Banche regionali “residenti” e impoverimento della Sardegna

20 Marzo 2019
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Gianfranco Sabattini

Proseguiamo il dibattito sul futuro del Bamco si Sardegna avviato da Antonio Sassu e ripreso dal Prof. Vittorio Dettori.

“…il banchiere … fondamentalmente non è un intermediario della merce potere d’acquisto, ma un produttore di questa merce … Egli sta tra coloro che vogliono introdurre nuove combinazioni [produttive] e i possessori dei mezzi di produzione [in linea di principio, frutto del risparmio]. Egli rende possibile l’introduzione di nuove combinazioni, in un certo qual modo emette a nome della società il mandato necessario per produrle” (J. Alois Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, Firenze, Sansoni, 1977, p. 83.

In un recente articolo apparso sul Blog “Democrazia oggi” del 4 marzo scorso, Antonio Sassu, già Presidente del Banco di Sardegna, lamenta il fatto che, dopo la privatizzazione delle quote pubbliche di partecipazione al controllo del capitale delle istituzioni bancarie regionali “residenti” (Banco di Sardegna e Credito Industriale Sardo), la Sardegna sia stata progressivamente impoverita di quanto di positivo, dopo la privatizzazione, continuavano ancora ad esprimere le originarie istituzioni creditizie bancarie regionale. In particolare, Sassu denuncia che la Banca Popolare dell’Emilia Romagna (BPER), dopo l’iniziale acquisizione della quota di partecipazione azionaria al capitale del Banco di Sardegna, abbia lentamente “mangiato tutto ciò che era disponibile”: prima, “ha ingoiato” la quota azionaria della Findomestic, poi “ha incamerato” la Sardaleasing, trasferendone la sede a Milano, quindi “ha assorbito” la Banca di Sassari e, infine, ha acquistato la quota azionaria residua del Banco, che era rimasta di proprietà della Fondazione di Sardegna. E dire, commenta sconsolato Sassu, che nel momento in cui la BPER acquistava il primo 51% del capitale del Banco non aveva esitato ad affermare che per esso “si sarebbe aperta una finestra sul mondo”. Il risultato finale sarà – conclude Sassu con la sua lamentazione - che il Banco, non solo mancherà di diventare un operatore del mercato finanziario mondiale, ma perderà anche la sua natura di istituzione finanziaria regionale.
C’è da meravigliarsi che il Banco di Sardegna, e con esso tutte le restanti istituzioni finanziarie regionali “residenti”, siano destinate a sparire dalla scena economica dell’Isola? In realtà, la scomparsa del Banco di Sardegna e, in generale, dell’intero sistema del credito regionale “residente”, non è imputabile ai “giochi azionari” svoltisi in capo al controllo della loro proprietà, bensì al loro fallimento, per aver mancato di svolgere un ruolo attivo nei confronti dell’economia reale dell’Isola.
I rapporti tra sistema bancario regionale “residente” e sviluppo economico sono stati in Sardegna oggetto di molti dibattiti e convegni; nell’Isola, considerati i deludenti risultati della politica di crescita e sviluppo attuata dall’inizio degli anni Cinquanta, ciò su cui si è sempre discusso, senza mai giungere ad una conclusione univoca, era se dovesse essere il sistema del credito a svolgere un “ruolo attivo” nella promozione della formazione e dell’evoluzione della struttura produttiva regionale, o se invece dovesse essere la particolare struttura produttiva nata con l’inizio dell’intervento straordinario nell’Isola a determinare il ruolo del sistema del credito, passivamente subordinato agli stimoli ed alle esigenze dell’economia reale, espresse dalle neonate “cattedrali nel deserto”. L’idea critica prevalente, nascente dai dibattiti e dai convegni, era che il ruolo del sistema del credito (con in testa gli istituti di credito regionali “residenti”) nei confronti dell’economia reale dovesse essere “attivo” e non “passivo”. A prevalere però, nella realtà, è stata una prassi che ha visto gli istituti di credito costantemente legati “al carro” di un’economia reale quasi totalmente chiusa alla valorizzazione delle risorse materiali e personali dell’Isola.
Secondo una prima linea di analisi, il mancato ruolo attivo del sistema del credito era imputabile alla anomale organizzazione dell’intermediazione finanziaria regionale; ciò perché l’esercizio del credito in Sardegna era diventato col tempo un sistema prevalentemente orientato alla raccolta piuttosto che agli impieghi; oppure, perché era diventato un sistema di raccolta subottimale del risparmio, per non aver contrastato il consolidarsi o il conservarsi di quote eccessive di risparmio extrabancario (risparmio postale), la cui utilizzazione non sempre veniva resa compatibile con il finanziamento dello sviluppo economico regionale.
