L’unità d’Italia secondo Gramsci

26 Maggio 2010
6 Commenti


Gianfranco Sabattini

Tra i temi attuali del dibattito politico italiano vi è quello relativo ai possibili vantaggi che sarebbero potuti derivare al Paese dall’adozione, all’indomani della raggiunta unità territoriale-istituzionale, di una struttura organizzativa federalista. In questa prospettiva risulta utile una rilettura critica delle principali intepretazioni del processo unitario a partire dalle riflessioni gramsciane, con particolare riguardo alla qualificazione del processo risorgimentale come una “rivoluzione passiva”, o come una “rivoluzione mancata”. Su questo punto, Antonio Gramsci ha il merito di aver fornito un’interpretazione che rende possibile rappresentare, non soltanto ciò che è accaduto sul piano politico, sociale ed economico prima dell’unità, ma quanto non è accaduto dopo il 1861 e, soprattutto, dopo la caduta della dittatura fascista, a partire dal 1945. Si giunge così direttamente al dibattito attuale sull’utilità degli Stati nazionali, anche alla luce dell’Unione europea, che coinvolge oggi non solo l’Italia per iniziativa della Lega, ma anche la Spagna e, in modo ancor più drammatico, il Belgio, dove la scissione fra fiamminghi e valloni è scongiurata solo da quel collante unitario che è la Corona.
Ringraziamo il Prof. Gianfranco Sabbatini per averci fornito questa importante occasione di riflessione, utile in relazione al dibattito sulle sorti della nostra Repubblica.

Per Antonio Gramsci, il raggiungimento dell’unità dell’Italia è stato l’esito di una “rivoluzione passiva” perché la maggioranza dei componenti le società civili degli Stati pre-unitari non hanno avuto in esso parte attiva, come invece l’ha avuta l’élite liberale che ha realizzato l’unificazione e che però non ha svolto alcuna funzione di guida e di direzione del processo unitario di integrazione sociale. L’élite, nella prospettiva gramsciana, si è, infatti, limitata a contribuire alla realizzazione di una struttura unitaria sul piano territoriale ed istituzionale che le ha consentito di soddisfare (da posizioni di dominio) i propri diretti interessi, imponendo soluzioni ai problemi emersi dal processo risorgimentale del tutto estranee alla società civile nata dalla debellatio degli Stati pre-unitari.
Gramsci, nella sua interpretazione del processo di unificazione dell’Italia, assume come variabile esplicativa del processo il fenomeno dell’urbanesimo, negando che, all’interno dei diversi Stati pre-unitari, tale fenomeno, fatte salve alcune situazioni eccezionali relative agli Stati pre-unitari del Nord, possa aver svolto un ruolo positivo per la crescita e lo sviluppo. All’interno delle “cento città” italiane (le “città del silenzio” come le chiama Gramsci) esistevano forti nuclei sociali moderni, condizionati però da nuclei sociali maggioritari che moderni non erano e che riuscivano a realizzare un’unità ideologica contro la campagna. Secondo Gramsci, esisteva cioè un fronte unico contro le rivendicazioni della campagna, in quanto, ove fossero state accolte, avrebbero reso impossibile l’esistenza di questo tipo di città. Per contro, esisteva, sempre secondo Gramsci, un’avversione non meno diretta della campagna contro le città e, dunque, contro tutti i nuclei sociali che le costituivano. La mancata soluzione funzionale del rapporto città-campagna rivestiva, in quest’ottica, un’importanza “primordiale nello svolgersi delle lotte per il Risorgimento”, sino a riproporsi, dopo la raggiunta unità, come rapporto tra Nord e Sud; come un rapporto, cioè, simile a quello intercorrente tra una grande città (il Nord) e una grande campagna (il Sud).
La relazione città-campagna riferita al rapporto Nord e Sud dell’Italia pre-unitaria poteva essere valutata, così, in funzione del tipo di relazioni possibili tra i nuclei sociali esistenti: nel Nord, i nuclei sociali moderni tendevano ad assicurare il collegamento della società civile con lo Stato e con la nascente classe capitalistica innovativa; nel Sud, i nuclei sociali prevalenti assicuravano, invece, il collegamento della società civile con lo Stato e con una classe di proprietari assenteisti, il cui unico interesse era quello di riuscire a conservare lo status quo. In presenza di tali relazioni, il Risorgimento, per Gramsci, poteva essere sottratto all’esito di “rivoluzione passiva” solo se le forze urbane del Nord avessero svolto una “funzione direttiva” nei riguardi delle forze urbane del Sud. Ciò, però, non è accaduto, per cui è emerso un insanabile “dissidio nazionale”, tanto grave che neppure una “soluzione federalista” del processo di unificazione sarebbe riuscita a comporre.
Da ciò è derivato, secondo l’interpretazione gramsciana del processo di unificazione dell’Italia, che il Risorgimento non è stato affatto un movimento nazionale; l’unificazione è stato piuttosto il risultato di una complessa serie di accadimenti casuali ed imprevedibili per lo più estranei agli italiani, perché gli italiani erano divisi e per nulla ansiosi di raggiungere l’unità nazionale. L’unità, infatti, non costituiva l’obiettivo di molti tra i principali protagonisti del Risorgimento. Né l’unità era gradita a molti di questi quando finalmente è stata raggiunta.
In breve, dall’interpretazione gramsciana del Risorgimento si può dedurre che il processo di unificazione dell’Italia inteso come rivoluzione nazionale è del tutto infondato. Ciò perché le forze che hanno “spinto” verso l’unità sono venute prevalentemente dall’esterno; per questo motivo, è più realistico parlare di Risorgimento come “movimento europeo”, anche se poche minoranze patriottiche hanno svolto un ruolo essenziale nella lotta per l’indipendenza nazionale. In queste condizioni, il ruolo del Piemonte nel Risorgimento italiano è stato, perciò, quello di aver contribuito alla costruzione di un’unità territoriale-istituzionale più vasta al servizio di un nucleo sociale dominante, unicamente proteso alla tutela dei propri interessi. Per Gramsci, l’Italia non è stata, quindi, socialmente unificata. E’ questa la ragione per cui i governanti italiani, dopo il 1861, hanno goduto di scarso consenso e per decenni hanno potuto governare l’Italia ricorrendo alla forza e non al consenso della società civile nazionale. In altre parole, i leader del Risorgimento non sono riusciti nell’intento di creare una nazione italiana. Pertanto, la conclusione ultima che si può trarre dall’interpretazione gramsciana del processo risorgimentale è che l’identità dell’Italia come nazione, all’indomani del 1861, è risultata incompleta.

