L’ascetico Jeremy Corbyn alla guida del Labour

20 Settembre 2015
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Leonardo Clausi

 

Torniamo sull’importante successo di Corbyn nelle elezioni per la scelta del leader del Labour Party, con questo articolo apparso su Il Manifesto del 13 scorso. L’evento merita attenzione perché, insieme a quanto avviene in Grecia e in Spagna, delinea una inversione di tendenza nella sinistra europea rispetto alla deriva neoliberista. C’è insomma una ripresa della sinistra, che, per quanto ancora in embrione, non va sottovalutata.

Tutto il potere a Jeremy Ber­nard Cor­byn: la base del par­tito ha par­lato quasi all’unisono, e ad alta voce. Con un’assordante mag­gio­ranza del 59,5 % delle pre­fe­renze ha eletto al primo turno un ses­san­ta­seienne che per 32 anni – dal 1983 – ha ser­vito dalle retro­vie della sini­stra socia­li­sta votando quasi rego­lar­mente con­tro la linea uffi­ciale. Il suo vice sarà Tom Watson, classe 1967, di Shef­field, un moder­niz­za­tore esperto in comu­ni­ca­zione digi­tale e impla­ca­bile nemico della stampa di Murdoch.
I risul­tati di cia­scun can­di­dato sono letti in ordine alfa­be­tico. Nell’apprendere del suo mise­ra­bile 19%, il volto di Andy Bur­n­ham, il favo­rito ini­ziale, impie­tri­sce: gli occhi paiono lucidi. Yvette Coo­per rie­sce a incas­sare il pro­prio ancora più magro 17% con assai mag­giore stile. Del 4,5% di Liz Ken­dall, unico can­di­dato aper­ta­mente filo­mer­cato, si saprà solo più tardi, una volta pla­ca­tosi il boato all’annuncio del mega­li­tico 59,5% di Corbyn.
Strana cop­pia que­sto lea­der e il suo vice: accanto all’ascetico e allam­pa­nato Cor­byn, il look da pub­bli­ci­ta­rio ram­pante di Watson lo fa sem­brare il suo spin doc­tor. È anche que­sto un segno della cesura quasi antro­po­lo­gica che attra­versa l’anima dell’ex New Labour, che sarà impari com­pito del nuovo lea­der col­mare quanto più pos­si­bile.
Così Cor­byn, il Cin­cin­nato che ha lasciato con rilut­tanza le quiete ope­rosa del suo orto — «vi cre­sce­ranno delle erbacce, ma vi farò pre­sto ritorno» — aveva detto can­di­da­mente dopo essersi lasciato con­vin­cere alla can­di­da­tura, si è visto con­se­gnare le chiavi del par­tito da una sala sbi­got­tita, i cui sen­ti­menti anda­vano dalla stizza amara al puro stu­pore, dal ras­se­gnato cini­smo alla supina accet­ta­zione, dalla pre­oc­cu­pata rifles­sione al più incon­te­ni­bile entu­sia­smo. Non è dif­fi­cile capire per­ché: Cor­byn — l’uomo che cadde sulla lea­der­ship, a voler para­fra­sare il film di Nico­las Roeg con un indi­men­ti­ca­bile David Bowie che inter­preta un alieno — ha rice­vuto più con­sensi di Blair stesso nel 1994. Un man­dato ciclo­pico che ne fa il lea­der indi­scusso, con buona pace dei non pochi pro­fes­sio­ni­sti di un par­tito da tempo ormai troppo a suo agio nella stanza dei bottoni.
