Insularità, referendum e venditori di orologi taroccati

17 Ottobre 2017
3 Commenti


T. D.

 

È ormai raro che mi metta così esplicitamente di traverso e a rischio di  attirarmi non solo antipatie, ma vere e proprie inimicizie, su determinate  iniziative politiche. Quando le considero inutili o quando non mi  sembra che facciano particolare danno, mi limito in genere a lasciar correre.
Su una però, recentemente lanciata in Sardegna dai “Riformatori” (ex  Patto Segni e dintorni), fatta propria da tutto il centrodestra sardo e  ormai da molti esponenti della maggioranza regionale di centrosinistra, mi sento invece di invitare a un aperto boicottaggio.
 Si tratta di un’iniziativa referendaria consultiva per chiedere che nella  Costituzione italiana venga inserito il “riconoscimento  dell’Insularità”.
E’, sia ben chiaro, qualcosa che con l’ondata catalana non ha nulla a che fare. Ma è persino meno sensata dei referendum consultivi indetti fra i  rispettivi corpi elettorali dalle Regioni Veneto e Lombardia.
I due  referendum regionali che si svolgeranno a breve nel Continente e che  sono stati giudicati legittimi dalla Corte Costituzionale, infatti,  servirebbero, negli intenti delle due Regioni promotrici, a  precostituire il consenso popolare per avanzare una richiesta di  maggiori poteri ai sensi del terzo comma dell’articolo 116 della  Costituzione, come innovato dalla riforma del Titolo V nel 2001.  L’articolo infatti recita:
 ”Articolo 116
 Il Friuli Venezia  Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Südtirol e la  Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste dispongono di forme e condizioni  particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati  con legge costituzionale.
 La Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol è costituita dalle Province autonome di Trento e di Bolzano.
  Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le  materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate  dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente  all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere  attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della  Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi  di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza  assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione  interessata.
“.
 Chi sostenga che le due Regioni ordinarie, le quali  stanno precostituendo referendariamente le condizioni procedurali per diventare, se non speciali, almeno “differenziate”, stanno sprecando  tempo e danaro pubblico, dovrebbe calibrare meglio il giudizio e non  sottovalutare la portata politica delle due vicende.
 Aggiungerei che, secondo gran parte dei costituzionalisti, non si può ritenere preclusa  alle Regioni speciali un’opportunità concessa alle Regioni ordinarie.  Perciò, se si avesse qualche idea spendibile nell’immediato, una  procedura identica, ai sensi di quel terzo comma dell’articolo 116, la  Sardegna potrebbe intraprenderla per rivendicare maggiori poteri e  funzioni anche senza una modifica dello Statuto speciale vigente -da ottenere nelle forme della revisione costituzionale- e certamente con  finalità pratiche più chiare della rivendicazione dell’insularità.
  Il riconoscimento dell’insularità peraltro era già contenuto  nell’articolo 119 della Costituzione originaria prima della riforma del  Titolo V del 2001.
 Il comma 3 di quell’articolo stabiliva infatti che:
  “Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare  il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna per legge a singole Regioni  contributi speciali.”.
 Quel testo è stato sostituito dall’ultimo comma del nuovo articolo 119, che recita:
  “Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarieta’  sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire  l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a  scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo stato  destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di  determinati comuni, province, citta’ metropolitane e regioni.“.
 La  cancellazione della questione meridionale e della specificità delle  Isole dalla Costituzione italiana fu una gravissima concessione al vento  di destra, non solo alle pressioni leghiste, che il centrosinistra fece  con la riforma cosiddetta “federalista” del 2001.
 L’accidiosa convinzione  secondo la quale questione sarda, questione insulare e questione  meridionale non dovessero esser “mischiate” tra loro (frutto di una  non-lettura locale, colposa o dolosa, del testo costituzionale  originario), indusse anche tutte le forze politiche e gli ambienti  culturali sardi a un atteggiamento di indifferenza su quella che invece,  a mio avviso (fui forse il primo, se non il solo a dirlo e a scriverlo)  costituiva una vera e propria “secessione unilaterale dall’alto”, che ricacciava la  questione meridionale e le due questioni insulari dal rango di  questioni “nazionali”, gravanti sull’intera Repubblica, al rango di  questioni marginali, periferiche, financo, si, coloniali, proprio perchè rese anonime. Alcuni tra i  più fessi, ammesso che se ne fossero accorti, forse ne trassero la  soddisfazione di una sorta di disvelamento, a conferma delle proprie tesi.
 Sennonché, tra le norme costituzionali non toccate dalla  revisione del Titolo V e nemmeno contrastanti nè incompatibili col nuovo  testo della Carta attualmente vigente, ne è rimasta una proprio al  centro dello Statuto speciale della Sardegna, nel testo rimasto immutato dal  1948 a oggi e in base al quale l’insularità, almeno per la Sardegna, è e resta “costituzionalizzata”.
 E’ l’articolo 13, che continua a dire:
 ”Art. 13.  Lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per  favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola.”.
 Trasporti  interni ed esterni, infrastrutture, energia, aiuti alle imprese, servizi  essenziali alla comunità: tutto ciò che da soli non abbiamo i mezzi per  fare e che compete allo Stato in concorso con la Regione di assicurare anche con mezzi straordinari -in virtù dell’obbligo per la Repubblica di  rimuovere gli ostacoli, compresi quelli territoriali, che provocano  disuguaglianze, secondo l’articolo 3 della Costituzione-  rientrano lì,  in quell’articolo 13 che la classe politica sarda di ogni colore, in  atti e in fieri, colpevolmente lascia negletto per coltivare e per  giustificare la sua (e la nostra) subalternità.
 Altro che Catalogna: venditori di orologi taroccati, si aggirano sempre più su quest’Isola politicamente tanto sfortunata.

