La forza di Nichi e le ragioni di Massimo

27 Giugno 2011
4 Commenti


Carlo Dore jr.

“Sono i movimenti collettivi quelli che determinano i cambiamenti più profondi, più duraturi. Naturalmente la politica oggi è fortemente personalizzata, e ci vogliono leader in grado di interpretare questi movimenti collettivi: però un leader che non sia espressione di un movimento di fondo della società è un finto leader, e alla fine non produce nulla al di là delle sue fortune personali. Un leader che produce un cambiamento profondo nella società è la forma della leadership più moderna e democratica”.
Le riflessioni affidate da Massimo D’Alema al quotidiano “IlPost” hanno ulteriormente alimentato il dibattito relativo alla futura leadership del centro-sinistra, tornato d’attualità dopo l’autocandidatura di Nichi Vendola alle primarie per la guida della coalizione. Le ultime elezioni amministrative – scandite dalle travolgenti affermazioni di Pisapia a Milano e De Magistris a Napoli – sono state caratterizzate più dalle vittorie dei leader che dalle “vittorie di progetto”: si è infatti spesso riscontrata una forte empatia tra leader e popolo, empatia che ha trascinato il successo dei leader talvolta a prescindere dai consensi dei partiti che ne sostenevano la candidatura. Il leader viene applaudito indipendentemente dai suoi errori e dalle sue debolezze, i partiti vengono depotenziati indipendentemente dai loro meriti: nel pactum subiectionis con cui il popolo affida al leader le chiavi del potere, viene dunque messo in discussione il ruolo dei partiti come strumento di formazione e selezione della classe dirigente, come veicolo di partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese.
Proprio questa magica empatia - capace persino di trasformare il mite Giuliano Pisapia, degnissimo politico di lungo corso con alle spalle oltre quindici anni di attività parlamentare, in un campione della riscossa civica – è la linfa vitale che alimenta la narrazione vendoliana: Vendola è la freschezza che mette i brividi ai vecchi castosauri della politica militante, è il grande affabulatore che scalda teste e cuori. E’ il leader che parla al popolo: fuori dagli schemi, fuori dai partiti, fuori dai binari di un progetto di governo. Il leader davanti al progetto, che si rapporta direttamente alla base: questa è la forza di Nichi.
Eppure, la forza di Nichi non sembra tanto intensa da scalfire le ragioni di Massimo: del segretario del PDS che per due volte ha costretto Emilio Fede a riempire di bandierine rosse la mappa della Penisola, del delfino di Berlinguer che per anni ha studiato da naturale punto di riferimento dello schieramento progressista, per poi crollare all’ultima curva del suo brillante cursus honorum. Massimo ha vinto e ha perso: ha chiuso gli occhi dinanzi alle incongruenze del progetto della Bicamerale, ed ha sottovalutato la carica di veleno che poteva trasmettere il morso di un Caimano da tutti dato per moribondo. Ha combattuto chi, nel non lontano 2007, liquidava Prodi come un poeta morente, ed ha denunziato per primo l’intrinseca debolezza che si celava sotto lo smagliante “I care” veltroniano.
Massimo ha vinto e ha perso, ha sbagliato e ha pagato. Ma Massimo ha capito: ha capito che l’empatia tra leader e popolo, i sorrisi patinati, le magliette multicolori ed i manifesti in stile dark possono essere sufficienti per vincere un’elezione, non per governare un Paese. Ha capito come la più volte invocata “alternativa” al berlusconismo passa dalla creazione di un vasto campo di forze afferenti all’area democratica e riformatrice, che sappiano rendersi interpreti di un disegno politico di ampio respiro, fondato sui valori dell’equità, della solidarietà, della giustizia sociale. Ha capito che il carisma di un leader che impone a caratteri cubitali il suo nome sul simbolo della coalizione non è sufficiente a colmare la mancanza di un progetto degno di tale nome, a sopperire alla endemica debolezza di partiti de-strutturati in quanto ridotti a mera cassa di risonanza della voce del capo. Ha capito che la leadership di popolo mantiene una consistenza diversa (e per forza di cose inferiore) rispetto alla leadership di progetto.
E’ proprio su questo punto che la forza di Nichi non può non cedere alle ragioni di Massimo: senza strategie definite, senza una coalizione predeterminata, senza un programma condiviso, le eventuali primarie per la designazione del prossimo candidato premier del centro-sinistra rischiano di creare l’ennesimo leader dimezzato o falso leader, in quanto mero prodotto di un brutale scontro di personalità, del definitivo redde rationem tra quanti si entusiasmano per la leadership di popolo e coloro i quali ancora ravvisano la necessità di sostenere un’autentica leadership di progetto.

