Un ricordo a proposito della banalità del male a Lodi

17 Ottobre 2018
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Andrea Pubusa

La vicenda dei bambini poveri di Lodi, esclusi dalla mensa comune, mi ha fatto ricordare un antico episodio delle mie “elementari” a Carbonia all’inizio degli anni  ‘50. A scuola c’era la mensa scolastica, la “refezione”, così era chiamata. In effetti era un pasto semplice, sobrio per i bambini poveri, che veniva consumato in comune da chi vi era ammesso. Allora a Carbonia vi erano due classi sociali, una dei minatori, poveri per definizione, ed una formata da commercianti o da impiegati o dirigenti della miniera, senz’altro ricchi o benestanti. Una divisione un po’ meccanica, perché c’erano piccoli commercianti con introiti alla stregua dei minatori. La divisione si ripercuoteva fra i figli e, a scuola, fra i bambini, proprio in relazione all’ammissione alla mensa per la refezione.
Comunque, io stavo fra i ricchi per via del piccolo esercizio commerciale dei miei. Tant’è che la maestra spesso mi chiedeva di acquistare la polverina per fare l’inchiostro, da mettere nei calamai sui banchi. Allora non esisteva ancora la biro; si scriveva, previo intingimento del pennino nel calamaio, che nei banchi di scuola era in bachelite, infisso al centro nella parte alta del banco. Per non deludere la mia brava maestra, provvedevo a girare la richiesta in casa, anche se i miei genitori non capivano perché proprio a noi questo onere, ossia perché venivamo annoverati fra i “ricchi”.
Fatto sta che noi bambini “ricchi”, quando giungeva l’ora della refezione, non potevamo seguire in mensa i nostri compagnetti poveri, che, allegri e in folto gruppo, si recavano a consumare il pasto in comune. E, benché non fosse frutto di una discriminazione perché era giustificata dalla nostra “agiatezza”, quella esclusione ci pesava. La sentivamo come una ingiustificata discriminazione. Avremmo - noi pochi “privilegiati” - voluto continuare a far parte del gruppo che si recava in mensa, quasi l’intera classe. Tant’è che spesso qualcuno di noi cercava di intrupparsi fra i poveri per stare in quella allegra e vociante compagnia; ricordo la felicità quando, talvolta, riuscivamo ad avere graziosamante una deroga dalla maestra.
Posso immaginare dunque quale sia lo stato d’animo dei bambini discriminati a Lodi, apparentemente per ragioni burocratiche, in realtà per motivi razziali. Se io, ad oltre sessant’anni di distanza, ricordo ancora come un ingiustificato distacco dai compagnetti, una devisione che mi vedeva fra i “privilegiati”, immaginiamoci come colpirà gli alunni di Lodi esclusi dalla mensa per motivi razziali.
Mi chiedo come una donna (il sindaco è donna) possa arrivare a tanto. Ma di fronte a tutte queste cose penso alla “banalità” del male, al suo miserabile burocratismo, a Lodi contro dei bambini, e, a parti invertite, a Riace contro il sindaco.

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