Polito: un riformista moderato o un restauratore confuso?

20 Giugno 2013
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Gonario Francesco Sedda

Recentemente Antonio Polito ha voluto “approfondire” l’argomento della «riforma costituzionale» [Corriere della sera, Dietro le proposte sul presidenzialismo/Il sospetto indelebile, 13 giugno 2013]. Mi sembra utile analizzare alcuni punti (riportati in corsivo) della sua costruzione ideologica, in quanto “luoghi comuni” dei riformisti moderati e dei restauratori.



1. «Tutte le riforme sono una gran rottura per chi non vuol cambiare».
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Le riforme sono una gran rottura oppure no, secondo ciò che viene cambiato e a favore di chi.
Le riforme che favoriscono chi ha sempre governato e comandato, che ne consolidano la sua forza in fase egemonica e/o di comando verranno respinte e combattute da chi poco o niente ha governato e comandato.
Anche la Carta costituzionale è una grande riforma che è stata ed è sempre “una gran rottura” per chi ha governato e comandato: sempre, anche quando era ancora fresco il ricordo delle dittature nazifasciste; sempre, anche quando non potevano essere evocati i grandi cambiamenti epocali degli ultimi decenni; sempre, anche ora che si cerca di liquidarla in un quadro di “restaurazione passiva” (di una regressiva egemonia ideologica liberal-liberista).
Altro che l’espediente retorico di una confusa contrapposizione tra il cambiamento – le riforme (?), il nuovismo – buono di per sé e il conservatorismo di chi “non vorrebbe” cambiare.

2. «Anche il più prudente dei conservatori dovrebbe accettare l’urgenza del cambiamento», se “capisse” che le riforme intervengono su un «sistema politico già rotto».
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Dipenderà da cosa si è rotto. Bisognerà andare oltre la banalità dell’usa e getta. Occorrerà tenere distinto l’aspetto costituente da quello politico-congiunturale: non separare l’uno dall’altro, ma neppure confondere l’uno con l’altro.
Del resto le convinzioni “costituenti” di Antonio Polito sono salde già prima degli ultimi «due anni e mezzo» nei quali il governo italiano «non è più espressione del voto dei cittadini»: rafforzare a scapito del parlamento il potere esecutivo concentrandolo sul capo del governo, senza escludere il semipresidenzialismo o il presidenzialismo. Legge elettorale maggioritaria e elezione diretta del capo del governo e/o dello Stato dovrebbero essere due elementi caratterizzanti della Costituzione “riformata”. Più che di un «sospetto indelebile», si tratta dell’evidenza di un vecchio ideologismo – il potere salvifico del presidenzialismo – che non nasce affatto dall’urgenza del presente nazionale né della rapace globalizzazione dentro cui viviamo. A dispetto di qualsiasi preteso coraggio riformista, si tratta di un cambiamento che guarda a un passato più o meno lontano: la “novità” consisterebbe nel copiare in tutto o in parte soluzioni istituzionali che si trovano in altre Costituzioni già esistenti. Dunque, lo scontro sulla “riforma costituzionale” è non tra il “nuovo” della destra liberal-liberista e il vecchio dei repubblicani difensori della Costituzione, ma tra due modi diversi di intendere la democrazia. Oggi, qui in Italia, difendere la Costituzione vuol dire cercare di fermare la deriva oligarchica e plebiscitaria del blocco di potere dominante e riaffermare l’irrinunciabilità di un processo democratico che sia rappresentativo e partecipato.
Chiunque veda nella democrazia rappresentativa e partecipata un ostacolo per governare è “almeno” un conservatore (se non è un oligarca o un dittatore).