4 commenti

  • 1 Aldo Lobina
    27 Giugno 2011 - 09:52

    Forse dovremmo cominciare a ragionare diversamente. In un contesto democratico l’attribuzione a qualcuno della leadership non corrisponde ad alcuna rinuncia di sovranità tanto meno ad un pactum subiectionis, ma alla necessità di diversificare responsabilità di funzioni pubbliche a difesa e protezione dell’interesse generale. Fa bene chi propone prima la necessità di scrivere a più mani un progetto che tocchi chiaramente i nodi sociali e e li affronti pianificando un’azione che si dispieghi in un arco temporale determinato.
    Lavoro, welfare, ambiente, istruzione e cultura, abolizione dei privilegi di casta e riorganizzazione dello Stato, con nuove regole elettorali e rivisitazione della rappresentanza a tutti i livelli.
    Le elezioni primarie sono una bella invenzione, ma non possono limitarsi alla scelta dei cuochi senza affrontare ingredienti e ricette per miscelarli. Ha ragione Di Pietro: bisogna preparare un programma. Convocare gli stati generali di un nuovo partito progressista che dica chiaramente cosa e come fare. Aprendo il dibattito nelle sedi periferiche (partiti, associazioni, movimenti, istituzioni stesse)e portandolo sempre più in alto.Verranno scoperti tanti buoni esecutori di ciò che conviene fare. E non è detto che si tratti sempre di affabulatori.

  • 2 michele podda
    27 Giugno 2011 - 11:58

    Piccola osservazione iniziale: passi “empatia” (comune sentire?), ma “redde rationem” e “pactum subiectionis” no; gente comune come noi deve riaprire il dizionario di latino e il tempo non c’è.

    Mi verrebbe da dire: Ma si è capito solo ora che Massimo ha capito? E da molto, anche. “Ha chiuso gli occhi dinanzi alle incongruenze del progetto della Bicamerale”? Forse voleva soltanto portare allo scoperto le incongruenze, perchè solitamente non chiude gli occhi, anzi a costo di “perdere” come sappiamo punta al pragmatismo, alla concretezza, alla chiarezza.

    Il bello è che Massimo, in quanto a “trascinare le folle” non è indietro a nessuno: certo si ferma alle colline nelle sue prospettive, difficilmente prevede mari e monti (arte di B. e forse un pochino anche di Nichy, Di Pietro …).

    A proposito di “leadership di popolo”, due piccoliesempi nostrani:
    - Massimo Zedda, persona deliziosa, afferma che “ora tocca a noi”, e va bene; poi che “Cagliari spicca il volo”, sempre più difficile; poi che “ho vinto perchè non ho promesso niente”, mi sembra un po’ troppo. Qualcosa bisogna promettere: intenzioni, programmi, progetti.
    - Efisio Arbau, giovane promettente e capace, candidato alle ultime provinciali di Nuoro. La sua lista? Doppia: a) DEMOCRATICI CON ARBAU b) COMUNITA’ DEMOCRATICA CON EFISIO. Un po’ troppo.

  • 3 marco ligas
    27 Giugno 2011 - 19:33

    Due provocazioni sull’intervento di Carlo Dore nel tentativo di promuovere una discussione:
    1) Facciamo santo, al più presto, possibilmente subito, Massimo. Se lo merita, non foss’altro per la bicamerale, per il patto della crostata, per i continui tentativi di discutere (e magari governare) col centro, sulle questioni del lavoro senza irritare Ichino o Marchionne e neppure Bonanni e Angeletti (perché questa Fiom esagera), oppure sulla Torino-Lione (basta con questi No Tav). E poi Massimo, quando perde, sa davvero mettersi in disparte; piuttosto riflette e si prepara per la sortita successiva, naturalmente sempre nel ruolo di leader.
    2) Davvero le ultime elezioni amministrative (e anche i referendum) sono state caratterizzate più dalle vittorie dei leader che dalle “vittorie di progetto”? Non è che molti elettori, stufi di subire l’arroganza di chi governa e l’inadeguatezza dell’opposizione, hanno mandato dei segnali precisi perché si cambi registro indicando anche i programmi? Allora sono i leader senza progetto l’aspetto più importante di questa fase o gli elettori e tutta l’area del centro sinistra che vogliono cambiare e scelgono i leader ritenuti più capaci per il cambiamento?

  • 4 Giulio C.
    28 Giugno 2011 - 17:33

    1- Aspetterei di capire qual è il programma di Vendola almeno per confrontarlo. La lettura dell’intervista sul corriere e il suo sdoganamento al centro sul welfare, consiglierebbe di aspettare.
    Di sicuro non è uomo di primo pelo .Votò contro Prodi nel 96.
    2- Le vittorie delle amministrative e del referendum segnano un’inversione di tendenza, ma senza riuscire a costruire un quadro di valori condivisi e di progetti, possono disfarsi molto in fretta. Basterebbe non avere la memoria corta e guardarsi all’indietro. ‘92 o 2005 per esempio. Ma per costruire come abbiamo visto in questi anni, per costruire egemonia, un consenso solido e non liquido servono strutture ed organizzazioni. Serve classe dirigente, e non un leader con la sua corte di creativi tutti assunti tra pubblico e privato. Forse dovremmo ragionare sui fallimenti del passato, non attribuendo responsabilità personali, ma capendo il perchè e da quale tipo di macchina politica sono stati creati. Da quando sono crollati i partiti e tutto è stato lasciato all’uomo solo al comando, con i suoi fondi, le sue amicizie, i suoi legami con le lobby di qualsiasi tipo, siano di destra e di sinistra, in Italia è mancato un serio progetto nazionale.

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