Cagliari malata di “sviluppite”

21 Aprile 2014
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Giorgio Todde Il Manifesto 16.4.2014

 

 

Mercoledì scorso Il manifesto ha pubblicato una bella pagina su Cagliari. Oggi, Pasquetta, chi va in giro per la città può vederla con occhi più consapevoli, dopo la lettura dell’articolo dello scrittore Giorgio Todde, che qui pubblichiamo.

 

 

La città è cresciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filosofia del costruire. Amnesia del passato. Ha ricoperto di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpato la sua spiaggia abbagliante. Violato con bitume, palazzi e fabbriche gli stagni sconfinati a est e a ovest. E tutto questo lo chiama «sviluppo»

 

 

Cagliari, il quartiere Sant’Elia

 

I nura­gici erme­tici. Poi i Fenici trac­ciano le rotte. Poi la città diventa Punica e poi romana per molti secoli. Poi i Van­dali. Poi Bisan­zio e i due evi medi. L’epoca dei Giu­di­cati, le inva­sioni more­sche, i Pisani e i Geno­vesi. Eleo­nora d’Arborea e il suo nuovo ordi­na­mento, la Carta de Logu. Poi, a lungo, gli spa­gnoli e la deca­denza. Il Set­te­cento, i Savoia, il Regno di Sar­de­gna la rivo­lu­zione poi e la moder­niz­za­zione otto­cen­te­sca. Gli echi del Risorgimento.

Poi il XX secolo. Anto­nio Gram­sci fa il suo liceo a Cagliari. La car­ne­fi­cina della Grande Guerra. Pastori e con­ta­dini, riu­niti nella Bri­gata Sas­sari man­dati a morire sul Carso e Emi­lio Lussu. Poi il fasci­smo, la seconda guerra, l’occupazione tede­sca senza san­gue, i bom­bar­da­menti anglo-americani del ‘43. La città ini­zia la sua rico­stru­zione e l’inurbamento è feroce. Nasce una nuova classe diri­gente insieme ai nuovi brutti quar­tieri, anni 50 e 60, che la raf­fi­gu­rano. L’edilizia cac­cia via l’architettura. Impre­sari e com­mer­cianti dise­gnano la città sulla pro­pria imma­gine e pro­du­cono una gene­ra­zione poli­tica con­for­mata, come un calco di gesso, alla loro visione mate­riale delle cose. I cosid­detti intel­let­tuali si rifu­giano in un mondo sognante vicino all’infanzia, lon­tano dalle azioni.

Ma qual­cosa cam­bia negli ultimi decenni. Si smette di masti­care i fiori di loto e la memo­ria ritorna nella testa di alcuni. La città si guarda, si rico­no­sce. Si risve­glia un’anima cri­tica che comu­nica, osserva ed è inte­res­sata alle pro­prie ori­gini. E ricava ener­gia dal pas­sato senza essere pas­sa­ti­sta. Guarda indie­tro per essere moderna per­ché quando uno sa da dove viene non ha biso­gno di altro. E si oppone alla fre­ne­sia del fare a tutti i costi. Però l’altra anima, quella mer­can­tile, resta forte.

La città è cre­sciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filo­so­fia del costruire. Amne­sia del pas­sato. Ha rico­perto di asfalto e cemento il suo con­tado agri­colo e lo chiama hin­ter­land. Detur­pato la sua spiag­gia abba­gliante. Vio­lato con bitume, palazzi e fab­bri­che gli sta­gni scon­fi­nati a est e a ovest. E tutto que­sto lo chiama «svi­luppo» men­tre dimo­stra che quando la poli­tica si con­fonde con l’impresa ci si ammala di un morbo che si chiama sviluppite.

Cagliari è un’incubatrice di que­sta malat­tia. Però la sto­ria è incan­cel­la­bile. I luo­ghi resi­stono e met­tono in movi­mento gli avve­ni­menti. I morti della necro­poli di Tuvi­xeddu pos­sie­dono la forza dell’assoluto e ancora deter­mi­nano con­se­guenze. La rocca medie­vale resi­ste ai ten­ta­tivi di ren­derla «pro­gre­dita» con scale mobili e fer­ra­glia. Il pro­mon­to­rio sacro della Sella del Dia­volo resterà intatto anche se la città fame­lica gli gira intorno. E l’acropoli di Castello resi­sterà ai nuovi asse­dianti che oggi vogliono un vol­gare garage den­tro le sue mura.

Nel 1956 avevo cin­que anni. Il brac­cio quasi lus­sato quando pas­seg­giavo a traino delle mani inac­ces­si­bili di mio padre, il lun­go­mare, il mer­cato al cen­tro della città, le bar­che che tor­na­vano tanto cari­che che i pesca­tori sta­vano in piedi sui cumuli di pescato, allora i polpi sem­bra­vano pio­vre, le anguille scap­pa­vano dalle cesti nelle cor­sie del mer­cato, i pesci boc­cheg­gia­vano. Era bello e sarebbe stato più bello ancora se fosse durato.

Ma i fat­tisi muo­ve­vano per neces­sità che non com­pren­devo. E non obbe­di­vano a nessuno.

Ero troppo pic­colo per capire cosa acca­deva alla mia città, troppo basso per vedere le prime gru. Oppure, sem­pli­ce­mente, non guar­davo per­ché, appeso alla mano di mio padre, osser­vavo solo le cose vicine oppure l’orizzonte marino, l’unico oriz­zonte per me.

So che i monti che vedevo a meri­dione erano il pro­filo dei monti del golfo, ma allora cre­devo che fosse l’Africa per­ché sen­tivo ripe­tere che la città più vicina alla mia era Tunisi. Poche ore di traversata.