Fu così che le mille anime del Labour party, diven­tato ormai una galas­sia da per­cor­rere con il satel­li­tare, si tro­va­rono di fronte a un fatto com­piuto quanto ine­lut­ta­bile. Nel vociare delle rea­zioni alla vit­to­ria e gua­dando le tele­ca­mere, l’uomo che in pochis­simi ave­vano già sen­tito par­lare e la cui esi­stenza prima di tre mesi era del tutto ignota ai più ha poi rag­giunto il podio per il key­note speech, pro­prio come a Cuper­tino. Banco di prova enorme, quello del discorso: rito col­let­tivo nel quale ci si stringe attorno al neo-leader osteg­giato fino a poco prima secondo le sue capa­cità ora­to­rie e tea­trali. E davanti a una pla­tea a dir poco fram­men­tata in un calei­do­sco­pico tumulto di emo­zioni con­tra­stanti. Chuka Umunna, il gio­vane e dina­mico aspi­rante lea­der «moder­ni­sta», con­si­de­rato il vero favo­rito alla lea­der­ship e pro­ta­go­ni­sta di un sen­sa­zio­nale ritiro per que­stione di pri­vacy, osserva con con­di­scen­denza, inap­pun­ta­bile nel suo com­pleto simil-Savile Row.
Eppure Cor­byn, un uomo chia­ra­mente a disa­gio sotto i riflet­tori e che non può van­tare la par­te­ci­pa­zione gio­va­nile a quiz della tele­vi­sione com­mer­ciale né la fami­lia­rità con la Play­sta­tion di altri suoi col­le­ghi euro­pei, nel suo discorso ha fatto capire come pro­prio que­sta sua ina­de­gua­tezza media­tica strut­tu­rale, mesco­lata alla dispe­rata ricerca di un senso da resti­tuire alla parola socia­li­smo da parte di così tanti mem­bri e sim­pa­tiz­zanti Labour, sia la forza anti­re­to­rica (non anti­po­li­tica) alla base del suo successo.
Un discorso vaga­mente idea­li­stico, posato ai limiti del pede­stre, meta­fo­ri­ca­mente neu­tro. Les­sico povero ai limiti dell’ascesi: che vuole tra­sci­nare senza vir­tuo­si­smi, per­sua­dere senza incan­tare. Soprat­tutto, pre­oc­cu­pan­dosi di sod­di­sfare l’imperativo prin­ci­pale: quello dell’unità del par­tito. Sapendo di essere fino a ieri parte di una mino­ranza ex-perenne inspie­ga­bil­mente tra­smu­tata in mag­gio­ranza nello spa­zio di tre mesi, sapendo che la pro­pria ele­zione pro­mette una ridda di rea­zioni tutt’altro che favo­re­voli da parte dell’establishment del par­tito, la sua prima pre­oc­cu­pa­zione è stata l’invito a stare uniti. La sfilza di umili rin­gra­zia­menti ai limiti del tedio a tutti, avver­sari com­presi, andava pro­prio in que­sta dire­zione. Che non hanno man­cato di toc­care i cuori di Bur­n­ham, Coo­per e Ken­dall, ai quali è stata tesa la mano dell’ecumenismo nel nome di una vit­to­ria alle poli­ti­che del 2020 improv­vi­sa­mente meno chi­me­rica per tutti. Ripe­tendo, sì, «pas­sione» e «appas­sio­nato» in quasi ogni frase. Ma anche usando fre­quen­te­mente la parola «movi­mento», ormai ban­dita da qua­lun­que abbe­ce­da­rio neo­la­bu­ri­sta. Par­lando di pace, di ugua­glianza, di ambiente e di tante altre cose «scon­fitte dalla sto­ria». E improv­vi­sa­mente, com­plice forse un’improvvisa soli­da­rietà nel nome delle recenti bato­ste subite, per un attimo molti sor­risi da cir­co­stanza si sono fatti sinceri.
Non avrà vita facile quest’alieno che i media di regime, come alcuni stessi com­pa­gni di par­tito, sono soliti descri­vere come la tri­bute band di un trotz­ki­smo anni Ottanta: il mini­stro ombra della sanità, Jamie Reed, annun­ciava quasi con­tem­po­ra­nea­mente le sue dimis­sioni. La com­po­nente par­la­men­tare del par­tito gli è per il 90% ostile. Ma i numeri di Cor­byn non si discu­tono: sedi­ci­mila volon­tari nella sua cam­pa­gna, un’enorme par­te­ci­pa­zione gio­va­nile con­si­de­rata «per­duta», più di 500.000 fra iscritti o affi­liati. Numeri – e idee — che in que­sto momento par­lano di più e meglio di un buon comu­ni­ca­tore qualsiasi.

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