La grande bugia della meritocrazia

26 Dicembre 2018
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Da Micromega riprendiamo un tema che incide fortemente nel determinare e giustificare le forti disuguaglianze sociali del mondo attuale. Sul tema interessanti anche le pagine de L’Internazionale in edicola.

A partire dal libro di Michael Young e dal lavoro di Kwame Anthony Appiah (passando per Aristotele), una riflessione che spiega come il concetto, tanto sbandierato, sia una “fregatura ideologica”: l’ideale della meritocrazia è strumento – potentissimo – di un’élite della ricchezza e del privilegio. Bisogna sposare, invece, una distribuzione “giusta” di status, ricchezza e potere che sia meno escludente, meno gerarchica, meno umiliante per i molti, e meno assolutoria per i pochissimi.

di Mirko Canevaro

Il futuro distopico immaginato da Michael Young, nel suo L’avvento della meritocrazia, è oggi. Non soltanto perché mancano solo 15 anni al 2033 – la data drammatica del suo trattato fanta-sociologico – ma piuttosto perché la “meritocrazia” è ormai chiave di volta del nostro ordine di riconoscimento. Young, grande sociologo, attivista e politico britannico, autore nel 1945 del manifesto elettorale che portò il Partito Laburista al governo e diede avvio al primo fondamentale esperimento socialdemocratico europeo, coniò il temine “meritocrazia” esattamente sessant’anni fa, nel 1958, per farne l’oggetto di una critica profetica. La sua vita, le sue idee, e soprattutto la sua critica della “meritocrazia” sono al centro di un recente editoriale del filosofo Kwame Anthony Appian (NYU), sul Guardian (e su L’Internazionale 14/20 dic. 2018 - NDR): per Appiah le nostre società contemporanee non sono veramente meritocratiche, ma, al contrario, è proprio l’ideale meritocratico che giustifica le consolidate diseguaglianze che le piagano, che garantisce il dominio dell’1% e contribuisce a mantenere il 99% zitto, rassegnato e docile. Nella distopia di Young, la distribuzione della ricchezza, del potere e dello status è determinata da una semplice formula: “quoziente intellettivo + impegno = merito”. Eccetto che, in realtà, il quoziente intellettivo e l’impegno sono anch’essi, almeno in parte, determinati socialmente – sono funzioni dell’ambiente familiare e culturale, degli stimoli ricevuti, delle opportunità educative – e chi è in cima (a prescindere da come ci sia arrivato) inevitabilmente “tenterà di ottenere ingiusti vantaggi per i suoi figli”. Così, questa “meritocrazia” di Young finisce per diventare una società divisa rigidamente in due classi – i ricchi e i poveri – ma con la beffa ulteriore che i ricchi sono fermamente convinti di meritare la propria superiorità, di essersi fatti da soli, mentre i poveri si devono rassegnare ad un’inferiorità concepita come “naturale”.
La riflessione di Appiah sulla vita di Young, e sulla sua critica alla meritocrazia, è al contempo una sintesi dei temi centrali della riflessione filosofica dello stesso Appiah, su onore e identità. Nella sintesi del filosofo ghanese-britannico-americano la meritocrazia non è tanto un sistema politico, ma piuttosto un “codice d’onore” (il titolo di un suo famoso volume del 2010) – uno tra i tanti possibili. È cioè un ordine normativo imposto socialmente ma al contempo interiorizzato dagli attori sociali. Quest’ordine normativo è, al fondo, un ideale di giustizia distributiva – regola la distribuzione di status, potere e ricchezza – che sfrutta i meccanismi motivazionali dell’onore e della vergogna. E funziona non tanto nelle istituzioni, ma nella testa delle persone. C’è l’ideale meritocratico, per dire, dietro alla convinzione di certi baroni universitari di avere il diritto di sfruttare e maltrattare i giovani ricercatori; c’è l’ideale meritocratico dietro all’idea che sia appropriato per un consulente pubblico dalle dubbie qualifiche guadagnare di più del presidente della repubblica; e c’è, ancora, l’ideale meritocratico alla base della certezza del super-manager di turno – un qualsiasi Briatore – di meritare compensi miliardari a fronte di una forza lavoro sfruttata e affamata. Perché, in fondo, visto che viviamo in una società meritocratica, se il super-manager non meritasse i suoi compensi da capogiro non li riceverebbe. E, allo stesso modo, è l’ideale meritocratico che convince il giovane disoccupato italiano di non valere nulla – se valesse qualcosa, avrebbe un lavoro e verrebbe pagato per quanto vale. La meritocrazia allora non è tanto un sistema efficiente il cui fine e valutare talenti e qualità per fini pragmatici e particolari (come forse dovrebbe essere), ma piuttosto un codice d’onore contingente e legato a un contesto specifico (e a una gerarchia sociale specifica), la cui funzione è giustificare l’esistente, al contempo mascherandosi da criterio valoriale innocuo e “naturale”.