Dalle mie rive, certo, non si vedeva l’Africa. Fu una delu­sione. Però con­ti­nuai a crederci.

Un giorno mamma ci portò a vedere una nuova mera­vi­glia che il mae­stro, ammi­rato dal pro­gresso ben­ché con­ser­vasse la sua casa come un salotto di Nonna Spe­ranza, ci aveva già annun­ciato a scuola.

Il grat­ta­cielo.

Be’, era solo un brutto palazzo di dodici piani. Ma era il nuovo pre­sente e tutti vole­vano solo pre­sente e futuro.

Mai visto dal vero un palazzo così alto.Non fu stu­pore quello che pro­vai vedendo quel lungo paral­le­le­pi­pedo gri­gio con decine e decine di fine­stre fune­ra­rie. Ancora oggi ricordo la sen­sa­zione di per­dita che pro­vai e ricordo che non com­presi, ero troppo bam­bino, quel sentimento.

Quella costru­zione infan­til­mente chia­mata grat­ta­cielo, che ancora esi­ste, ha segnato la nascita in città dell’eternamente brutto. Sì, quel palazzo era brutto dalla nascita, tal­mente brutto che diventò proverbiale.

Però il brutto è epi­de­mico e quando ini­zia si mol­ti­plica con enig­ma­tica testar­dag­gine. Non lo fermi più. Deve, si vede, neces­sa­ria­mente tra­scor­rere e con­clu­dersi un’epoca.

Eppure tutti vedevano.

Fu un’amnesia di massa che non è mai ces­sata da allora. E chissà se riac­qui­ste­remo mai la memoria.

Ma, l’ho detto, tutti vole­vano abban­do­nare il pas­sato, anche quello buono.

Mia nonna, men­tre pas­seg­giavo e gio­cavo in un ter­ra­pieno da dove si vedeva la città in basso, mi disse un giorno che comin­ciava a esserci troppo cemento e che tutti que­sti nuovi arri­vati dal con­tado — così chia­mava gli inur­bati che arri­va­vano da ogni parte dell’isola — sta­vano ren­dendo deforme la città. Che lei era comu­ni­sta, ma que­sto non le impe­diva di capire che c’erano per­sone rese feroci pro­prio dall’arrivo in città e che ave­vano l’urgenza di far vedere chi erano. Che costruire un muro, una casa, un palazzo era il modo più facile di far vedere quello che si vale. E che un igno­rante non sa mai di essere ignorante.

Appena tirano su un muro si fanno chia­mare cava­lieri e com­men­da­tori, ripeteva.

D’altronde il cemento aveva reso facile e pos­si­bile a tutti l’azione di costruire. L’intera nazione ribol­liva di cemento, ma io non lo sapevo. E nep­pure nonna. Però osser­vava la sua città.

Lei vedeva la brut­tezza del cemento, capiva che non si può met­tere insieme cemento e pie­tra per­ché invec­chiano in modo diverso, che la pie­tra si smussa e che il cemento faceva solo angoli.

Il cemento è un mate­riale che non sa invec­chiare. La pie­tra, invece, è già vec­chia, esi­ste da milioni di anni. Il cemento costringe chi lo usa a dise­gnare forme squallide.

Era squal­lido anche il bar aperto al piano terra nel «grat­ta­cielo», cat­tive le brio­che, il caffè puz­zava di bru­ciato e un moscone gia­ceva a pan­cia all’insù, mum­mi­fi­cato per sem­pre in un angolo della vetrina pretenziosa.

Den­tro quel palaz­zone c’erano però alcuni segnali impor­tanti del pre­sente che sedu­ceva la comu­nità e la con­vin­ceva che il pas­sato era vergognoso.

Però è vero che nella mia città una luce che non finiva nep­pure la notte e un sole felice anche d’inverno mi face­vano sen­tire for­tu­nato e lon­tano da ogni pericolo.

Tra­slo­cammo nel 1962 in una nuova casa.

E tutto mutò.

La nostal­gia è un sen­ti­mento indi­spen­sa­bile, ma deve essere orga­niz­zato. Sennò si sof­fre. Oltre­tutto distorce, nelle sua forma malata, la realtà, i ricordi e l’interpretazione del presente.

Tra­slo­cammo, dicevo, che avevo dodici anni. Una casa lumi­nosa, moderna, con due bagni, con davan­zali, una por­ti­ne­ria, l’ascensore e vicina all’orto botanico.

Quel quar­tiere era il con­fine della città sto­rica, però mi sem­brava un salto nel futuro. E ogni volta che pas­sa­vamo vicino alla vec­chia casa tra­sci­navo la mano che mi con­du­ceva per entrare den­tro il por­tone. Come quei cani che tirano quando sono vicini alla casa del padrone morto.

Il tra­sloco cam­biò i giorni e le ore della fami­glia, cam­biò per­fino l’espressione dei geni­tori, il lin­guag­gio, i vestiti, le abi­tu­dini a tavola, la puli­zia dome­stica e per­fino l’igiene del corpo, gli odori e la memo­ria degli odori​.Il tra­sloco è l’allegoria del cam­bia­mento ine­vi­ta­bile, ma non necessario.

Con il camion carico di mobili apparve la dif­fe­renza tra pre­sente e pas­sato, tra una fine e un inizio.

Babbo aveva bat­tuto a mac­china il suo nome su un foglio, rita­gliato la stri­scia di carta e l’aveva infi­lato nella fes­sura del nuovo cam­pa­nello. Poi aveva letto a voce alta il pro­prio nome e schiac­ciato il pul­sante. Quel trillo era il segnale della città nuova.

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