del funzionamento dell’economia di un intero sistema sociale, è la considerazione di tale teoria secondo una prospettiva macroeconomica. E’ partendo da quest’ultimo punto di vista, che il desiderio di mettere l’uomo nella condizione di governare il proprio destino è stato, come ha sostenuto Alfred Marshall, la “molla principale di quasi tutti gli studi economici”; e molti economisti del suo tempo, ispirati dai grandi progressi che le scienze naturali avevano potuto realizzare, dopo essersi liberate dalle catene dei secoli bui, hanno incominciato a forgiare uno strumento (la teoria economica) con cui analizzare l’”ingegnosissimo e potentissimo meccanismo sociale”, cioè l’ideale organizzazione di un libero sistema economico inquadrato all’interno di un libero sistema politico, destinato, sia pure in prospettiva, a cambiare la vita di tutti gli abitanti del pianeta. Restava, tuttavia, un problema irrisolto, che John Maynard Keynes ha successivamente risolto, designandolo come “problema politico dell’umanità”, riguardante il modo in cui, combinando o rendendo tra loro compatibili l’efficienza economica, la giustizia sociale e la libertà individuale, si potesse garantire un funzionamento stabile del sistema economico, orientato ad assicurare la libertà dal bisogno (non solo materiale) di tutti i componenti dell’intero sistema sociale.
Per la soluzione di questo problema, i padri fondatori della teoria economica sono sempre stati motivati, non solo dalla curiosità intellettuale, ma anche, e forse soprattutto, dall’intento di trasformare gli uomini in artefici del proprio destino; cioè, dall’intento di fornire idee da usare al fine di promuovere l’organizzazione dei sistemi sociali in modo che fosse garantita la libertà dal bisogno di tutti. Come lo stesso Keynes pensava, lo sviluppo della teoria economica ha potuto così trasformarsi in “un motore d’analisi in grado di separare il grano dell’esperienza dalla pula”, convinto che le “idee economiche avessero trasformato il mondo più del motore a vapore”.
Per tutte le ragioni esposte, contro interpretazioni e applicazioni riduttive di certi paradigmi dell’analisi economica, è quindi necessario attenersi alla concezione dei padri fondatori della teoria economica; ciò per evitare che, da un lato, un suo uso irresponsabile la trasformi realmente in una “scienza triste”; dall’altro lato, che i “rudi costruttori” dell’economia transnazionale contemporanea gettino nel discredito il patrimonio di idee lasciato in eredità di chi ha realmente contribuito alla fondazione di una scienza sociale al servizio dell’umanità, e non una teoria economica orientata a supportare solo una crescita quantitativa senza limiti e regole, per perseguire una presunta civiltà del benessere.
La riflessione intorno all’impatto del progresso scientifico e tecnologico sul funzionamento della base produttiva di una collettività, perciò, quale che sia il livello di riferimento (locale, regionale, nazionale, oppure mondiale), non può essere dissociata dalla considerazione delle possibili conseguenze dell’impiego, per ragioni economiche, di quel progresso per l’intera collettività; ovvero, detto in altri termini, le conseguenze dell’introduzione di un’innovazione tecnologica nel modo di funzionare della base produttiva, o di un particolare comparto produttivo di un sistema sociale, non possono essere considerate esclusivamente dal punto di vista privato, in quanto vanno tenute presenti anche le conseguenze sociali; in particolare, vanno considerati, sia gli effetti sui livelli occupazionali, che quelli sull’equilibrio distributivo. Quando ciò non accade, la valutazione degli esiti di una qualsiasi attività d’investimento, connessa ad una determinata innovazione da progresso scientifico e tecnologico, sarebbe formulata solo nella prospettiva di “privatizzare i vantaggi” e di “socializzare i costi” dell’innovazione introdotta nel sistema produttivo.