Queste riflessioni richiamano da vicino quelle sviluppate da Aristotele nel discutere le cause della stasis (il conflitto civile) al principio del libro V della Politica. Aristotele analizza le motivazioni dell’“azione rivoluzionaria” per come si manifestano nella psiche del “rivoluzionario”, e le descrive come una battaglia tra ideali diversi e alternativi di giustizia distributiva. L’oligarca è convinto che, dal momento che possiede una porzione maggiore di beni materiali, abbia diritto a una porzione maggiore anche di tutto il resto: di onori e di potere. E per questo si attiva per creare un sistema politico (una politeia) che attualizzi questa particolare nozione di giustizia distributiva e nel quale, naturalmente, lui si ritrovi in cima alla gerarchia sociale. Allo stesso modo, il democratico è convinto, dal momento che è un uomo libero, di avere diritto a porzioni di potere, onori e ricchezza uguali a quella di ogni altro uomo libero, e si attiva di conseguenza per creare una politeia allineata a questo ideale. Entrambi considerano i loro specifici ideali di giustizia distributiva come “naturalmente” giusti, e valutano il proprio merito – il proprio valore – e quello altrui di conseguenza. Se poi l’azione rivoluzionaria è vincente, queste nozioni di giustizia distributiva diventano giustificazione normativa di un nuovo ordine sociale e politico che è modellato su di esse. I “rivoluzionari” aristotelici, dunque, inseguono tanto una rivoluzione politica quanto, per usare ancora un’espressione di Appiah, una “rivoluzione morale”: inseguono la transizione verso un nuovo “codice d’onore” su cui si fondino non soltanto nuove strutture sociali, ma la percezione stessa del valore dell’individuo – del proprio valore come di quello altrui.
Come gli ideali di giustizia distributiva che, secondo Aristotele, stavano alla base delle rivendicazioni degli antichi democratici e degli antichi oligarchi, così l’ideale meritocratico è il “codice d’onore” delle élite del nostro tempo – del famoso 1%. Le dinamiche dell’onore sono sempre dinamiche di gruppo, di inclusione ed esclusione da un gruppo. Ma è qui che la riflessione di Appiah su onore e identità – che attraversa più libri e articoli – offre ancora una volta un contributo importante: non si tratta tanto del gruppo effettivo a cui apparteniamo, ma piuttosto del gruppo che abbiamo interiorizzato – il gruppo a cui immaginiamo o aspiriamo di appartenere. Si tratta cioè dell’identità di gruppo che scegliamo per noi stessi e che attribuiamo agli altri. Nel suo ultimo libro Appiah cita un passo del sociologo americano Alvin W. Gouldmer: “a diverse identità sociali corrispondono diverse aspettative, diverse configurazioni di diritti e doveri”. Le diverse identità sociali, cioè, implicano diversi “codici d’onore” (o, con Aristotele, diversi ideali di giustizia distributiva), e onore e vergogna sono i meccanismi che li rendono vincolanti. L’ideale della meritocrazia come codice d’onore delle élite contemporanee è efficace perché è interiorizzato non solo da chi di quelle élite fa parte, ma anche e soprattutto da chi ne è escluso – essere considerati (e considerarsi) parte di quel gruppo, o almeno esservi contigui, è sempre di più l’unica distinzione che conta davvero, il punto di riferimento ultimo, per sempre più individui, nel definire il valore di sé stessi e quello altrui, fonte di orgoglio e di vergogna. Le identità sociali sono i vincoli che ci legano (“the ties that bind”), che ci permettono di funzionare socialmente e di cooperare. Ma non c’è nulla di inevitabile nella scelta o nell’attribuzione di un’identità sociale, e del “codice d’onore” che la accompagna. Per citare Appiah un’ultima volta, le identità sociali sono in realtà “bugie che ci legano” (The Lies that Bind, il titolo del suo ultimo libro).
L’ideale della meritocrazia è strumento – potentissimo – di un’élite della ricchezza e del privilegio. È una “bugia che ci lega”. È pur vero che di simili bugie – le nostre identità sociali con i loro “codici d’onore” – non si può fare a meno, ma è forse il caso di abbandonare questa bugia in particolare, e di trovarci una bugia diversa, più umana, una bugia migliore che funga da fondamento della nostra capacità di cooperare, di essere società: un’idea di distribuzione “giusta” di status, ricchezza e potere che sia meno escludente, meno gerarchica, meno umiliante per i molti, e meno assolutoria per i pochissimi.
(5 novembre 2018)


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