6 commenti

  • 1 Bomboi Adriano
    26 Maggio 2010 - 12:47

    Pienamente d’accordo. Una lettura ancora attuale su molti punti di vista. D’altra parte il divario culturale del nazionalismo italiano rispetto (ad esempio) a quello USA è enorme: Se per un cittadino americano è lecito e normale apporre sul proprio balcone di casa la bandiera a stelle e strisce tutto l’anno…per un italiano il tricolore lo si vede prevalentemente durante i mondiali di calcio….

  • 2 Democrazia Oggi - Risorgimento: interpretazione gramsciana e liberale a confronto
    12 Giugno 2010 - 06:06

    […] Antonio Gramsci, il raggiungimento dell’unità dell’Italia è stato l’esito di una “rivoluzione passiva” perché la maggioranza dei componenti le società civili degli Stati pre-unitari non ha avuto in […]

  • 3 Lucio Girardi
    7 Maggio 2014 - 12:02

    Il rapporto causa-effetto è fin troppo semplice secondo l’autore della chiosa storica… Peraltro Gramsci viveva in una realta resa, storicamente, contrapposta alla realtà storica medio-ottocentesca, per pesare in valutazionim “altre” se non di “partito”. Detto questo, dietro queste osservazioni, è innalzato l’ennesimo paravento, costituito dal vittimismo che, in ogni caso, assolve o tenta di farlo, le vere colpe che rimontano alla triste storia borbonica…

  • 4 GRAMSCI E L’UNITA’ D’ITALIA. I leader del Risorgimento non sono riusciti a creare una nazione italiana. | Storia e Arte veneta
    4 Dicembre 2015 - 17:12

    […] In altre parole, i leader del Risorgimento non sono riusciti nell’intento di creare una nazione italiana. Pertanto, la conclusione ultima che si può trarre dall’interpretazione gramsciana del processo risorgimentale è che l’identità dell’Italia come nazione, all’indomani del 1861, è risultata incompleta. prof. Gianfranco Sabbatini per esteso l’articolo a : https://www.democraziaoggi.it/?p=1420 […]

  • 5 GRAMSCI E IL FALLIMENTO DELL’UNITA’ D’ITALIA… SE LO DICE LUI, MAGARI AL PD CI FARANNO UN PENSIERO? | Storia e Arte veneta
    9 Marzo 2016 - 21:38

    […] del 1861, è risultata incompleta. prof. Gianfranco Sabbatini per esteso l’articolo a : https://www.democraziaoggi.it/?p=1420 Condividi:TwitterFacebookGoogleMi piace:Mi piace […]

  • 6 aldo amico
    5 Settembre 2016 - 16:45

    I Savoia hanno dovuto mettere in campo un esercito di centomila uomini per ridurre alla ragione i popoli del Sud che hanno resistito all’”invasione”per diversi anni
    Il criminale Gen Cialdini ne era il capo e commise ogni sorta di atrocita’ spingendo i resistenti a commeterne a loro volta.
    Molti meridionali fuggirono nelle americhe per non subire le ritorsioni dei conquistatori.
    Anche la Sicilia,la cui conquista risulto’ agevole per la tradizionale avversità ai Borbone di gran parte dei signori feudali,ribellandosi ne ‘66 e Palermo venne bombardata dal mare.
    Insomma una storia molto triste che non può essere contrabbandata per un’epopea.
    I giochi politici internazionali favorirono l’espansionismo del regno di Sardegna verso il Sud che venne letteralmente depredato di ogni risorsa che poteva servire allo sviluppo del Nord.
    Due guerre mondiali e diverse imprese coloniali hanno in parte cementato l’unione tra nord e sud ma esistono ancora sacche di resistenza che potrebbere tornare ad agire e mettere in discussione l’Unità d’Italia che ,nonostante tutto,va difesa e se possibile potenziata eliminando il GAP tra nord e sud.

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