La falsa interpretazione moderna del neoliberalismo

20 Agosto 2014
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Gianfranco Sabattini

 

 

Sul numero 35/2014 delle rivista bimestrale di intervento culturale “Alfabeta”, Paolo Godani, ricercatore presso l’Università di Pisa, svolge in un articolo, dal titolo di per sé eloquente, “L’anima moderna del neoliberalismo”, alcune interessanti considerazioni; egli evidenzia come gli esegeti moderni del neoliberalismo ne “spaccino” una versione normativa, rifacendosi alla riformulazione degli anni Trenta del liberalismo classico, sulla base di assunti “falsi” e “pretestuosi”.
Una delle idee più nefaste, afferma Godani, è l’assunto che, per comprendere il neoliberalismo, occorra associare il “suo programma di liberalizzazione economica al diffondersi di una deregulation morale e di un edonismo generalizzato”. A tutti coloro che si arroccano dietro quest’idea, giusto per promuovere il più possibile gli “animal spirit” del capitalismo, attraverso la demolizioni delle basi morali delle convivenza civile e dei valori della tradizione, sostituendoli con quelli di una società individualista, nichilista e consumista, occorre fare presente che il neoliberalismo, come in parte il liberalismo originario, fosse inteso nella sua traduzione normativa (cioè nella sua traduzione liberista), a livello sia economico che politico, “come un’equilibrata combinazione di deregolamentazione economica e di disciplinamento morale sociale”.
Per capire come il neoliberismo (traduzione normativa del neoliberalismo) non si concili con un’etica libertaria senza limiti, ma abbia bisogno di un “solido arsenale di valori tradizionale”, va considerato come esso sia nato e quali siano stati gli attori che l’hanno promosso; ciò consentirà di capire l’errore di chi, nel corso del tempo, ha finito col confondere il neoliberalimso con il fondamentalismo di mercato. Il neoliberalismo è un’ideologia elaborata nel 1938, nel corso di una conferenza organizzata a Parigi, con lo scopo di formulare un nuovo liberalismo, dopo il declino del liberalimso originario degli anni Venti e Trenta, come reazione al collettivismo socialista, ma anche al liberismo “laissezfairista”. In quell’occasione, il termine neoliberalismo è stato introdotto da Alexander Rüstow, in contrapposizione al liberalismo classico; la conferenza, denominata “Colloque Walter Lippmann”, era stata organizzata per discutere l’analisi svolta dal famoso giornalista americano nel libro “The Good Society” (la cui traduzione italiana porta il titolo “La giusta società”), pubblicato nel 1937.
Alla conferenza hanno partecipato, oltre a Lippmann, il fior fiore degli “ordoliberalisti” tedeschi, quali Wilhelm Röpke e Alexander Rüstow (Walter Eucken era assente, perché non gli è stato permesso di lasciare la Germania), i teorici della scuola austriaca Friedrich Hayek e Ludwig von Mises ed altri famosi studiosi, tra cui Raimond Aron e Jacques Rueff. I partecipanti alla fine della conferenza hanno deciso di dare luogo ad una organizzazione per promuovere l’ideologia neoliberalista. A causa della guerra, l’organizzazione non è riuscita a divenire operativa e, dopo il conflitto, è stata sostituita, per iniziativa di Friedrich Hayek, dalla Mont Pelerin Society.
Non a torto, alcuni critici considerano “nefasta” l’ideologia elaborata alla conferenza di Parigi, in considerazione del fatto che, definita nel corso degli anni Trenta, si è affermata negli anni Settanta, per essere utilizzata, non disinteressatamente, ai fini della spiegazione delle cause della crisi finanziaria mondiale del 2007/2008; in altri termini, per sostenere che solo un mercato libero da ogni sorta di vincolo può realizzare un ottimo economico e che la regolamentazione economica e politica deve avere solo lo scopo di garantire il corretto funzionamento del quadro istituzionale del sistema economico (la guardiania notturna) e non quello di modificare deliberatamente l’ordine spontaneo assicurato dal funzionamento del libero mercato.
Ciò significa rinvenire l’origine della crisi del capitalismo attuale nel ruolo regolatore e promotore di progresso economico e sociale dello Stato e la causa degli effetti perversi che condizionano il funzionamento delle istituzioni economiche e sociali nel sistema di protezione sociale realizzato. Resta, perciò, la questione di stabilire se il neoliberalismo, così come viene interpretato dai suoi eredi moderni, abbia qualcosa a che fare con il neoliberalismo della conferenza di Parigi o con quello della Mont Pelerin Society.
Tra l’originaria formulazione dell’ideologia neoliberalista e la sua lettura moderna non esiste alcuna relazione; infatti, se è vero che il neoliberalimso del “Colloque” parigino si fonda sulla dimensione della concorrenzialità del mercato affrancato da ogni vincolo statuale, non è meno vero che la pratica neoliberista conseguente era consapevole del fatto che il principio di competitività del mercato tende a “dissolvere piuttosto che unire”, tende cioè a “distruggere i legami sociali e morali tra gli agenti economici”, per cui essa prevedeva la costruzione di un “inquadramento politico e morale” che impedisse “il disgregarsi della comunità, garantendo una concertazione tra uomini ‘naturalmente radicati e socialmente integrati’”.
In altre parole, il neoliberalismo, per quanto conservatore e “autistico” rispetto alla modernizzazione della morale e della politica, non “lasciava libero sfogo agli spiriti animali del mercato senza compensarne il carattere selvaggio con la costruzione di dispositivi che garanti[ssero] la tenuta morale e sociale della ‘comunità’”. La necessità di questi dispositivi, secondo i formulatori del neoliberalismo, non era una implicazione ideologica, in quanto gli interventi regolatori corrispondevano, in termini di necessità, all’esigenza strutturale di una disciplina del funzionamento del sistema economico in presenza della generalizzata concorrenzialità del mercato. Conclusivamente, anche nella sua versione neoliberale, il capitalismo è un sistema “non solo economico, ma economico-istituzionale, in cui i dispositivi istituzionali governano la produzione di una soggettività senza di cui l’intero sistema non potrebbe conservarsi”.
L’analisi di Godani è senz’altro condivisibile; l’unico punto che solleva qualche dubbio è la validità della sua osservazione, secondo cui il “keynesismo…che ancora oggi sembra attrarre i cuori e le anime delle sinistre mondiali non si distingue in fondo, dalla logica del neoliberalismo”; l’osservazione implica una valutazione riduttiva del keynesismo; se essa corrispondesse al vero, il keynesismo sarebbe una “fotocopia” dell’hayekismo e, dunque, una riproposizione del conservatorismo proprio della scuola ordoliberalista e di quella austriaca. John Maynard Keynes, invece, si colloca lontano dal neoliberalismo del “Colloque” parigino e, pur inquadrato nella prospettiva del liberalismo originario, egli rientra a pieno titolo nella interpretazione che di esso ne offre la tradizione del repubblicanesimo, la cui traduzione normativa dista anni luce da quella propria del neoliberalismso formulato negli anni Trenta e, a maggior ragione, anche da quella dei neoliberali moderni.

 

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