La mancata valutazione di questi effetti sull’occupazione e sull’equità distributiva è all’origine del trend dei sistemi economici moderni, che associa ad un aumento dell’efficienza indotta dall’innovazione produttiva una crescente disoccupazione strutturale irreversibile ed una crescente ineguale distribuzione del reddito (caratteri propri dei sistemi economici nazionali integrati nell’economia mondiale). Si tratta di un trend che, causando il venir meno della soluzione del problema politico posto da Keynes (compatibilità dell’efficienza economica con la giustizia sociale e la libertà individuale) ha conseguenze disgregative e distruttive sulla stabilità del sistema economico e sull’organizzazione del sistema sociale. A dimostrazione di quanto sin qui detto, può essere utile parafrasare l’esperimento mentale sugli esiti negativi della crescente disoccupazione e della crescente concentrazione della ricchezza, formulato già nel XIX secolo in “Progresso e libertà“, da un economista americano poco conosciuto, Henry George.
Se il progresso scientifico e tecnologico indotto dalla competitività internazionale continua via via a succedersi, determinando l’espulsione continua e definitiva di quote di forza lavorativa dalle attività produttive, allora è possibile pensare ad un momento in corrispondenza del quale la produzione può essere ottenuta azzerando totalmente l’occupazione. In tal modo, i capitalisti, cioè i proprietari del fattore produttivo capitale, possono appropriarsi dell’intera produzione conseguita, senza l’impiego di alcun lavoratore; l’intera forza lavorativa disponibile cesserebbe di partecipare, in una misura qualsiasi, alla distribuzione della ricchezza prodotta (espressa dalla produzione realizzata senza lavoro). E per quanto il costo della “riproduzione” di tutta la forza lavorativa disponibile non occupata possa essere reso uguale al “costo della biada per i cavalli” o al “costo dell’olio lubrificante per il funzionamento delle macchine”, la produzione eccedente tale “costo di riproduzione”, rimanendo invenduta, mancherebbe di tradursi in ricchezza reale, riducendo il sistema sociale a vivere all’interno di un’economia funzionante in regime di uno stato stazionario regressivo.
Questo limite, affermava George, al quale conducono “le invenzioni economizzanti il lavoro può sembrare molto remoto, perfino impossibile a raggiungersi; ma è un punto verso cui tende sempre più fortemente il progresso delle invenzioni”, quando tale progresso non sia rapportato a tutti gli aspetti nei quali si compendia il contesto sociale all’interno del quale esso viene utilizzato per finalità economiche. Un punto-limite, perciò, quello indicato da George, che deve essere tenuto nella debita considerazione, allorché si assumono decisioni riguardanti l’introduzione degli esiti del progresso scientifico e tecnologico nel funzionamento dei moderni sistemi economici.
Quello sin qui fatto non è un discorso oscurantista, che respinge la validità del progresso scientifico e tecnologico; sulla scorta dell’esperimento mentale molto opportuno di George, il discorso mette solo in evidenza che una responsabile valutazione degli effetti di qualsiasi innovazione introdotta nel sistema economico deve sempre conciliare il punto di vista privato con quello sociale. Il fatto che ciò sia disatteso è la fonte di gran parte dei conflitti politici attuali, che i “moderni addetti ai lavori economici”, deviati dall’ideologia neoliberista, tendono a considerare come un fatto normale, sino a considerarli la molla della crescita e dello sviluppo dell’umanità. E’ vero, invece, il contrario.
Per la soluzione di quei conflitti, i neoliberisti hanno rinunciato ad utilizzare quanto acquisito alla disponibilità degli uomini dall’”immaginazione creatrice” dei padri fondatori della teoria economica; così essi hanno progressivamente svilito l’economia a “scienza triste”, non perché abbia ad oggetto lo studio e la spiegazione di “cose poco piacevoli, o aride”, come pensavano molti scrittori romantici ottocenteschi, ma solo perché, essendo stata distratta dal suo essere al servizio dell’uomo, è divenuta una teoria fine a sé stessa, estranea ai reali problemi dei sistemi sociali attuali.
Sul tema trattato, i lettori del Blog farebbero bene ad intervenire per alimentare un dibattito che, considerata la posizione ideale del Blog stesso, risulterebbe di grande utilità per quanti sono alla ricerca di una prospettiva politica utile al superamento della crisi in cui versano il Paese e la regione nella quale viviamo.

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  • 1 Oggi giovedì 13 aprile 2017 | Aladin Pensiero
    13 Aprile 2017 - 07:33

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