Secondo un’altra linea di pensiero, il mancato ruolo attivo del sistema del credito regionale era da ricondursi al fatto che la politica di sviluppo privilegiata aveva favorito la crescita di flussi finanziari anomali, causati dal “modello di industrializzazione forte” attuato; tali flussi, secondo questa linea di pensiero, si sono trasformati in una pluralità di condizionamenti che hanno impedito un equilibrato sviluppo della base produttiva dell’area regionale. Uno dei condizionamenti, forse il più importante (almeno dal punto di vista delle crescita materiale dell’Isola), originato dai flussi finanziari anomali, veniva individuato nell’influenza negativa esercitata sullo sviluppo regionale dal doppio saldo negativo delle bilancia commerciale e della bilancia agro-alimentare della regione. I saldi negativi delle bilance isolane erano considerati come l’inevitabile conseguenza della struttura produttiva squilibrata dell’economia reale isolana, caratterizzata dalla prevalenza di attività industriali ad alto rapporto capitale/lavoro, costituitesi con l’attuazione del “modello di industrializzazione forte”, che aveva dato luogo ad un’alta propensione ad importare, per cui qualsiasi aumento del reddito indotto dall’attività di investimento si trasformava quasi automaticamente in un aumento del consumo di beni importati e, dunque, in una bassa mobilitazione delle risorse finanziarie potenzialmente disponibili nell’Isola da parte del sistema del credito, in funzione dello sviluppo regionale. Queste risorse potenziali, anziché essere destinate a promuovere una equilibrata base produttiva regionale, sono state utilizzate invece a coprire i disavanzi dei conti esterni regionali.
Delle due linee di pensiero circa il mancato ruolo attivo del sistema del credito regionale nei confronti dell’economia reale, la seconda è quella che maggiormente dà ragione del perché la politica di sviluppo attuata in Sardegna non ha sortito gli effetti attesi; ciò consente di accreditare il convincimento che la “perdita” delle istituzioni creditizie regionali non sia iniziata contemporaneamente al processo di privatizzazione delle quote di proprietà pubblica delle istituzioni creditizie; essa (la “perdita”) è iniziata molto prima, allorché le istituzioni creditizie “residenti” hanno rinunciato a supportare la valorizzazione delle risorse materiali e personali regionali, mancando di contribuire al riequilibrio delle base produttiva regionale squilibrata, formatasi con l’attuazione del “modello di industrializzazione forte” privilegiato. La “perdita” delle istituzioni creditizie a vocazione regionale, perciò, è imputabile al loro essersi “legate al carro” di una politica di “crescita senza sviluppo” della Sardegna, nell’aver priori rinunciato ad adempiere la loro “mission” schumpeteriana.
Quanto sin qui detto vale ad evidenziare come un ruolo attivo del sistema del credito regionale (ovvero di quella parte del sistema del credito operante in Sardegna che si identificava con le banche “residenti”: in particolare, Banco di Sardegna e Credito Industriale Sardo), nei confronti di una reale crescita dell’Isola, non potesse prescindere dallo sviluppo di un’equilibrata base produttiva regionale, che poteva essere realizzata se il sistema del credito regionale avesse indirizzato la propria attività verso la promozione e la costituzione di attività produttive finalizzate alla valorizzazione delle risorse regionali, favorendo la loro interconnessione produttiva con i comparti produttivi più idonei a sostenere la crescita delle esportazioni regionali.
Fare a questo punto degli esempi, varrebbe ad allontanarci dal senso generale del discorso; ad ogni buon conto, basti pensare al comparto dei servizi turistici che poteva essere scelto come “comparto strategico”, in funzione del quale le banche cui qui si fa riferimento potevano privilegiare il finanziamento di piccole e medie attività produttive, che avessero inteso, valorizzando le risorse primarie locali, allestire le produzioni di beni destinati a soddisfare il consumo dei turisti: partendo dal presupposto che un “piatto di pastasciutta” consumato in Sardegna da un turista toscano valeva ad evitare una linea di indebitamento della bilancia agro-alimentare regionale uguale al valore di tutto ciò che fosse stato necessario importare per soddisfare il consumo del turista.