3. «Eppure è bastato un barlume di possibile accordo tra i partiti sulla riforma costituzionale per far scattare il riflesso pavloviano di chi da vent’anni crede che riforme e berlusconismo siano sinonimi».
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In realtà l’unico riflesso pavloviano che scatta è quello di Antonio Polito, che ripete i suoi schemi ideologici banalmente semplificativi. No, davvero! Riforme e berlusconismo non sono “sempre” sinonimi. Anzi possono essere in opposizione e non si può sostenere che non possano essere “mai” in opposizione.
Al contrario, sembra che sia proprio Antonio Polito a credere che le “vere” riforme siano solo quelle gradite a Berlusconi e che dunque, in Italia e in questa contingenza politica, «riforme e berlusconismo siano sinonimi» (o quasi).
Naturalmente il “berlusconismo”, anche sul terreno istituzionale, non è un’invenzione di Berlusconi o un fenomeno esclusivamente legato alle sue personali prestazioni e dovuto ai vantaggi del suo personale prepotere. La cultura e la politica di S. Berlusconi trovano ispirazione nell’elaborazione e nella pratica della destra internazionale (specialmente del più retrivo repubblicanesimo americano).
Resta il fatto che le riforme istituzionali che Antonio Polito gradisce si trovano nella stessa traiettoria di quelle di S. Berlusconi. Ma lo spassionato scienziato di architettura politico-istituzionale – che ha scoperto la ormai notissima “acqua calda” del capo di governo con più poteri ed eletto direttamente (o del semipresidenzialismo o del presidenzialismo) – non si scompone per lanciare «allarmi di svolta autoritaria, pericoli di scorciatoie carismatiche, mobilitazioni in difesa della Costituzione». Smentendo la saggezza popolare, lo spassionato scienziato grida con forza che “è l’abito a fare il monaco”. Le questioni di contesto sono questioni di lana caprina. Con una stoccata tenta di metterci a terra: forse che la Francia semipresidenziale è una Repubblica delle banane?

4. «Hanno respinto a turno anche il modello americano perché dà troppi poteri al presidente, l’inglese perché ne dà troppi al premier e il tedesco perché ne dà troppi al cancelliere. Ora bocciano il francese … ».
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I frequenti riferimenti all’erba del vicino che “a prescindere” è sempre più verde sono a rischio di confusione e possono dissimulare le reali preferenze di chi li fa. Così il fatto che i modelli statunitense, inglese, tedesco e francese abbiano in comune un capo forte (come presidente o premier o cancelliere) non spiega di per sé perché il modello tedesco sia meno gradito e frequentato degli altri tre. La ragione è fuori lista ed è il fatto che in Germania si vota con sistema proporzionale corretto, mentre nelle altre nazioni si vota con sistema maggioritario “scorretto” (Usa e Regno Unito) o “corretto” (Francia).
Riguardo al presidente degli Usa non sembra neppure che abbia “sempre” troppi poteri. Il suo potere sembra essere potenziato quando il suo programma è in sintonia con la costituzione materiale del paese e depotenziato quando non lo è. L’attuale presidente Obama ha avuto ed ha sicuramente “molto” potere e tuttavia tutto il suo potere non gli è bastato e non gli basta per realizzare almeno una buona parte del suo programma. Non gli è bastato neppure per qualche punto simbolicamente importante (la chiusura della prigione di Guantanamo) o per qualche legge di civiltà (la limitazione e regolazione della vendita di armi ai privati cittadini, almeno di quelle di guerra) o per conservare gli aspetti più progressivi della sua riforma della sanità o per far partire un piano di risanamento, riqualificazione e potenziamento della scuola pubblica. Insomma, il presidente Obama rischia di essere ricordato non tanto per il poco che ha fatto pur avendo “molto” potere, ma per quello che di osceno non ha fatto a confronto della screditata combriccola dei Bush.
Occorrerebbe un’analisi concreta di ogni situazione concreta e non una guerra di etichette. Repubblica delle banane e democrazia evocano significati diversi che bastano per scegliere la seconda rispetto alla prima. Ma non basta neppure fermarsi al significato evocativo di democrazia. Vi è democrazia e democrazia.
Lo statunitense R. A. Dahl, un teorico “liberal” del processo democratico, affermava [La democrazia e i suoi critici, Roma, 1990] che «l’idea di democrazia è universalmente popolare», ma avvertiva anche che «un termine che significa tutto, in definitiva non significa niente». Proprio il termine democrazia, secondo R. A. Dahl, «attualmente non ha un significato delimitato e preciso, ma funge piuttosto da vago avallo a un’idea popolare».
Allora, di quale democrazia – con un significato delimitato e preciso – si vuole discutere?

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