3 commenti

  • 1 Oggi martedì 17 ottobre 2017 | Aladin Pensiero
    17 Ottobre 2017 - 09:45

    […] Insularità, referendum e venditori di orologi taroccati 17 Ottobre 2017 T. D. su Democraziaoggi. […]

  • 2 admin
    17 Ottobre 2017 - 10:27

    Da Andrea Pubusa
    Caro Tonino,

    fai bene a sferzare questa classe politica inetta, che prima ha eliminato la questione meridionale dalla Carta e ora intende riproporla senza rendersi conto che la Sardegna con l’art. 13 ha, dal punto di vista costituzionale, molto di più.
    La verità è che si è persa, a destra e sinistra, consapevolezza della pregnanza e della forza dei principi costituzionali e statutari. Invece, ai tempi, non solo il PCI, ma anche la DC e gli altri partiti cc.dd. autonomisti su questi temi, al di là dei risultati, alimentarono un dibattito e un’azione politica, ineguagliata nella storia sarda. dal Congresso del Popolo sardo alla lotta per la Rinascita.
    L’originario art. 119, che tu giustamente richiami, e che in pochissimi (inascoltati) abbiamo difeso nel 2001, costituzionalizzava la questione meridionale, frutto della elaborazion dei grandi pensatori e politici antifascisti della prima metà del Novecento, da Gramsci a Sturzo e a tanti altri cattolici, comunisti socialisti. Basta leggere gli atti dell’Assemblea costituente per rendersi conto del fatto che i costituenti intendevano porre rimedio ad una delle grandi storture del processo unitario italiano, a partire da una corretta interpretazione della storia italiana e di quella meridionale, brigantaggio compreso.
    Oggi di tutto questo si è persa traccia. Si punta al titolone sul giornale e alla corsa a non star fuori dalla notizia. Si concorre così irresponsabilmente ad affondare l’isola. Altro che insularità!
    Dalle grandi questioni, tuttavia, bisogna ripartire, anche da quell’art. 13, che fu allora una novità costituzionale assoluta e che rimane oggi un modello di intervento, incompatibile con ogni leghismo e falso indipendentismo: la questione sarda come centrale questione nazionale, da affrontare dalla Comunità nazionale per il tramite dello Stato, ma col concorso della Regione sarda. Ma, ahinoi!. manca la materia prima, culturale e politica, a Roma come da noi. La sinistra sarda, prolverizzata in una decina di sigle, da qui dovrebbe ripartire per uscire dalle chiacchiere, dagli incontri rituali e inconcludenti, o peggio dalla subalternità alle sgangherate iniziative altrui.

  • 3 aldo lobina
    17 Ottobre 2017 - 17:26

    Anche io in Sardegna ho visto gente che camminava stando ferma, perché le chiacchiere insulari proprie e altrui la spingevano davanti.
    L’imminenza di appuntamenti elettorali per costoro è occasione ghiotta per prese di posizione ad effetto, demagogiche, tendenti a richiamare l’attenzione su se stessi e sulla propria parte politica.
    Darsi d’attorno e agitare l’insularità, battersi a parole per questioni che un’attenta riflessione sullo Statuto e sulla Costituzione già contemplano, senza avere sviluppato nel tempo iniziative concrete, cioè proposte di legge in sintonia con lo spirito di quegli strumenti, evoca icone fulgenti di mercanti nel tempio, dove occupano coi loro banchetti materiali e virtuali spazi di democrazia scontata, a saldi, in salsa sardista. Ingrediente ubiquitario di tante battaglie elettorali, più spesso avvilito, se non addirittura vilipeso: penso alla riforma amministrativa, a quella sanitaria, a quella elettorale. Penso.. penso e mi arrabbio anch’io, perdendo la pazienza.

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