Solo l’attuazione da parte delle banche “a vocazione regionale” di una politica del credito siffatta avrebbe prefigurato un loro specifico ruolo attivo, finalizzato ad evitare i guasti connessi all’attuazione del “modello di industrializzazione forte”; guasti che hanno impedito l’avvio di una processo di crescita del prodotto interno regionale. Inoltre, la politica delle istituzioni creditizie regionali avrebbe dovuto essere conforme a criteri diversi da quelli che sono stati invece privilegiati, contribuendo soprattutto ad evitare, per un verso, che la attività finanziate, a causa della loro tendenziale sottocapitalizzazione, fossero portate ad esporsi eccessivamente nei loro confronti; per un altro verso, che le stesse attività finanziate non fossero prescelte in funzione della “sponsorizzazione politica” della quale fossero portatrici.
In conclusione, ciò che la Sardegna ha sperimentato è stata, quindi, una politica di sviluppo che, a causa del mancato ruolo attico delle banche “residenti”, ha mancato di promuovere la costituzione di attività produttive ad effetti diffusivi endogeni, assumendo implicitamente che esse non costituissero una risorsa da cui potesse scaturire l’attivazione di un processo di crescita endogena, in grado di sostenere la rottura e la “fuga” dallo stato di arretratezza nel quale versava la Sardegna.
L’insuccesso della politica di sviluppo attuata è stato causato dal fatto che il “modello di industrializzazione forte” privilegiato era fondato sull’idea che lo sviluppo dovesse dipendere dalla costituzione di attività produttive ad effetti diffusivi esogeni rispetto all’area regionale; ciò significa che l’insuccesso della politica di sviluppo attuata è da ricondursi al fatto che è stata condivisa l’idea che lo sviluppo dell’area regionale dovesse dipendere dalla presenza di attività produttive prive di ogni rapporto con l’ambiente circostante e che queste attività dovessero considerare le attività tradizionali dell’Isola alla stregua di un impedimento che occorreva essere rimosso.
Per i motivi sin qui esposti, la Sardegna è chiamata oggi a compiere un bilancio della propria passata esperienza in fatto di sviluppo economico, per riconoscere che oltre settant’anni di politica di intervento sono solo serviti a migliorare “reddito disponibile” della comunità regionale e non anche il “prodotto interno” della base produttiva complessiva dell’Isola. Ciò, a causa del fatto che, malgrado i notevoli investimenti effettuati al suo interno, non è stata realizzata una base produttiva sufficientemente equilibrata settorialmente e territorialmente; in altre parole, non è stata migliorata la sua capacità di produrre nuova ricchezza idonea a consentire di attivare un processo di sviluppo affrancato dai continui trasferimenti esterni.
La prevalente destinazione dei trasferimenti pubblici al solo miglioramento degli standard di vita dei sardi è divenuta, invece, il parametro in base al quale la classe politica regionale ha valutato il successo della politica di intervento realizzata. In ciò è da rinvenirsi la determinante più evidente dei limiti della politica di sviluppo regionale perseguita; il processo di “industrializzazione forte senza sviluppo” sperimentato ha portato, non allo sviluppo della Sardegna, ma alla riproposizione, in altre forme, della “Questione sarda”, oggi caratterizzata dal fatto che l’Isola, pur avendo accumulato importanti localizzazioni produttive, non è riuscita a liberarsi dalle “secche” sulle quali una politica di intervento casuale ed erratica, affiancata da un esercizio politicizzato dell’attività delle “banche sarde”, estranea alle reali esigenze della base produttiva regionale, ha privato i componenti della comunità regionale della possibilità di poter pensare razionalmente al proprio futuro.
La scomparsa, quindi, di ciò che ancora restava in Sardegna delle vecchie banche “residenti” non può che essere la dimostrazione che la causa della loro “perdita” non è che la conseguenza dell’inadeguatezza dell’azione della classe politica, i cui componenti hanno sempre preferito soddisfare le proprie ambizioni e gli interessi elettorali dei loro partiti e sacrificare l’aspirazione dei sardi ad essere protagonisti del perseguimento di un futuro con minori incertezze rispetto al tempo presente. Cosa occorre ancora ai sardi perché l’inazione chi li governa li spinga ad una vibrata protesta, tale da indurla la classe politica a percepire che la propria inanità è ormai giunta al limite del sopportabile?

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